Un’emergenza nell’emergenza


Costanzo RanciMarco Arlotti | 7 Aprile 2020

L’annuncio di numerosi contagi e decessi dentro le strutture residenziali per anziani sta suscitando notevole allarme nel nostro paese. Queste strutture sono diventate tra i principali focolai di concentrazione e poi di diffusione della pandemia nel territorio. In strutture comunitarie che ospitano sino a cento e più persone anziane, l’entrata del virus è avvenuta sia attraverso le visite dei parenti che il contagio di operatori asintomatici e non ha lasciato scampo alle persone più fragili.

Il forte legame fra la pandemia e la sua diffusione nelle strutture residenziali per anziani rimanda indubbiamente al fatto che, in queste strutture, si concentrano gruppi numerosi di persone purtroppo particolarmente esposte alle conseguenze dell’infezione. Ciononostante, si può ritenere che, proprio perché concentrano al loro interno una popolazione molto fragile, queste strutture avrebbero dovuto, e dovrebbero sempre, offrire una condizione di particolare tutela sanitaria, per quanto riguarda le procedure, i dispositivi di protezione individuale, nonché le misure preventive volte a controllare l’infezione e limitare il contagio.

Alcuni dati appena pubblicati dall’Istituto Superiore di Sanità iniziano a documentare le dimensioni di quella che può apparire come una vera e propria strage. Su 1.634 Residenze Sanitarie Assistenziali campionate a livello nazionale, il tasso di mortalità nei mesi di febbraio e marzo è stato del 9.6% a livello nazionale, ma con enormi differenze regionali: si va dal 5% in Emilia Romagna al 6.4% in Veneto, sino a ben il 19.2% in Lombardia. Da questi dati va detratto ovviamente il tasso di mortalità raggiunto nello stesso periodo di tempo negli anni precedenti.

 

Come mai tutto questo è avvenuto? Si poteva evitare questo risvolto così drammatico della pandemia?

Se queste domande troveranno risposta solo a fronte di indagini mirate che dovranno compiersi (anche per accertare eventuali responsabilità), nel report qui scaricabile collochiamo questi interrogativi nel quadro della situazione attuale delle strutture residenziali nel nostro paese, per comprendere quali sono le condizioni organizzative e finanziarie in cui queste strutture operano. Qual è il loro stato di salute? Quali tendenze hanno prevalso negli ultimi anni?

Le case di riposo rappresentano un’infrastruttura fondamentale del nostro sistema sociosanitario in quanto rappresentano una delle poche soluzioni residenziali e di cura possibili per persone afflitte da gravi disabilità, che non le consentono più di vivere permanentemente nella loro abitazione, tanto più se senza familiari vicini o senza una badante convivente. Stando ai dati Istat (ultimo anno disponibile 2016), nelle strutture residenziali risultavano ricoverati quasi 300.000 anziani over 65, di cui in gran parte ultraottantenni (il 75%), donne (il 75%) e non autosufficienti (il 78%). Si tratta di strutture in cui la specializzazione sanitaria e di cura è oggi dominante su quella abitativa o alberghiera: sono sempre meno “case di riposo” e sempre più strutture residenziali a forte intensità sanitaria. Nonostante la funzione cruciale svolta, in Italia queste strutture accolgono meno della metà degli anziani presenti in analoghe strutture di altri paesi avanzati: il segnale chiaro di uno scarso investimento in questo settore da parte delle politiche.

In sintesi, in Italia il sistema delle strutture residenziali è molto più ridotto che negli altri paesi occidentali e fortemente schiacciato su prestazioni ad elevato contenuto sanitario. Tale aspetto indubbiamente si lega alla centralità assunta nel nostro paese dalla permanenza a domicilio dell’anziano, sostenuta dalle reti familiari e più recentemente dall’emergere del fenomeno degli assistenti familiari (le cosiddette badanti). Tuttavia, anche la carenza di politiche nazionali e di investimenti nel settore ha giocato un ruolo cruciale. Alla luce di ciò, e diversamente dagli altri paesi europei, la componente alberghiera e abitativa della residenzialità rivolta anche a persone in buona salute e con poche necessità assistenziali è pressoché assente e le strutture si presentano come unità di offerta fortemente sanitarizzate per lungodegenti. Dovremmo essere, quindi, di fronte a realtà in grado di offrire importanti garanzie sul piano sanitario e assistenziale. Tuttavia tale aspetto, purtroppo, spesso non si verifica, come hanno mostrato le drammatiche vicende delle ultime settimane.

 

Lo studio del Politecnico, basato su un’analisi dei dati ISTAT 2009-2016, documenta tre tendenze degli ultimi anni:

  • una spiccata sanitarizzazione: aumenta notevolmente la quota di residenze ad alta intensità sanitaria,
  • una fragilizzazione progressiva dei ricoverati: la quota dei ricoverati over 80 aumenta, così come quella dei soggetti non autosufficienti,
  • un processo di privatizzazione delle strutture che sta riducendo il peso del settore pubblico: a fronte della perdita complessiva di circa 25.000 posti letto nelle strutture pubbliche si verifica un aumento di circa 20.000 posti letto nelle strutture private.

 

Queste tendenze si sono sviluppate in un quadro di crescenti restrizioni nell’investimento pubblico. Le strutture residenziali sono infatti finanziate in parte dal Servizio Sanitario Nazionale (che in teoria dovrebbe coprire il 50% dei costi) e in parte dalle tariffe pagate dagli utenti (o dai comuni nel caso di persone indigenti). L’aumento delle prestazioni sanitarie e di un’utenza con spiccati bisogni assistenziali ha aumentato notevolmente i costi a fronte della invarianza, da diversi anni, della quota sanitaria di finanziamento pubblico. Stretti nella morsa tra costi crescenti e carente finanziamento pubblico, le strutture hanno messo in atto diverse strategie di fronteggiamento: l’aumento delle tariffe (a scapito però degli utenti più poveri), il taglio del personale (soprattutto quello medico – ridotto del 15% in sette anni), un fatto paradossale se si pensa che si tratta di strutture sempre più sanitarizzate), la diminuzione del minutaggio assistenziale, la rinuncia al rinnovamento degli edifici e delle attrezzature.

Sono tutti segnali che da soli non spiegano certamente cosa stia accadendo in questi giorni in tali strutture. Si può comunque avanzare l’ipotesi che le condizioni strutturali di fondo del sistema, così come sintetizzate sopra, non hanno certamente favorito l’applicazione di standard qualitativi elevati finalizzati alla tutela sanitaria e assistenziale di una platea di ricoverati in condizioni di grande fragilità fisica, così come degli operatori coinvolti nelle attività di assistenza e cura. Quanto più il sistema si è specializzato nel trattamento della non autosufficienza grave, tanto più la qualità è stata messa a rischio da condizioni finanziarie molto precarie, sicuramente co-determinate da un mancato investimento politico e amministrativo in queste strutture. L’esito è un sistema molto più contratto che in tutti gli altri paesi occidentali, e con standard sanitari e assistenziali bassi e in fase di ulteriore deterioramento.

Tutto ciò impone un ripensamento radicale del sistema della residenzialità socio-sanitaria, in grado di affrontare celermente anche le questioni emerse nell’immediatezza degli eventi recenti. La soluzione non può essere lasciata allo slancio di generosità e di altruismo degli operatori del settore, come la cronaca recente ci racconta presentandoci casi di auto-confinamento nelle strutture degli operatori stessi per limitare l’infezione. Sullo sfondo restano le problematiche di ordine più strutturale che abbiamo qui sinteticamente ricostruito, e che attengono al riconoscimento della strategicità di questo importante settore del nostro sistema sanitario.


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