Note a margine delle attuali proposte sul salario minimo: il parere di Cisl


Gianluca Bianco | 3 Dicembre 2019

Parlare di contrasto alla povertà o anche soltanto di innalzamento di salari bassi attraverso una azione legislativa sul livello minimo retributivo orario, definendo una cifra senza riferimenti analitici di contesto e di merito, a nostro avviso è estremamente riduttivo e rischia di essere fuorviante rispetto ai veri problemi che riguardano invece il tema del salario che ha la necessità di essere affrontato in un quadro molto più ampio di interventi volto ad affrontare la “questione salariale” dentro una più ampia politica dei redditi che interessa le persone, le famiglie. Non esistono soluzioni semplici a problemi complessi, anzi un tale approccio crea ulteriori squilibri e produrre effetti indesiderati. 

Il nostro paese ha attraversato la più profonda e lunga crisi economica che il mondo moderno abbia conosciuto, una recessione a cui è seguita una fase bassa crescita, deflazione e bassissima inflazione, un aumento del debito pubblico seppur contenuto dentro parametri europei, gap strutturali, materiali e immateriali. Un accentuarsi dei fenomeni della globalizzazione e un salto di epoca in termini di innovazione tecnologica investono il mondo del lavoro e le persone che, come evidenziano alcune analisi, vivono nella maggior parte questi cambiamenti non come una opportunità ma come una minaccia per il proprio futuro. Il mondo del lavoro e della produzione di beni e servizi è stato investito profondamente da questi eventi ed ha saputo resistere e reagire solo in parte alle conseguenze tenuto conto degli assetti del nostro sistema produttivo e dei servizi: alcuni studi evidenziano che poco meno del 30% delle aziende che hanno prodotti ad alto valore aggiunto è stato in grado cogliere le opportunità e di innovare e crescere, un altro 30% circa nella fascia intermedia del valore è alla ricerca di condizioni per passare allo sviluppo ma nella quale convivono evidenti difficoltà, mentre circa il 40% sono nelle produzioni di basso valore che rischiano il declino. Tutto ciò impedisce al paese di avere una sana crescita basata su investimenti e innovazione, competitività e produttività di sistema e aziendale estesa in grado di produrre benessere diffuso e buona occupazione per tutti ma rischia di escludere fasce crescenti di persone. Emergono infatti nuove contraddizioni e disuguaglianze sociali che rischiano di minare nei fondamenti della nostra democrazia, una incrinatura del rapporto tra cittadino e stato, un senso di insicurezza e di sfiducia nell’operato delle istituzioni.

In questi anni sono avvenute profonde ristrutturazioni e riorganizzazioni negli assetti produttivi e occupazionali settoriali e aziendali concentrate in aree del paese con un crescente divario tra nord e sud del paese, tendenti polarizzazioni professionali, proliferazione del dumping contrattuale, forte incremento del part-time involontario, false parte iva, lavoro nero e sottopagato, evasione ed elusione fiscale e contributiva. Questo contesto sembra non essere transitorio anzi tendenzialmente destinato a protrarsi nei prossimi anni in assenza soprattutto di un quadro politico che non è in grado di governare in maniera strategica il cambiamento ma rincorre quotidianamente il consenso in una campagna elettorale quasi permanente, con azioni e interventi ad effetto ma disorganici rispetto al quadro delle reali necessità del paese e delle persone. Dentro questo quadro si evidenziano sostanzialmente alcune problematiche che riguardano la “questione salariale” nel nostro paese che devono essere affrontate.

La prima è una bassa crescita dei salari mediani: alcune ricerche ci dicono che il salario medio annuale di un lavoratore italiano nel settore privato nel 2017 è stato di 29.214 €, 10.200 € in meno di un lavoratore tedesco e 8.400 € in meno di un lavoratore francese, siamo al 9° posto su 17 paesi presi UE presi in considerazione. Il trend di crescita della RAL (retribuzione annua lorda) negli ultimi 5 anni è del 2,1%, una sostanziale stagnazione. Se teniamo conto che siamo la seconda nazione nella manifattura europea, è evidente che il problema esista. La bassa crescita dei salari mediani corre parallela alla bassa crescita della produttività, figlia della bassa competitività complessivamente del nostro sistema paese e produttivo, a causa del contesto ed problemi già richiamati, che richiederebbero una strategia di interventi di politica industriale perennemente assenti in Italia. Ma anche dal lato della politica fiscale, con un abbassamento del prelievo fiscale a sostegno della crescita dei salari, come da tempo la CISL chiede, come uno degli interventi per migliorare la qualità della vita delle persone e far crescere i consumi interni, in una ottica più generale di politica dei redditi dei lavoratori e delle famiglie e non di perseguimento di una salvifica retribuzione oraria.

La seconda questione è quella dei salari bassi, e la possibile povertà derivata anche da salari bassi, figlia delle contraddizioni che abbiamo sollevato in precedenza provenienti da una parte del mondo produttivo che per competere evade ed elude il sistema contrattuale nel nostro paese, ma per fare questo dobbiamo uscire dalla generalizzazione del dibattito in corso da un lato e dall’altro dalla pura logica delle media matematiche riproposte da analisi sommarie per individuare i problemi ed affrontarli in una logica selettiva. Il sistema contrattale, considerando la parte salariale, nel nostro paese è forte ed esteso: diverse fonti, ben analizzate nel lavoro del CNEL, evidenziano che una percentuale tra il 10 ed il 15% di lavoratori avrebbero salari inferiori a quelli previsti dai contratti nazionali. Possiamo quindi affermare e sottolineare che l’85/90 % dei lavoratori italiani ha riconosciuto un salario stabilito dai CCNL, che di fatto smentisce la tesi in voga di una crisi del sindacato e della rappresentanza in genere. Un alto tasso di copertura soprattutto se prendiamo a riferimento gli studi comparati sulla situazione europea ai livelli della spesso citata Germania. Quindi è sulla fascia, 10/15 %, che devono essere indirizzati interventi che, come richiesto dal sindacato, consentano innanzitutto la applicazione dei CCNL a partire dal riconoscimento di legge ai minimi salariali definiti dai contratti nazionali. Questo passaggio è fondamentale se lo vediamo in termini di ripristino della legalità anche su fronte fiscale e contributivo. Sostengo di legge che deve essere accompagnato da un robusto rafforzamento degli organi ispettivi che in maniera selettiva devono concentrare il loro intervento nei settori produttivi e nelle aree del paese in cui sono più evidenti le problematicità emerse. Un salario minimo definito dalla legge (nella cifra di 9 € indicata dalla proposta del DdL Catalfo) per quella parte dei lavoratori oggi non coperti dalla applicazione dei CCNL non garantisce la sua efficacia in un ambito in cui la legalità oggi viene di fatto evasa mentre per i lavoratori coperti da contrattazione potrebbe portare vantaggi minimi in un ambito in cui i CCNL forniscono già una ampia tutela dei lavoratori. Il rischio evidente è di un aumento della evasione delle tutele più complessive previste dai CCNL sul piano della sicurezza, del welfare, sugli orari di lavoro, del riconoscimento del salario accessorio che hanno un valore in termini economici per le imprese a cui una parte più consistente di esse potrebbe ricorrere come aggiustamento al costo del lavoro per cercare di rimanere competitive e redditive. La sua introduzione rischia oltretutto di indebolire il sistema contrattuale e della rappresentanza sindacale sia dei lavoratori che delle imprese, innescando meccanismi di disgregazione del sistema, che invece come evidenziato in precedenza andrebbe rafforzato con un intervento a suo sostegno ai fini della sua estensione.

La terza questione sul salario è quella del dumping contrattuale, ossia di contratti siglati da organizzazioni sindacali e datoriali che non hanno requisiti di rappresentatività oggettivamente maggioritarie, che sono proliferati in maniera esponenziale in questi ultimi anni nei settori e per prodotti o servizi a basso contenuto di valore ed in diverse aree del paese, in particolare al sud. Tale fenomeno si può arginare intervenendo sul fronte della definizione del presupposto di organizzazioni sindacali maggiormente e comparativamente più rappresentative previsto dai precetti costituzionali. CISL, CGIL e UIL assieme alle associazioni datoriali nei diversi ambiti settoriali, hanno autonomamente condiviso sistemi di misurazione della rappresentanza sindacale su dati oggettivi e trasparenti la cui registrazione avviene attraverso enti riconosciuti come INPS, INL, CNEL. Anche qui le parti sociali ritengono che un intervento di legge sia possibile ma solo a sostegno delle norme condivise e non in alternativa in sua sostituzione, nel rispetto della autonomia del loro ruolo che ne uscirebbe rafforzato in quanto ad autorevolezza e capacità di incidere nei processi di regolazione in materia contrattazione e nel rapporto tra lavoro e impresa.   Alla domanda quindi se un salario minimo definito per legge possa risolvere sommariamente il problema dei bassi salari e del lavoro povero, noi diciamo di no e lo motiviamo nel merito e abbiamo chiare e concrete proposte. Gli squilibri, la povertà, le discriminazioni che si creano in una società messa sotto tensione dai grandi cambiamenti in corso hanno necessità di essere affrontati e risolti dentro un sistema democratico con un sistema politico in grado di assumersi ruolo e responsabilità di governo che abbiano una visione di prospettiva e strategica ancorata ai principi della nostra costituzione. Costituzione che garantisce e sostiene il ruolo dei corpi intermedi come uno dei fondamenti di una società democratica: ruolo che deve essere rafforzato e valorizzato per garantire crescita e prosperità, benessere e inclusione mettendo sempre al centro il valore della persona.