La legge n. 68/1999: criticità e prospettive


Fabio Pontrandolfi | 16 Novembre 2018

La legge n. 68/1999, attraverso il principio del collocamento mirato, intende dare attuazione al principio costituzionale che vede nel lavoro uno strumento di realizzazione della persona.

Per collocamento mirato dei disabili si intende quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di  lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione.

È evidente che, funzionale alla realizzazione del principio sopra richiamato, è il funzionamento del sistema del collocamento. I centri per l’impiego, per realizzare il matching, devono conoscere approfonditamente, grazie alla presenza di personale qualificato, le esigenze di imprese e lavoratori.

Oggi questo elemento diviene ancor più importante di quanto accadeva prima delle modifiche introdotte nel 2015: per effetto di queste modifiche, in caso di impossibilità di avviare lavoratori con la qualifica richiesta, non è più possibile avviare lavoratori di qualifiche simili, secondo l’ordine di graduatoria. Dunque, è ancor più stringente la necessità che il lavoratore interessato abbia caratteristiche professionali coerenti con la richiesta del datore di lavoro.

 

L’innovazione che impedisce di avviare un lavoratore con qualifica simile rappresenta, dunque, una vera sfida per il sistema del collocamento mirato: il venir meno di tale possibilità (invero piuttosto incoerente con il concetto di collocamento mirato) comporta infatti che in azienda possa e debba essere inserita solamente una persona con la qualifica richiesta dall’azienda.

Varie disposizioni normative vietano al datore di lavoro di richiedere alla persona con disabilità una prestazione non compatibile con le sue minorazioni (art. 10 l.n. 68/1999) ovvero impongono che, nell’affidare i compiti ai lavoratori, si tenga conto delle capacità e delle condizioni degli stessi in rapporto alla loro salute e alla sicurezza (art. 18 D.lgs n. 81/2008).

Secondo la più recente giurisprudenza che ha analizzato il sistema introdotto dalla legge n. 68/19991, “il legislatore ha con questa legge inteso trovare un nuovo e più giusto equilibrio tra le aspirazioni dell’invalido ad un posto di lavoro – che sia confacente alla proprie professionalità – e l’interesse dell’impresa ad un inserimento realmente proficuo dei lavoratori nella compagine aziendale. Si è così introdotto un sistema che non vede nel disabile un soggetto avente diritto ad un posto in virtù di un intervento meramente assistenziale dello Stato, che sia volto ad addossare alle imprese la responsabilità finale della doverosa tutela di alcuni cittadini, ma che in un’ottica diversa individui nel disabile una risorsa per la stessa impresa assicurandogli nello stesso tempo una giusta collocazione in azienda funzionalizzata, nel pieno rispetto della sua personalità, ad attestarne le sue capacità professionali e la effettiva utilità delle sue prestazioni lavorative. In tale assetto normativo – originato dalla necessità di coordinare due valori di rilevanza costituzionale (quello volto alla rimozione degli ostacoli di ordine economico e sociale limitativi del diritto all’eguaglianza tra i cittadini ed al perseguimento di un posto confacente alle capacità professionali di ogni lavoratore, da un lato; e quello rivendicato dalle imprese all’esercizio di una attività imprenditoriale improntata ad una libera iniziativa, dall’altro) – trova piena spiegazione la definizione data nella L. n.68 del 1999, art. 2, al c.d. collocamento mirato, consistente in “quella serie di strumenti tecnici e di supporto che permettono di valutare adeguatamente le persone con disabilità nelle loro capacità lavorative e di inserirle nel posto adatto, attraverso analisi di posti di lavoro, forme di sostegno, azioni positive e soluzioni dei problemi connessi con gli ambienti, gli strumenti e le relazioni interpersonali sui luoghi quotidiani di lavoro e di relazione”.

 

I dati dell’ultima relazione al Parlamento circa l’occupazione delle persone con disabilità mette in luce una delle criticità fondamentali del collocamento mirato: il basso livello culturale degli iscritti, assai lontano dalle esigenze delle imprese.

Il 6, 3% di laureati, il 18,9% con diploma di maturità, il 46,5% con licenza media, il 15,2% con licenza elementare, l’8,1% senza titolo di studio.

A questo scarso livello di preparazione culturale si aggiunge spesso l’assenza di capacità professionali concrete: se l’inserimento della persona con disabilità va visto nella logica della valorizzazione del ruolo di quella persona nel mondo dell’azienda, il matching – a queste condizioni – appare veramente difficile. Spesso, pensare di superare questo profondo gap con corsi di formazione appare difficile, se non addirittura improprio. Di sicuro, occorre evitare che la persona possa “perdersi” in azienda, dovendo, esattamente al contrario, realizzarsi nell’ambiente di lavoro.

Ed allora il ruolo dei centri per l’impiego, soprattutto dopo l’estensione dei principi delle politiche attive contenute nel D.lgs n. 150/2015, assume una valenza ancor maggiore e qualificata, per garantire che tra azienda e persona si crei quell’incontro funzionale alla crescita di entrambe. Se non si riesce a realizzare un matching qualificato nel senso appena detto, il collocamento mirato, invece di diventare una opportunità, diventa un problema, sia per l’azienda che per la persona.

 

Le imprese non scelgono mai di pagare le sanzioni, perché comunque il mancato assolvimento alla quota degli obblighi impedisce la possibilità di partecipare agli appalti; per molte aziende, poi, in una logica di responsabilità sociale dell’impresa, comunque la mancata progettazione in un sistema di accoglimento e di valorizzazione di persone con disabilità, costituisce un problema.

Va considerato, poi, che il mondo imprenditoriale è costituito dal 95% di imprese che hanno meno di 10 dipendenti. L’ultimo dato Istat (2016) rileva che su 4.390.911 imprese attive, 4.180.870 hanno meno di 9 dipendenti.  Le imprese che occupano oltre 10 dipendenti sono 210.041, quindi si può considerare che poco meno di questo numero siano le imprese destinatarie degli obblighi della legge n. 68/1999.

Di queste, 184.098 hanno tra 10 e 50 dipendenti. Quando ragioniamo sulle politiche dell’occupazione delle persone con disabilità dobbiamo considerare il mondo reale: è evidente a chiunque quanto possa essere complesso l’inserimento di una persona con disabilità in una azienda di modeste dimensioni, magari con un livello tale di specializzazione dei prodotti e dei processi che richiedono personale altamente qualificato, dal punto di vista culturale e/o professionale, essendo coinvolte in mercati ad alta competitività2.

Ne sia prova il fatto che, secondo la relazione al Parlamento, dopo la data di riferimento del 23 settembre 2015 (data di entrata in vigore del Decreto), si passa da una media di oltre 2.000 avviamenti al mese ad una di 3.000, con un incremento del 44,6%, dovuto prevalentemente alla introduzione della chiamata nominativa, evidentemente funzionale al matching direttamente tra impresa e lavoratore.

Ancora sul versante della preparazione, dalla Relazione si coglie come l’attale modello normativo sia incoerente rispetto ai dati forniti dalla Relazione al Parlamento. Come noto, il collocamento è territoriale, e quindi ciascuna azienda deve ricercare persone con disabilità nella provincia di riferimento. I dati evidenziano che oltre il 50% delle iscrizioni si concentra comunque nelle Regioni meridionali, dove come noto, è minore la concentrazione del tessuto imprenditoriale, incrementando così il gap tra domanda e offerta di lavoro. Inoltre, solo circa il 3% delle persone con disabilità con il titolo di studio della laurea risiede al nord, dove maggiore sarebbe l’opportunità di impiego.

Va poi considerato che la strutturazione delle imprese, il periodo di crisi, le innovazione del mondo del lavoro non si prestano ad accogliere un mondo del lavoro tradizionalmente orientato al contratto a tempo indeterminato. Le statistiche del Ministero del lavoro ci ricordano che la flessibilità da anni ormai è la regola, ma che solo grazie a questa è stato possibile attivare contratti di lavoro.

Il mondo privato nel 2015 ha fatto ricorso al contratto a termine nel 61,8% dei casi, la pubblica amministrazione nel 74,2% dei casi.

Ridurre o limitare le opportunità di impiego a tempo determinato significa ridurre le opportunità di impiego, o, quanto meno, di contatto tra aziende e potenziali lavoratori, disabili e non.

 

La competizione sui mercati nazionali e internazionali è l’unica soluzione per la crescita, ma un sistema normativo complesso e burocratico che quale il nostro riduce il grado di competitività rispetto ai maggiori paesi europei. Una impresa che non riesce a crescere, anche aumentando la propria composizione numerica, è condannata a rimanere piccola, e non può nemmeno sviluppare la propria partecipazione sociale sul fronte della disabilità.

A questo si aggiungano le difficoltà nell’applicare un sistema normativo come quello dalla legge 68/1999 che, pur partendo da un principio innovativo e condivisibile come il collocamento mirato, in realtà ha tutta una serie di complessità e ed un tasso di burocrazia che diventa un limite anziché essere un supporto. A queste criticità non ha dato risposta il D.lgs 151/2015 perché, invece di venire incontro a queste criticità, ne ha create altre, anche con incoerenti interpretazioni successive, ed ha rimosso elementi di flessibilità.

Si faccia il caso dell’assunzione nominativa: al dato positivo della sua generalizzazione – che ha immediatamente dato risultati positivi con incremento di assunzioni con tale modalità –  ha fatto riscontro una interpretazione ministeriale limitativa, che ne ha escluso la utlizzabilità al momento del superamento del termine di legge per l’avviamento. Ancora, si pensi ai supporti economici: premesso che le imprese non assumono perché hanno il supporto economico, dal momento in cui il legislatore ha previsto dei supporti economici, è il modo di accesso a questi supporti economici che deve profondamente cambiare. Si dice che oggi l’impresa, a differenza del passato, sa immediatamente se ci sono le risorse: al di là della impropria discriminazione tra chi ha il sostegno e chi no, la modifica normativa necessaria non era tanto quella introdotta, quanto la previsione che l’impresa potesse sempre e comunque conguagliare le somme con la contribuzione INPS a fronte dell’assunzione. Ancora: le risorse a favore del reinserimento lavorativo, a causa di un astruso regolamento introdotto dall’Inail, sono rimaste tutte all’Inail3. Ma si pensi anche a tutti i regolamenti e le misure burocratiche (dalla compensazione all’esonero al prospetto informativo alle convenzioni) che limitano molto l’applicazione di una normativa per la quale, invece, sarebbero necessari (almeno per la parte burocratica) automatismi e procedure semplificate. Poi anche altri profili contribuiscono a fare della corretta applicazione della legge n. 68/1999 spesso un vero problema: si pensi al tema del mancato coordinamento con gli obblighi di sicurezza sul lavoro, caratterizzati da un livello di prescrittività talmente pregnante e forte che l’impresa non può e non se deve sottrarre.

 

Partendo dalle norme che riconoscono il diritto al lavoro delle persone con disabilità, su base di parità con gli altri, ivi compreso un ambito lavorativo che favorisca l’inclusione e l’accessibilità alle persone con disabilità, in condizioni di sicurezza e salubrità, ci si rende conto come di questa normativa occorre tenere conto nel momento in cui si va a valutare le potenzialità di quella impresa nell’accogliere persone con disabilità. Il limite principale è che nelle lavorazioni a rischio l’azienda non potrà mai inserire persone con disabilità: è allora incoerente che la base di computo sia determinata anche comprendendo il personale addetto alle lavorazioni rischiose, e lo devo poter fare in automatico e non certo con una procedura complessa e per di più pagando, come se fosse una colpa dell’azienda svolgere certe attività. Questi oneri sono vissuti dalle aziende come un balzello improprio, e non ritengono certo di contribuire così ad una questione sociale. Ancora, sempre in collegamento con il tema della qualità dell’occupazione: il collocamento mirato impone che la persona sia utilmente collocata in azienda, perché solo così può realizzarsi e contribuire attivamente alla vita dell’impresa. In una impresa che occupa, a parte un piccolo nucleo amministrativo, solamente operai specializzati ovvero alte professionalità, in assenza di queste qualifiche nei centri per l’impiego della provincia, ci si domanda perché l’azienda sia chiamata a pagare per un esonero come se fosse una sua scelta svolgere attività così complesse o particolari. E, comunque, l’esonero è parziale, e quindi si vedrà costretta a stipulare una convenzione, per un percorso che non porterà mai ad alcun esito positivo. La qualità del personale iscritto ai centri per l’impiego diviene parametro essenziale per la valutazione dell’adempimento o meno da parte dell’impresa i propri obblighi.

 

In positivo, molti interventi potrebbero agevolare l’incontro tra domanda e offerta: la liberalizzazione delle forme contrattuali (non si ritiene corretto, sempre e comunque, l’obiettivo dell’assunzione a tempo pieno e indeterminato, in considerazione del tipo di disabilità4), l’incremento e la semplificazione della relazione con le cooperative sociali, la liberalizzazione dello strumento della compensazione (che supererebbe l’incoerenza tra distribuzione del tessuto produttivo con la platea delle persone con disabilità), la modifica del riferimento provinciale (che vincola assunzioni, risorse e territorio senza coerenza con il sistema del collocamento mirato), la vera generalizzazione dell’assunzione nominativa ed una maggiore opportunità di partecipazione dell’azienda al percorso di matching tra qualifiche richieste e presenti nei centri per l’impiego.

  1. Cass., 9953/2018
  2. Dalla 8^ Relazione al Parlamento: “La concentrazione degli iscritti di ambo i generi dalla licenza media in giù (rispettivamente intorno al 72% per gli uomini e al 67% per le donne in entrambe le annualità) rivela un elevato deficit di occupabilità, che in relazione alle dinamiche proprie del mercato del lavoro contemporaneo pone significativi problemi riguardo all’efficacia del sistema del collocamento mirato. In maniera certamente non troppo diversa dalla popolazione generale, le persone con disabilità dotate di scarsa o nulla preparazione formativa possono venire incontro con crescente difficoltà alla domanda di lavoro espressa da un mercato che tende a presentarsi sempre più divaricato fra un segmento ad elevata specializzazione ed uno indirizzato verso lavori a bassissima qualificazione, che possono intrappolare i lavoratori in un circolo vizioso caratterizzato da progressiva dequalificazione e depauperamento salariale”.
  3. In contrasto con il principio dell’accomodamento ragionevole, dove la complessità della procedura integra essa stessa un onere sproporzionato per il datore di lavoro.
  4. La limitazione delle modalità contrattuali d’impiego appare in contrasto con il concetto di accomodamento ragionevole, quando la flessibilità integri quell’accomodamento che consente di rimuovere le limitazioni all’impiego.