Quali RSA vogliamo?


Maurizio MottaPietro Landra | 21 Luglio 2020

Il Covid-19 ha portato all’attenzione dell’opinione pubblica la situazione delle strutture residenziali per non autosufficienti (RSA) per la concentrazione di infezioni e decessi provocati dal virus. Ma ha anche aperto un dibattito su come riorganizzare questi servizi. E la fragilità dimostrata nel fronteggiare l’epidemia ha tra l’altro fatto crescere proposte per incardinare più robustamente le RSA nel SSN. Ma come si può concretizzare questa ipotesi? E, soprattutto, che cosa deve essere una RSA, visto che i riordini devono avere come scopo un modello di servizio che si ritenga adeguato? Proponiamo alcuni snodi:

 

a) Le RSA non devono essere “ospedalini”, ossia riproduzioni in minore della struttura ospedaliera, della sua routine giornaliera e del modo di vivere in ospedale. La permanenza in ospedale dura sino alla risoluzione di eventi acuti, le RSA quasi sempre diventano anche “la casa” dei ricoverati, ed è questo lo scenario che va considerato come dominante per modellare il servizio. Tuttavia ciò non deve portare a mortificare la componente sanitaria di questi luoghi, che deve essere ben strutturata e monitorata tenuto conto che accolgono, sempre più, soggetti con gravi patologie in atto, facili alle riacutizzazioni ed a svariate complicanze1. Solo se si riconosce e si rinforza questo aspetto le RSA possono praticare interventi sia per tutelare la salute degli ospiti sia per supportare efficacemente gli ospedali ed il territorio. L’altissima mortalità causata dall’attuale pandemia ha fatto emergere limiti già noti ed evidenziati in passato da geriatri ed associazioni a tutela dei diritti dei malati cronici. Purtroppo l’opinione pubblica ha sovente bisogno di un evento tragico per svegliarsi.

 

b) Le RSA non devono essere luoghi di “custodia” dei non autosufficienti, di mera “badanza” degli anziani affinché siano puliti ed alimentati. Devono invece essere luoghi di “cura”; e questo si ottiene certo garantendo che sappiano intervenire sulle diverse esigenze sanitarie (infezioni incluse), e che ovunque sia appropriato offrano percorsi riabilitativi (una frattura del femore deve ricevere riabilitazione anche in RSA). Questa vocazione riabilitativa andrebbe promossa anche per soggetti provenienti dal domicilio o dall’ospedale: potrebbero affiancarsi alle case di cura riabilitative, con minori costi e sedi più vicine ai familiari. Ma “cura” deve significare “prendersi cura”, ossia implica un insieme di attenzioni il cui obiettivo non è solo “far guarire” (obiettivo peraltro irrealistico in patologie involutive o cronicizzate), e nemmeno solo “medicare” o “riabilitare”; bensì “far vivere nel modo migliore possibile” pur in presenza di gravi limitazioni personali.

Questi primi due criteri non sono un mero gioco linguistico, perché implicano obiettivi molto concreti nella gestione del servizio residenziale, obiettivi che peraltro un ospedale può anche non proporsi, o non essere in grado di gestire.

È cruciale garantire ai ricoverati una vita di relazione il più ricca possibile. E offrire “vita di relazione” implica fantasia organizzativa: presenza di animazione, palestra, attività motorie, ingresso di associazioni e volontari, promuovere e sostenere il rapporto con i familiari (coltivare gli affetti), formazione a questo scopo degli operatori. E chi è costantemente allettato non deve essere a priori escluso da offerte per potenziare le relazioni. Se le RSA sono “luoghi per la cura”, ricordiamo che chi non può coltivare affetti e relazioni si aggrava ed abbandona all’isolamento, e dunque anche questa è una importante forma di cura.

Anche chi soffre di gravi demenze e limitazioni delle funzioni cognitive può fruire di questo approccio, e molte esperienze dimostrano l’utilità di stimoli e offerte relazionali anche per queste patologie. Sono molti i pazienti con gravi demenze presenti in RSA, e per loro è necessario allestire modalità che consentano di “accettare” e gestire i loro comportamenti: alzarsi di notte e muoversi nella struttura, mangiare nelle ore più diverse. Anche evitare di costringerli a comportamenti più “normali” è una forma di cura.

A livello scientifico è ampiamente riconosciuta l’importanza delle terapie non farmacologiche nella cura della demenza; permettono di ridurre il consumo di psicofarmaci, di rallentare il peggioramento dei sintomi cognitivi migliorando la qualità della vita delle persone malate. Possiamo citare C.S.T. (Cognitive Stimulation Therapy), validation, gentle care, pet therapy, doll therapy, terapia del “treno”, geromotricità e molte altre; ognuna è indicata in una data fase di malattia e va naturalmente scelta ed adattata su misura del malato. Implicando una forte presenza delle risorse umane queste metodiche hanno dei costi, non alti considerati i risultati ottenibili, ma che andrebbero conteggiati nell’attribuzione dell’intensità di cura.

In particolare occorre considerare la situazione di quei pazienti affetti da Alzheimer o altre demenze con ancora conservata una buona motilità, sovente con disturbi comportamentali. Talune normative prevedono per essi l’accesso ai NAT (nuclei Alzheimer transitori), luogo strutturato architettonicamente sui loro bisogni e con personale formato ed in numero adeguato. Purtroppo le U.V.G. tendono a ricorrere a questa risorsa assai raramente col risultato che questi malati, inseriti in un nucleo non specifico rischiano di essere sedati, di allontanarsi dalla struttura con gravi rischi, di perdere rapidamente quel che resta della loro autonomia.

 

c) Come ogni struttura residenziale anche le RSA rischiano dinamiche da “istituzione totale”, con la vita scandita solo dai ritmi organizzativi e ad essi subordinata; e dove è in agguato la spersonalizzazione delle persone e di ciò che gli si offre. Perciò “far sentire persona” resta obiettivo cruciale della tutela in RSA ed è attenzione che implica azioni molto concrete: poter portare nella propria camera oggetti e piccoli arredi ai quali si è affezionati, poter farsi rammendare il vestito che ha molti anni ma al quale si tiene molto (magari a cura di residenti capaci di farlo), poter scegliere cosa mangiare e come passare il tempo tra diverse alternative, garantire privacy adeguata (anche con ampia presenza di stanze a due letti e singole).

 

d) È cruciale in una RSA la possibilità di offrire risposte molto differenziate, puntando ad articolare l’ospitalità nel modo più flessibile possibile: minialloggi per anziani fragili ma ancora autosufficienti (ad esempio con priorità a congiunti di chi è ricoverato), nuclei per diversi gradi di non autosufficienza per evitare che in caso di aggravamento il ricoverato debba cambiare struttura. Certo la gestibilità di questa articolazione dipende da molti fattori: il contesto ambientale, i limiti strutturali e logistici, le capacità di investimento del gestore. Potrebbe però essere incentivata, anche valorizzandola come elemento di qualità nelle procedure di autorizzazione e di accreditamento.

In questa prospettiva ha senso anche puntare a RSA che diventino capaci di assumere funzioni oggi gestite dalle cd “case di cura” (degenze post ospedaliere) e dagli “hospice” (cure palliative residenziali). Soprattutto per evitare reiterate movimentazioni dei pazienti, oppure nei territori con insufficienti posti di hospice. Come sottolineato prima per la fisioterapia, favorire la continuità delle cure in RSA dopo un ricovero in ospedale o in caso di necessità di cure palliative, da un lato renderebbe le strutture veramente “aperte” (superando la concezione dell’”ospizio”), dall’altro favorirebbe la permanenza dell’anziano nel suo territorio (le RSA sono una risorsa ormai diffusa), cosa che attualmente spesso non accade, essendo le case di cura poche e dislocate spesso lontano.

 

e) Il numero di ore che gli operatori possono dedicare ad ogni paziente (il cd “minutaggio”), è il tema sul quale si gioca gran parte dell’efficacia degli interventi. Non il solo, perché se le varie figure di assistenza sono numericamente adeguate ma non guidate e formate in modo efficace i benefici sono irrisori. Tuttavia è inequivocabile che gli attuali parametri stabiliti per le RSA sono spesso insufficienti per assicurare le giuste cure. Non per nulla sempre più sovente i familiari pagano di tasca propria per fornire assistenza supplementare (per imboccare, per garantire relazione); vedono gli OSS sfrecciare nei corridoi trafelati oppure percepiscono segnali di incuria e cercano di rimediare per quel che possono. E’ ineludibile la necessità di una revisione al rialzo dei parametri, degli OSS, dei fisioterapisti, degli infermieri, concertata con i rappresentanti dei familiari, dei gestori delle RSA e di quant’altri possono dare il loro contributo per migliorare questa situazione.

L’assurdità dei parametri valutati per stabilire il minutaggio è evidente da tanti dati, ad esempio è ritenuto più “pesante” un soggetto che usa il pannolone essendo totalmente incontinente rispetto ad uno che sente lo stimolo ad urinare ma va accompagnato in bagno da 1 o 2 operatori, operazione che richiede il quadruplo del tempo rispetto a cambiare il presidio igienico. Occorre quindi una rivoluzione anche del modo di valutare delle U.V.G..

 

f) Circa la presenza medica in RSA, schematicamente, si citano 2 modelli: il primo, in vigore in Piemonte, individua la responsabilità del MMG che ha, tra i suoi assistiti, anche i residenti della RSA; il secondo, praticato ad esempio in Lombardia, prevede la presenza di un’èquipe medica specifica della struttura. Vi sono aspetti positivi e negativi in entrambe le modalità. Il primo modello, che rende le RSA più inserite “nell’anima” del territorio, è efficace se i MMG sono positivamente coinvolti nel “fare equipe” con gli operatori della RSA ma richiede, almeno nel modello piemontese, due correttivi:

  • Ai MMG, in virtù di una DGR del 1999, viene riconosciuta una quota aggiuntiva rispetto alla quota capitaria solo per gli anziani in RSA in posti letto in convenzione con il SSN e non per quelli inseriti privatamente. Per i MMG di questi soggetti non è possibile nemmeno fruire dei compensi dell’ADI (assistenza domiciliare integrata) e dell’ADP (assistenza domiciliare programmata). Il risultato è che i medici per assistere pazienti spesso problematici non ricevono retribuzione/incentivo analoga all’intervento al domicilio; i bandi per reclutare MMG per le RSA vanno quindi spesso deserti.
  • Al Direttore Sanitario della struttura vanno attribuite maggiori funzioni gerarchiche per coordinare efficacemente il loro intervento.

Per contro l’èquipe medica tutta interna alle RSA rischia forse di replicare “l’ospedalino” citato, ma può avere il vantaggio di aggredire più tempestivamente alcune criticità e di essere meno ambigua circa le responsabilità.

Inoltre le Aziende Sanitarie, come già accade in alcuni territori, devono facilitare l’esecuzione di accertamenti clinici, un adeguato flusso di risorse quali presidi sanitari (ad esempio deflussori e cateteri), farmaci, materiale protesico e favorire l’accesso degli specialisti (ad esempio psichiatri, vulnologi, palliativisti, ecc.) necessari ad una corretta gestione dei casi ad alta complessità.

 

g) Per la tutela dei non autosufficienti occorre puntare non solo a una “riforma delle RSA”, ma alla messa in opera di un più articolato “sistema delle cure”, e che offra con priorità sostegni al domicilio. In questo contesto bisogna superare la frattura drastica tra servizi domiciliari e residenziali, e invece offrire alle persone opportunità che (quando appropriate) possano fondarsi su un continuum di interventi. Ad esempio RSA anche a sostegno delle cure domiciliari, dove la persona che è assistita al domicilio possa andare a fruire del bagno assistito, e/o della mensa, e/o di momenti di animazione. Oppure possibili RSA progettate come “Centro servizi”, ossia capaci di offrire anche assistenza al domicilio (soprattutto dove i servizi domiciliari del territorio sono fragili): sono interventi già praticati in diversi territori e in ogni caso possibili.

 

h) Poter fruire di un posto letto in RSA con metà del costo a carico del SSN è un diritto esigibile ben precisato nella normativa sui LEA, i livelli essenziali di assistenza (agli articoli 30 e 34 del DPCM 15/2017). Dunque devono essere evitate le lunghe liste d’attesa oggi presenti in diversi territori, che obbligano le famiglie ad impoverirsi per cercare soluzioni a totale loro carico e ricerca del posto. E se i LEA includono questo diritto, allora nel sistema col quale il Ministero della Salute valuta se le Regioni adempiono agli obblighi dei LEA va inserito esplicitamente un indicatore che evidenzi se nelle singole Regioni vi sono liste d’attesa per i posti in RSA in convenzione col SSN, come una delle misure sull’adempimento ai LEA, mentre la valutazione dei LEA trascura questo aspetto.

E la condizione economica degli utenti deve essere utilizzata non tra gli indicatori che definiscono la priorità di accesso agli interventi, visto che si tratta di prestazioni per persone malate, ma solo per determinare la contribuzione al loro costo.

 

Torniamo a una domanda posta all’inizio: cosa vuol dire “incardinare meglio le RSA nel SSN”?  Non c’è dubbio che debba implicare che il SSN deve avere piena titolarietà su questi servizi, visto che sono per persone malate, e non sono “case di riposo” ma “luoghi di cura”. A condizione tuttavia che “curare” sia obiettivo da declinare come chiarito all’inizio, e una maggior competenza del SSN non implichi la rinuncia alle attenzioni e requisiti sin qui esposti. Va peraltro ricordato che la pianificazione del sistema di offerte delle RSA, nonché l’autorizzazione al loro funzionamento, e l’accreditamento dei posti in convenzione con le ASL sono già da tempo funzioni assegnate al SSN (Regioni e/o ASL).

Se come si è detto ciò che va irrobustito è un completo “sistema delle cure” per la non autosufficienza, progettando in modo organico offerte domiciliari e residenziali e loro interazioni, c’è una azione che sarebbe utile promuovere all’interno del SSN (e delle funzioni delle ASL): garantire une gestione integrata delle due componenti, inclusi i raccordi finanziari. Potenziare la tutela a domicilio di non autosufficienti può condurre anche ad un risparmio del SSN, perché spenderebbe meno rispetto ai ricoveri in casa di cura o in RSA. Ma bisogna che questo risparmio sia utilizzabile con flessibilità nel sistema delle cure, evitando rigide separazioni nei bilanci delle ASL tra domiciliarità e residenzialità.

 

Considerando che sarà necessario adottare atti normativi anche nazionali, se non altro per utilizzare le nuove risorse rese disponibili per il SSN ed il welfare, sarebbe opportuno puntare a trasformare gli obiettivi richiamati in precise proposte di disposizioni normative.

  1. Un’analisi puntuale del tipo di utenza è in P. Landra, “Chi sono i malati non autosufficienti (con esigenze sanitarie indifferibili) degenti nelle RSA”, Prospettive assistenziali n°4 del 2019

Commenti

Gentilissimi, graziie per l’analisi, che condivido è pienamente; credo che molti dei problemi nascano da questo punto: Come ogni struttura residenziale anche le RSA rischiano dinamiche da “istituzione totale”.
La burocratizzazione e la parcellizzazione di ogni aspetto dell’assistenza in nome della qualità, in RSA ha generato la riduzione della personalizzazione, in nome di una standardizzazione. Perciò credo che le dinamiche delle istutuzioni totali non siano solo un rischio, ma una certezza. La medicalizzazione dell’approccio rischia di essere una ulteriore spinta verso quelloc he giustamente definite “ospedalino”. Se da una parte la geriatria richiede un approccio sempre più sanitario data da complessità clinica, dall’alatra parte la risposta deve, a mio avviso essere sempre più sociale. Occorre trovare un modello fluido, in cui le persone siano libere di muoversi ( e se cadono, si fermeranno, ma ci ringrazieranno per non averle legate e fermante prima…) mangire dormire e lavarsi a proprio piacemento.
E’ mai possibile che non si possa vivere serenamente almento negli ultimi anni di vita? Chi di noi vorrebbe finire i propri giorni in una RSA?

Se le RSA devono essere il domicilio dell’anziano non autosufficiente non possiamo chiedere che abbiano una funzione sanitaria importante. A mio avviso le RSA sono i reparti di medicina interna di 10 anni fa, devono essere finanziate non al risparmio ma secondo i veri costi.
Mi permetto di dissentire in merito al risparmio dell’assistenza domiciliare rispetto alla residenzialità: l’assistenza domiciliare mediamente sono 4 ore alla settimana per cui se il paziente ha veri bisogni tali risorse sono sprecate

Grazie dei commenti e mi permetto due osservazioni:
a) da molto tempo sono in RSA persone con gravi compromissioni sanitarie, certo più croniche che acute (come la demenza), e dunque non è impossibile gestire contemporaneamente una forte tutela sanitaria e una attenzione alla possibile vita di relazione. Peraltro è inevitabile, salvo tornare a un regime di “ospedali cronicari” che appare anche francamente irrealistico
b) un’assistenza tutelare (non fatta di atti sanitari e solo di infermieri od OSS) mirata al supporto negli atti della vita quotidiana deve diventare un LEA esigibile, e certo non per offrire solo 4 ore settimanali. E’ una scelta cruciale da fare proprio ora, anche con le nuove risorse per il SSN (e in un articolo che è su questo sito avevo provato a esporre perchè e come il SSN c’entra col tema). M. Motta