Immigrati e rifugiati sul territorio: le motivazioni dell’ostilità


Maurizio Ambrosini | 13 Marzo 2018

La cosiddetta crisi dei rifugiati degli ultimi anni ha esercitato un vasto impatto sul dibattito politico nell’Unione Europea e segnatamente in Italia. Anche le recenti elezioni generali ne hanno certamente risentito. Tuttavia, mentre la percezione della maggior parte dell’opinione pubblica è quella di un flusso enorme e sregolato di esseri umani, l’84% dei rifugiati sono accolti in paesi del cosiddetto Terzo Mondo (UNHCR, 20171). L’Unione Europea ne accoglie meno del 10%.

I primi paesi del mondo per numero di migranti forzati accolti sul proprio territorio sono tutti esterni all’Unione Europea, con la Turchia in prima posizione, mentre il Libano spicca di gran lunga per il rapporto tra rifugiati e abitanti: 169 ogni 1.000 abitanti, senza contare i palestinesi insediati nel paese da decenni. Per l’Italia il dato corrispondente è di circa 6. Alcuni dei paesi che sostengono i maggiori numeri di rifugiati sono classificati tra i più fragili del mondo secondo l’indice di sviluppo umano dell’ONU (Uganda, Etiopia).

 

A dispetto di questi dati, i confini hanno ripreso una posizione di primaria importanza sull’onda della nuova domanda di sicurezza e protezione contro aggressioni, infiltrazioni dall’esterno e intrusioni. La sorveglianza dei confini, l’identificazione dei viaggiatori e la selezione degli stranieri ammessi sul territorio nazionale hanno ricevuto una nuova investitura sul piano politico.

Nell’Unione Europea si sta sviluppando un “neo-nazionalismo”, di cui il gruppo di Vysegrad è l’espressione di punta (Polonia, Ungheria, Repubblica Ceca, Slovacchia). Ma il fenomeno ha ormai esteso la sua influenza nelle relazioni internazionali accrescendo la capacità degli Stati di controllare gli attraversamenti dei confini. Inoltre, gli studi sul tema hanno notato una crescente determinazione e coerenza degli sforzi da parte degli attori politici per acquisire un maggiore controllo sull’immigrazione e sulla presenza di migranti e richiedenti asilo.  E’ ancora più vera che in passato l’asserzione secondo cui i governi nazionali hanno esteso la rete degli attori coinvolti nel monitorare ed eseguire controlli sulle migrazioni verso l’alto, in istituzioni sovranazionali, verso il basso, investendo le autorità locali, e verso l’esterno, impegnando attori privati come i vettori aerei, le aziende di trasporto, gli imprenditori e le agenzie di sicurezza. I governi europei hanno inoltre manifestato una convergenza sull’esternalizzazione dei controlli, stipulando accordi per ingaggiare i paesi di origine e di transito dei flussi di migranti e richiedenti asilo. I recenti esempi degli accordi con Turchia, Niger e Libia confermano queste affermazioni.

 

Queste tendenze istituzionali riflettono le pressioni delle opinioni pubbliche e una crescente domanda di chiusura verso rifugiati e immigrati. Sul piano locale, questi sentimenti si esprimono in modo visibile nelle proteste contro l’insediamento di centri di accoglienza per richiedenti asilo. E’ sul territorio che le persone devono essere protette, trovare una risposta alle loro necessità, avere l’opportunità di ricostruire la propria vita, progettare un futuro. La tutela sancita dalle convenzioni internazionali e le politiche nazionali dell’asilo hanno una ricaduta a livello locale. Le battaglie pro e contro l’accoglienza si combattono quindi sempre più sul territorio.

Proprio qui, di fatto, l’accoglienza dei richiedenti asilo è stata attivamente contrastata da autorità locali, attori politici e gruppi di residenti. I poteri locali sono coinvolti nella costruzione di confini tra la comunità locale e i nuovi arrivati. Anche quando le relative politiche sono decise primariamente a livello nazionale, come nel caso dell’accoglienza dei richiedenti asilo, i governi locali e gli attori politici assumono un ruolo: possono collaborare e favorire l’integrazione delle persone sotto protezione internazionale, oppure protestare e lottare contro il loro insediamento.

 

In Italia solo 758 enti locali (dato del febbraio 2018) hanno accettato di collaborare con il Ministero dell’Interno accogliendo progetti SPRAR, di cui avrebbero la titolarità e il controllo. In tutto, 36.000 posti circa. Inoltre, il Mezzogiorno, con l’aggiunta del Lazio, risulta comparativamente più disponibile verso la partecipazione a progetti SPRAR del Centro-Nord. Globalmente, le regioni del Sud e le Isole offrono il 49,2% dei posti SPRAR disponibili a livello nazionale. In testa alla graduatoria troviamo infatti la Sicilia (4.839 posti), seguita dal Lazio (4.467), dalla Calabria (3.717) e dalla Puglia (3.459). Il Veneto si è impegnato soltanto per 784 posti, il Piemonte per 1.986, la Lombardia per 2.441, la Liguria per 1.038. Si può chiosare: diversi sindaci e amministratori locali del Sud hanno colto nell’accoglienza dei rifugiati un’opportunità di attrazione di fondi statali, di creazione di occupazione a favore della popolazione residente, di incentivazione dell’economia del territorio, oltre che di promozione di un’immagine positiva di luoghi marginali, misconosciuti e semiabbandonati: un’originale e riuscita operazione di marketing territoriale. I casi di Riace e di altri comuni calabresi sono diventati famosi a livello internazionale.

Nella maggior parte dei casi, i rifugiati vengono accolti nei Centri di Accoglienza Straordinaria (CAS) (circa 160.000), che fanno capo alle Prefetture e non coinvolgono i Comuni, che spesso protestano più o meno rumorosamente. I rifugiati sono così spesso intrappolati in una classica situazione di capri espiatori: arrivano in gruppi, senza essere invitati o autorizzati, risultano facilmente visibili, per di più ricevono aiuti pubblici, che alimentano risentimento tra i disoccupati o i cittadini poveri, per i quali le misure di sostegno sono generalmente inadeguate. Problemi di sicurezza, attacchi terroristici, timori di crescita delle attività illegali sono altri fattori che alimentano le campagne ostili ai richiedenti asilo. Si attua nei loro confronti uno specifico processo di stigmatizzazione, sotto forma di disconnessione tra l’autorizzazione formale a risiedere e un riconoscimento sociale che invece viene negato: non solo i cittadini (nativi) respingono l’accoglienza dei richiedenti asilo, ma parecchie autorità locali sposano gli atteggiamenti ostili ai rifugiati e fomentano pubblicamente discorsi xenofobi, dimostrazioni di piazza e atti di disobbedienza contro il loro insediamento.

Per di più, le comunità locali possono presentarsi come vittime di decisioni assunte da istituzioni nazionali distanti e indifferenti. Il complesso vittimistico è un tipico frame delle politiche xenofobe, giacché consente la costruzione comunicativa di una facile opposizione tra “Noi”, la comunità locale pacifica e integrata, e “Loro”, gli estranei, portatori di pericoli, insicurezza, depauperamento delle risorse del welfare. Su questo registro, gruppi e movimenti di estrema destra sono riusciti a costruire alleanze con comitati, assemblee e gruppi spontanei di cittadini.

A questo si aggiunge l’accusa nei confronti della “falsa solidarietà” delle ONG corrotte e del “business dell’accoglienza”: dai salvataggi in mare all’ospitalità sul territorio, non senza aver trovato alcuni riscontri a livello giudiziario, si elabora una narrazione che vede occulti interessi economici dietro le attività umanitarie. Il fatto che l’accoglienza venga gestita da soggetti del terzo settore e generi posti di lavoro occupati soprattutto da giovani si trasforma nelle arene locali in un elemento di biasimo, anziché di apprezzamento.

Questa visione promuove in tal modo l’idea che “Noi” siamo sotto attacco e abbiamo il diritto di difendere noi stessi, le nostre famiglia, case e proprietà. L’accoglienza dei rifugiati viene facilmente collegata ai problemi della criminalità e del degrado urbano, persino a questioni di igiene pubblica e di prevenzione contro possibili epidemie. Il territorio stesso cambia di statuto: da spazio pubblico a cui chiunque può avere accesso, a proprietà privata dei residenti storici, come una sorta di estensione della casa. Non per niente uno dei più noti slogan xenofobi reclama “padroni a casa nostra”.

Non va trascurata per completare l’analisi una funzione latente delle mobilitazioni anti-rifugiati: la scoperta di un pericolo di invasione che minaccia il territorio riaggrega società locali frantumate e disperse: ricrea un Noi, un senso di comunità e di appartenenza, sebbene paranoide, ossia nutrito di sentimenti di avversione verso il diverso. Gli abitanti si riscoprono uniti e solidali nei confronti del nemico. Si coglie quindi un paradossale beneficio nel mobilitarsi contro le presunte invasioni: sentirsi vittime, e insieme sentirsi comunità, riaffermando la propria identità di abitanti del territorio.

 

Quando il processo prosegue, si può intravedere un elemento di speranza. La mobilitazione è particolarmente intensa di fronte all’annuncio dell’apertura di una struttura per l’accoglienza dei richiedenti asilo: quando cioè la minaccia ha contorni indistinti e fantasmatici. Dopo l’arrivo, quando i nuovi arrivati acquistano un volto e un nome, almeno una parte delle paure si sgonfia e il clima sociale generalmente migliora. Quando si passa dalla minaccia oscura e immaginata al rapporto con le persone in carne e ossa, parecchie avversioni si stemperano e l’accettazione tende a crescere, a volte si traduce in conoscenza e sostegno. Qui esercitano un ruolo i gestori delle strutture di accoglienza e gli stessi rifugiati: se partecipano a progetti di utilità sociale, si mostrano educati e rispettosi, hanno più probabilità di ottenere riconoscimento. La conoscenza reciproca tende a dissipare paure e pregiudizi.

  1. UNHCR, Global trends. Forced Displacement in 2016, Geneva, 2017