Integrare i rifugiati: il primo Piano nazionale, e poi?


Finalmente, un Piano

A fine settembre è stato varato dal Ministero dell’Interno il primo Piano nazionale per l’integrazione dei titolari di protezione internazionale. Ed è stato un coro di consensi circa la sua necessità, i suoi contenuti, lo scenario che delinea. In Italia, titolari di un permesso di soggiorno per motivi di protezione internazionale sono 74.853, mentre coloro che sono ospitati nelle strutture di prima e seconda accoglienza sono circa 200.000. Gran parte di questi chiedono protezione internazionale, in un numero che – come spiega Maurizio Ambrosini su questo sito – è aumentato nel corso degli anni.

Gli obiettivi del Piano sono essenzialmente quelli di identificare un quadro di priorità per il biennio 2017-2018 e di promuovere l’attuazione di politiche e programmi di più largo respiro. Il Piano stabilisce tre criteri generali:

  1. L’integrazione è un processo complesso che parte dalla prima accoglienza e ha come obiettivo il raggiungimento dell’autonomia personale.
  2. L’integrazione richiede la sensibilizzazione della popolazione che accoglie, e deve essere basata sui territori, nelle realtà locali e integrata nel welfare esistente.
  3. Specifica attenzione va dedicata alle persone con maggiori vulnerabilità, come le donne rifugiate e vittime di tratta e i minori stranieri non accompagnati.

Il Piano contiene quelle che possono essere considerate linee di indirizzo, che dovranno trovare declinazioni operative stringenti, con particolare riferimento a:

  • Promozione del dialogo interreligioso;
  • Apprendimento della lingua italiana;
  • Accesso all’istruzione e riconoscimento dei titoli e delle qualifiche acquisiti nel paese di origine;
  • Formazione e valorizzazione delle capacità;
  • Accesso all’assistenza sanitaria;
  • Accesso all’alloggio e alla residenza;
  • Ricongiungimento famigliare;
  • Informazione sui diritti e doveri individuali e sui servizi disponibili sul territorio.

 

 

In prospettiva

Il Piano stabilisce linee di intervento. Come tali, come afferma Giusi Palermo, responsabile nazionale migranti di Federsolidarietà, andranno precisate, accompagnate, adeguatamente sostenute.

Temi difficili saranno quello dell’autonomia abitativa e quello della formazione professionale. Anche secondo Matteo Biffoni, delegato Anci nazionale all’immigrazione, la formazione, il riconoscimento e la valorizzazione delle competenze pregresse dei rifugiati non saranno di certo banali da attuare, così come il processo di riconoscimento e il rispetto dei diritti costituzionalmente fondamentali. Il lavoro da fare, dunque, è ancora molto.

Trasversali rispetto ad ambiti diversi di integrazione sono la governance dei processi e il finanziamento delle misure volte all’integrazione. Il Piano chiama in causa, nel primo caso, una governance multi livello, che coinvolge Stato, regioni, enti locali e terzo settore, riuniti nel nuovo “Tavolo Integrazione” che questo Piano inaugura e che avrà la funzione di monitorare l’attuazione del Piano stesso. Di fatto i servizi di integrazione poggeranno sul sistema delle autonomie locali e sul terzo settore seguendo nella loro filosofia i criteri già seguiti per i centri di seconda accoglienza, i cosiddetti SPRAR: progettazione sui casi, integrazione diffusa, coinvolgimento del contesto locale e così via.

In tema di finanziamento delle attività il Piano chiama in causa la programmazione comunitaria dei fondi 2014-2020, con i relativi strumenti finanziari che possono sostenere il processo di integrazione: il FAMI, il FSE e il FESR. Come e in quale misura risulta ancora tutto da stabilire.

 

 

Nodi

In prospettiva il Piano lascia aperti, o comunque non risolve, alcuni aspetti. Tre in particolare.

  1. Il grande disallineamento tra la definizione dello status giuridico del richiedente protezione internazionale e i tentativi di integrazione nella società. Solo per formalizzare la domanda di protezione internazionale (e presentare il cosiddetto modello C3) il rifugiato deve oggi aspettare mesi, diversi altri mesi (fino a un anno) deve poi aspettare per essere convocato dinnanzi alla Commissione che valuterà la sua istanza. I frequenti (prevalenti) casi di diniego alimentano poi il folto gruppo dei “diniegati”, i quali fanno solitamente ricorso, con un iter giuridico che può arrivare a durare due anni e oltre.

Come si configura l’integrazione in questo lungo lasso di tempo? Quale motivazione può spingere il rifugiato ad aderire a proposte, a progetti, a impegni? Esiste un gap, una distanza tra integrazione formale e integrazione sostanziale che rappresenta oggi il vero vulnus, il freno a una inclusione reale nella società, perché dopo due anni di attesa, molti rifugiati una qualche integrazione se la sono già fatta un pezzo alla volta, da soli.

  1. Il Piano sembra consapevole di questo nodo là dove esorta tutto il sistema della prima accoglienza (i CAS) a uniformarsi progressivamente ai criteri della seconda (gli SPRAR). In verità già oggi i centri di prima accoglienza sono tenuti, da capitolato nazionale, a garantire un orientamento al territorio, l’integrazione nella società e l’insegnamento della lingua italiana. L’ostacolo principale che incontrano riguarda la realizzazione di queste attività in condizioni di prolungata precarietà giuridica. Che ne depotenzia l’efficacia. Questa “integrazione” non potrà che essere parziale, fintanto che il rifugiato non avrà raggiunto la stabilità del proprio status. E quando l’avrà raggiunta forse non avrà più bisogno di un centro che lo aiuti.
  2. Il Piano tratta dei titolari di protezione internazionale. E gli altri? E i migranti economici? Tutti da rimpatriare? Da questo punto di vista il Piano si considera “un primo passo verso un sistema integrato e inclusivo anche degli altri stranieri regolarmente soggiornanti, a dimostrazione di una matura consapevolezza del fenomeno migratorio raggiunto dal nostro Paese”. Ci auguriamo che questo auspicio possa davvero realizzarsi. A beneficio di un paese che, se vuole evitare il declino demografico, ha bisogno di popolazione migrante.