La guerra sta imponendo grandi cambiamenti


Pippo Ranci | 28 Marzo 2022

La tragedia della guerra in Ucraina ha tanti volti e genera tante conseguenze anche nei paesi non coinvolti. Oltre all’afflusso straordinario di rifugiati c’è la prospettiva, evocata da autorevoli previsori, di ripiombare nella micidiale combinazione di inflazione e recessione. C’è una nuova spinta all’ampliamento delle disuguaglianze. C’è in atto, secondo vari indicatori, un aumento della popolazione in stato di povertà e particolarmente di quella che ormai si definisce povertà energetica, misurabile con il costo complessivo delle varie forme di energia necessarie alla normale vita di una famiglia (benzina, gas, elettricità) in quota del reddito disponibile.

 

Il passato, la crisi, il futuro

Vengono in evidenza molti errori del passato. Se negli anni passati l’Italia avesse mantenuto un ampio ventaglio di fornitori del gas invece che lasciar crescere fino al 40% la quota della Russia si sarebbe forse pagato il gas un poco di più, ma non ci troveremmo oggi con un fornitore quasi insostituibile nel giro di un anno. Saremmo nella condizione di poter esercitare sulla Russia una più forte pressione non militare, invece che imporre con una mano pesanti sanzioni economiche e continuare a fornire valuta pregiata con l’altra mano.

La Germania ha fatto lo stesso errore, arrivando a mettere in piedi una società mista russo-tedesca per costruire il nuovo e costoso gasdotto diretto Nord Stream 2 che rischia di restare inutilizzato. La tesi che è stata a lungo prevalente nell’Europa occidentale è quella di considerare la stretta interdipendenza con la Russia come un fattore di stabilità: noi abbiamo bisogno del loro gas, loro hanno bisogno di venderlo a noi, la rete dei gasdotti facilita gli scambi tra noi due e non con altri.

Se l’Europa avesse avuto una voce sola per la Libia, forse la situazione politica del nostro più vicino fornitore di idrocarburi sarebbe meno caotica e potremmo ricevere ben più di quel modesto 4% del nostro consumo di gas che oggi abbiamo. E via con i “se”.

 

In ogni crisi è importante non fermarsi al rammarico e usare l’occasione per diventare più consapevoli e prevenire la crisi successiva. Oltre a tutto, se si comincia a correggere gli errori del passato si dà un segnale all’aggressore, si chiarisce che non potrà continuare a trarre vantaggio dalle debolezze nostre, e questo può già da subito contribuire alla soluzione della crisi in atto.

 

Le conseguenze

Oggi le previsioni sull’andamento dell’economia sono molto varie e prevalgono gli indizi negativi. La guerra impoverisce tutti, sia con le distruzioni sia con l’impossibilità di produrre nelle fertili pianure che nutrivano tante nazioni in Europa, Asia e Africa, e oggi sono devastate. Sono interrotte molte complesse catene di commerci, interi settori produttivi sono colpiti dal venir meno degli approvvigionamenti o degli sbocchi. Il balzo dei prezzi creato dalle scarsità, soprattutto di energia e di raccolti alimentari, rilancia l’inflazione.

La rete globale di scambi subisce una ferita grave, si prevede e si teme che tornino protezionismi regionali o nazionali. Saranno soprattutto i paesi poveri a subire carestie. Della globalizzazione si sono rilevati molti difetti, ma ora che va in frantumi ci rendiamo conto di quanto lavoro abbia assicurato ai produttori e quanti prodotti ai consumatori: il compito sarà quello di limitarne la distruzione, tentarne una ricostruzione che eviti i difetti del passato. Non sarà un’opera facile né veloce.

 

C’è un lato positivo: la disgrazia e la paura aiutano a trovare la forza per le decisioni che già da tempo erano necessarie. È oggi evidente che per ridurre la dipendenza energetica occorre una politica energetica comune nell’Unione Europea e per scoraggiare le aggressioni una politica comune di difesa. I frenetici pellegrinaggi dei governanti dei singoli stati, a Mosca per proporre trattative e nelle capitali degli stati petroliferi per chiedere forniture, mostrano tutta la debolezza di un’Europa delle nazioni. Si è vista una nuova concordia europea in alcuni primi passi per una gestione comune degli stoccaggi di gas e per mandare nelle zone a rischio qualche unità militare comune. Si può sperare che non sia effimera e che si consolidi.

Questi sviluppi comprendono anche la storica decisione tedesca di riarmarsi, settant’anni dopo il disarmo imposto dai vincitori della seconda guerra mondiale: “avrebbe dovuto essere accompagnata da un radicale progresso della politica estera e di difesa europea” ha scritto Romano Prodi (il Messaggero, 20 marzo), e lo strumento c’è, basterebbe una decisione dei quattro maggiori paesi dell’Unione cui aderirebbero altri paesi: ne bastano cinque per far scattare la stessa “cooperazione rafforzata” che è stata usata per l’euro, senza bisogno del consenso di tutti i 27 stati membri.

La concordia europea andrebbe estesa alla gestione dell’accoglienza ai migranti e della cooperazione allo sviluppo.

 

Indipendenza energetica

Un’interruzione immediata dei flussi di petrolio e gas dalla Russia all’Europa non avverrà. La Germania e l’Italia ne hanno ancora bisogno e si sono opposte, impedendo una decisione dell’Unione. La Russia non prenderà l’iniziativa di bloccare le vendite, le costerebbe troppo. Va detto anche che i russi non hanno gasdotti diversi da quelli verso l’Europa per smaltire il gas prodotto: quelli verso la Cina sono ancora insufficienti. Dovrebbero quindi chiudere i pozzi, affrontando seri problemi tecnici, e probabilmente mandando un sacco di metano in atmosfera (con un effetto serra di ogni kg di metano pari a 80 volte quello di un kg di CO2).

Si tengono pronti gli interventi d’emergenza, come la temporanea chiusura delle fabbriche ad altissimo consumo energetico (produzione di alluminio) ed eventualmente i razionamenti.

Comunque l’UE è oggi impegnata a ridurre e al più presto eliminare la sua dipendenza dal gas russo. Si è data l’obiettivo di ridurla di due terzi già alla fine di quest’anno. Si sta cercando in primo luogo di aumentare le importazioni da altre provenienze (gas dai tubi esistenti e gas liquefatto dagli Stati Uniti in primo luogo), far risalire la produzione interna, riattivare le centrali a carbone, e in Germania quelle nucleari che erano in via di chiusura.

Si possono anche rispolverare progetti già elaborati pochi anni fa, e poi accantonati, di investimenti in energie rinnovabili in Africa (solare ed eolico) per rifornire in parte gli stati locali e in parte gli investitori europei.

La quantità complessiva di energia potrà anche ridursi, dato che i consumatori sono indotti a risparmiarne, visto l’aumento del costo. Si spinge sull’efficienza energetica, ad esempio isolando meglio gli edifici.

Si cerca di accelerare l’impianto di generatori da fonti rinnovabili, pannelli solari e pale eoliche, oltre che quel po’ di idroelettrico che si può ancora aggiungere all’esistente.

 

Paradossalmente, solare ed eolico, che ora sono convenienti anche senza incentivi in molte zone, crescono meno che negli anni scorsi. Ha detto il presidente del Consiglio Mario Draghi che gli ostacoli sono “burocratici”, alludendo alle lunghe e paralizzanti procedure amministrative. Il Governo ha già provveduto a imporre tempi brevi ai numerosi enti che concorrono alle decisioni (regioni, enti locali e loro comunità e aggregazioni, soprintendenze archeologiche e paesaggistiche) ma non basta. Lo scontro avviene tra posizioni rigide che si giustificano citando pochi casi estremi: le imprese citano decisioni evidentemente non lesive del paesaggio che vengono irragionevolmente bloccate, amministratori locali e ambientalisti citano alcune proposte che comportano evidente lesione del paesaggio: così si evita il confronto ragionevole su una gran quantità di casi praticabili. Nelle amministrazioni prevale spesso un atteggiamento “prudenziale”, per non sbagliare si dice no. Ad esempio, accade che soprintendenze, con poco personale, reagiscano ai tempi brevi dando parere negativo alle pratiche che non hanno avuto tempo di esaminare. Ancora una volta si vede che non tutto si può fare con le leggi, occorre anche gestire i pubblici uffici in modo che siano messi in grado di svolgere i loro compiti, e controllarli perché effettivamente li svolgano.

 

Quando nel 2021 si è trattato di preparare un piano italiano per spendere i fondi messi a disposizione dal programma europeo New Generation EU (il PNRR), si è voluto investire anche nell’efficienza energetica degli edifici. Gli investimenti per il miglioramento degli edifici pubblici come scuole e tribunali e dell’edilizia popolare sono previsti ma non ci si aspetta che avvengano presto, mentre la prima fase dell’attuazione del piano è dominata dalle agevolazioni all’edilizia privata, che sono assai veloci, tanto che è stato necessario porre loro stretti limiti di tempo per evitare che assorbano troppe risorse pubbliche. È il palese riconoscimento della lentezza della pubblica amministrazione, che porta a rischiare una distorsione nell’uso dei fondi a favore di obiettivi meno strettamente necessari. Anche qui, ostacoli “burocratici”.

 

Nella situazione attuale emerge la questione delle priorità. La guerra in Ucraina porta a intendere la sicurezza come obiettivo da far prevalere su tutti gli altri, quindi prioritario. Fino a ieri l’orientamento prevalente era quello di fissare la sostenibilità come prioritaria: la tutela dell’ambiente, della biodiversità e degli ecosistemi è ora nell’articolo 9 della Costituzione. Sul lato europeo un recente Regolamento stabilisce che i fondi per Recovery and Resilience non dovranno essere usati per spese che rechino “danno significativo” agli obiettivi ambientali, e si è aperta una disputa su quanto rigida debba essere l’applicazione del principio DNSH (do no significant harm, non recare danno significativo) cioè ad esempio se si debba negare un sostegno pubblico o addirittura un’autorizzazione a investimenti che comportino anche modeste emissioni in atmosfera.

Logica impone che non possano esserci due priorità assolute, ma solo priorità relative da valutare in sede politica. Non è ragionevole quindi fissare una sola priorità con una norma generale, ma solo criteri, che lascino una responsabilità in capo a un soggetto istituzionale.

 

Ridurre l’impatto dei prezzi

Il prezzo europeo del gas, che era già salito nel secondo semestre 2021 per varie strozzature nell’offerta mondiale, emerse a fronte della rapida ripresa delle economie e soprattutto di quelle asiatiche, con la guerra è schizzato a un livello tre volte più alto, per non parlare di brevi puntate a livelli multipli. Il rialzo si è esteso all’elettricità, prodotta prevalentemente col gas.

L’impatto su famiglie e imprese è dipeso dai tipi di contratto in vigore. Chi aveva contratti a prezzo fissato per due anni non ha subito cambiamenti: sappiamo che si tratta di una quota non prevalente ma importante dei contratti al dettaglio, ma solo le imprese sanno quanti sono. I grandi operatori più accorti avevano coperture assicurative contro gli sbalzi dei prezzi. La parte di famiglie e imprese direttamente colpita è comunque grande, con le conseguenti difficoltà economiche.

I più colpiti sono i grandi consumatori di energia, come l’industria dell’alluminio. Anche alcuni rivenditori che avevano offerto prezzi fissi dell’energia (elettricità o gas) ai loro clienti, continuando a fare i loro acquisti sul mercato giornaliero all’ingrosso (prezzo “spot”): avranno fatto affari negli anni di prezzi decrescenti ma al momento dell’impennata si sono trovati male e in altri paesi qualcuno è fallito.

L’eccezionalità dell’aumento ha imposto a molti governi europei di intervenire. Il nostro ha introdotto in via temporanea riduzioni delle imposte sull’energia, crediti d’imposta alle imprese e specifici contributi ai settori più colpiti. Ha anche imposto rateizzazioni delle bollette,

Una misura che comporta cambiamenti permanenti e significativi riguarda gli oneri detti “di sistema”, cioè quelli che gravano su un utente di energia non per coprire i costi della sua fornitura ma per finanziare sussidi a produttori (come quelli alle energie rinnovabili) e riduzioni tariffarie a consumatori (come quelle alle imprese con elevati consumi energetici), complessivamente per scopi d’interesse generale. Da tempo molti suggerivano di spostare questi oneri sulla fiscalità generale e in questa occasione lo spostamento è stato avviato. Per il momento l’onere va ad accrescere il disavanzo dello stato, quando lo si riterrà opportuno si aumenterà qualche imposta o si ridurrà qualche altra spesa, ma non si ricaricheranno gli oneri sulle bollette, anche perché non sarebbe saggio accrescere la convenienza di alcuni consumatori, che hanno pannelli solari sufficienti per il loro consumo (e batterie per far scorta di energia), a staccarsi dalla rete e sottrarre il loro contributo al mantenimento della rete stessa, che invece è essenziale per tutti e anche per loro.

A lungo andare sarà comunque necessario mantenere i prezzi dell’energia in tendenza moderatamente crescente, perché la sostenibilità richiede un uso parsimonioso di tutte le fonti energetiche.

 

Ha fatto notizia l’aumento dei profitti di importanti imprese energetiche, evidentemente quelle che hanno goduto di costi fissi in un periodo di ricavi in forte aumento. Il caso estremo è quello della generazione elettrica da fonti rinnovabili, dove non c’è combustibile e quindi i costi sono praticamente solo l’ammortamento e gli interessi sul capitale investito, che sono costi fissi. In situazione simile si trovano i produttori di elettricità con centrali a gas che avevano contratti pluriennali di gas a prezzo fisso. Gli studiosi di www.lavoce.info stimano che tra il 2019 (pre-Covid) e il 2021, i produttori di elettricità da rinnovabili abbiano più che raddoppiato i loro margini e i produttori di elettricità da gas li abbiano più che quadruplicati (il gas nel 2019 aveva prezzi molto bassi). Il Governo ha annunciato che applicherà una tassazione straordinaria sui margini di profitto che risultino eccezionalmente elevati e ne sta definendo gli importi e le modalità. Analogamente stanno agendo altri governi e la Commissione Europea.

La tassazione straordinaria è necessariamente limitata per rispettare la compensazione tra anni buoni e anni magri, altrimenti si pongono le premesse per dover concedere sussidi quando i ricavi non coprono i costi, e far degenerare l’economia in un sistema assistito.

 

È allo studio a livello europeo anche la proposta di porre un limite massimo (un tetto) ai prezzi che si formano nelle borse dell’energia, cominciando da quelle del gas. Forse nel momento del panico prezzi un tetto sarebbe servito, se non altro per dare un segnale di contrasto che rendesse poco credibili le aspettative più estreme. Si potrebbe quindi mettere in magazzino una terapia d’emergenza per la prossima volta, sperando che non ci sia una prossima volta. Ma in tempi quasi normali non servirà, e le iniziative europee più utili sono quelle che tendono a rendere improbabile che si verifichi, come la gestione comune degli stoccaggi (i serbatoi del gas) e gli acquisti comuni di gas nelle emergenze come si è fatto per i vaccini.

 

Una politica sociale  

C’era una volta la tariffa sociale dell’elettricità e del gas. Era stata introdotta dopo lo shock petrolifero del 1973 e pur attraverso modifiche è durata fino a oggi (si chiama regime di tutela per il gas e di maggior tutela per l’elettricità, la differenza nominale è una curiosità burocratica). Si applica alle forniture dei residenti (non alle seconde case) con potenza elettrica non oltre 3 kW e consumi sotto dati livelli.

Dovrebbe finire presto perché la sua funzione sociale è oggi meglio svolta dai bonus elettricità, gas e acqua, che sono rimborsi alle famiglie meno abbienti commisurati al carico familiare. Il pregio dei bonus è che non vanno a sussidiare i benestanti che per qualsiasi ragione consumano poco (tipicamente i single urbani ad alto reddito che mangiano al ristorante e usano servizi esterni invece che lavarsi la biancheria), ma anche rispettano l’incentivo a risparmiare energia dato che il rimborso è fissato a priori e ogni chilowattora consumato in più si paga alla tariffa piena, ogni chilowattora risparmiato produce un risparmio a tariffa piena.

Nell’attuale emergenza il governo e l’autorità ARERA hanno disposto un aumento dei bonus e una loro estensione a una popolazione più ampia. È possibile, ma non è certo, che passata l’emergenza questi ampliamenti siano integralmente aboliti.

Quello che molto servirebbe sarebbe uno sforzo per orientare alle abitazioni dei meno abbienti le agevolazioni all’efficienza energetica. Oggi il proprietario ha scarso interesse a investire per ridurre la spesa energetica dell’inquilino: mirava a questo la cedibilità dei bonus edilizi, che è stata occasione per abusi e quindi assoggettata a vincoli e controlli più stringenti.

Ho già notato gli ostacoli burocratici che si oppongono agli investimenti per l’efficienza energetica degli edifici pubblici e dell’edilizia popolare: in questi comparti ci sono carenze che vanno oltre l’uso dell’energia e che ne fanno un punto debole della politica sociale.


Commenti

Grazie per avermi trasferito informazioni interessanti, quali le difficoltà di una PA sottorganico e cosa attivare per ridurre i consumi energetici in alcuni settori come le abitazioni dei meno abbienti