Le frontiere invisibili dell’amministrazione di sostegno


Elena Cesaroni | 20 Giugno 2022

La legge n° 6 del 9 gennaio 2004 ha introdotto la figura dell’amministratore di sostegno.

All’articolo 1 ne viene stabilita la finalità che consiste “nel tutelare, con la minore limitazione possibile della capacità di agire, le persone prive in tutto o in parte di autonomia nell’espletamento delle funzioni della vita quotidiana, mediante interventi di sostegno temporaneo o permanente”.

Il Codice civile, che ha recepito il contenuto della legge 6/2004, all’articolo 404 stabilisce che “la persona che, per effetto di una infermità ovvero di una menomazione fisica o psichica, si trova nell’impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi, può essere assistita da un amministratore di sostegno”. In tale articolo risulta evidente il richiamo al concetto di salute proposta dall’Organizzazione Mondiale della Sanità, secondo cui “non è in salute la persona che non è in grado di svolgere le proprie attività giornaliere e di gestire le incombenze sociali necessarie per ottimizzare il proprio livello di benessere”. In questa rappresentazione si scorge il primo sconfinato orizzonte dell’amministrazione di sostegno.

 

Alla vigilia dell’entrata in vigore della legge 6/2004 il dibattito partiva dalla necessità di smarcarsi dalla disciplina codicistica relativa all’istituto dell’interdizione destinato, ai sensi dell’art. 414, a persone in condizioni di “abituale infermità di mente”; ragion per cui si è sviluppato, prevalentemente, sulla scia dei grandi temi relativi ad un rinnovato concetto di salute mentale e a modalità di approccio basate sul riconoscimento e la valorizzazione della dignità della persona con problematiche psichiatriche.

Nel corso degli anni, tali temi hanno continuato a fare da sfondo alla riflessione sulla figura dell’amministrazione di sostegno. Al contempo, l’articolo 404 del Codice civile ha consentito di allargare la platea dei beneficiari a situazioni che, fino ad allora, non erano solite essere toccate dalle misure di cui al libro primo del codice civile.

È successo quindi che l’amministrazione di sostegno sia stata applicata in ogni situazione di “impossibilità, anche parziale o temporanea, di provvedere ai propri interessi”: la persona con problematiche psichiatriche, la persona disabile, la persona con dipendenza, la persona anziana, talvolta anche a soggetti con problematiche di disagio sociale senza ricadute evidenti sulla sfera sanitaria. Applicazione che trova legittimazione nell’art. 404 sotto il profilo giuridico ma che presuppone valutazioni di opportunità da condurre caso per caso. È opportuno che gli “orizzonti sconfinati” acquisiscano “confini chiari”.

L’impressione, al contrario, è che la misura dell’amministrazione di sostegno stia assumendo connotati di universalità; tendenza avvalorata dall’aumento vertiginoso delle nomine. Se il trend venisse confermato ne deriverebbe che, qualsiasi limitazione della propria autonomia sia in grado di comportare, ipso facto, l’applicazione della misura anche a fronte di limitazioni naturalmente correlate al trascorrere del tempo, come l’invecchiare.

 

Non è così semplice trovare testimonianza di decreti di rigetto del ricorso per la nomina di un amministratore di sostegno; tra l’altro, si tratta di provvedimenti apparentemente non collegati tra di loro da una linea di fondo che accomuni il pensiero dei Giudici Tutelari. Tra questi si menziona quello del Giudice Tutelare di Milano del 03.11.2014 e quello del Giudice Tutelare di Vercelli del 16.10.2015.

Con decreto 3 novembre 2014, il Tribunale di Milano ribadisce che “non ogni fragilità del soggetto conduce alla nomina di un amministratore di sostegno, ma occorre che tale vulnerabilità provochi uno strappo nell’esercizio dei diritti o precluda vantaggi e utilità con ostacoli non altrimenti evitabili”.

Nel caso di specie, il procedimento per la richiesta di un amministratore di sostegno era stato avviato per un uomo ricoverato in una casa di cura. La moglie aveva richiesto tale misura sulla base della presunta prodigalità del soggetto. Il tribunale contesta in primo luogo l’esistenza della prodigalità, sia perché non provata, sia perché tutta la pensione dell’uomo (quasi 4.000 euro) era utilizzata per pagare la retta mensile della casa di cura.

Il Giudice ha sottolineato che, “quando la famiglia per solidarietà o gli ausiliari retribuiti per dovere provvedono alle esigenze della persona vulnerabile” la figura dell’amministrazione di sostegno non è necessaria in quanto la sua applicazione deve presupporre l’esistenza di effettivi e attuali bisogni rispetto ai quali non è possibile provvedere altrimenti. Inoltre, la misura non va applicata quando “soccorra già un’idonea rete familiare, ove non sussistono conflitti ovvero dubbi sul perseguimento degli esclusivi interessi del soggetto debole da parte del contesto familiare che lo assiste, anche svolgendo talune incombenze per conto suo”.

A maggior ragione, ritiene il Giudice, è da escludere la misura dell’amministrazione di sostegno se ad occuparsi della persona “debole” sia un operatore professionale in forza di un contratto oneroso: “è la stessa casa di cura che, quindi, deve garantire per contratto quella rete di protezione che rende del tutto superfluo l’intervento del Giudice Tutelare”.

Il Giudice di Milano prende, inoltre, posizione rispetto ad alcune direttive regionali che hanno sollecitato alle strutture di ricovero l’apertura di amministrazioni di sostegno per i pazienti precisando che “l’amministrazione di sostegno non può essere attivata solo per soddisfare requisiti burocratici previsti da risoluzioni o regolamenti”.

Con questo decreto il Giudice di Milano definisce e solleva il problema del ricorso alla figura dell’amministratore di sostegno per far fronte ad esigenze, sì reali, ma non riconducibili a quella della salvaguardia dei “bisogni e delle aspirazioni del beneficiario” come recita l’art. 410 del codice civile.

 

Il Giudice Tutelare del Tribunale di Vercelli, con decreto del 16 ottobre 2015, ha respinto la domanda di nomina di un amministratore di sostegno per una donna ultranovantenne, ribadendo il principio secondo cui non ogni situazione di bisogno comporta la necessità di “istituzionalizzare una figura di assistente”. Il ricorso era stato depositato dalla nuora di una donna di novantadue anni non affetta da particolari patologie psichiche, ma con deficit visivi e uditivi e difficoltà di deambulazione.

Nel corso del giudizio, all’esisto della CTU, e sulla base di quanto affermato anche dal medico curante della donna, l’anziana era risultata capace di rispondere alle domande sull’euro ed il suo potere di acquisto e di gestire le proprie finanze, in quanto dotata ancora di vivace intelligenza e di memoria. Le uniche necessità accertate erano quelle di essere accompagnata per il ritiro della pensione, pagamenti vari e acquisti. La donna era seguita, inoltre, da un servizio di assistenza domiciliare quotidiano che la aiutava nel disbrigo di pratiche personali, oltre che nella cura della casa, quali lavori domestici più pesanti. Anche la nuora, ricorrente, svolgeva per lei alcuni incombenze casalinghe e amministrative.

 

Sulla scorta della giurisprudenza del Tribunale di Milano (decreto del 3 novembre 2014), il decreto del Giudice Tutelare piemontese, ribadisce ancora che non ogni fragilità del soggetto conduce alla nomina di un amministratore di sostegno, ma occorre che tale vulnerabilità provochi un ostacolo nell’esercizio dei diritti o precluda vantaggi e utilità.

Il decreto del Tribunale milanese pone l’accento su una lettura costituzionalmente corretta delle norme in tema di amministrazione di sostegno. È vero che lo Stato deve rimuovere gli ostacoli che, limitando l’uguaglianza dei cittadini, impediscono il pieno sviluppo della persona umana (art. 3 Cost.), ma “è altresì vero che lo stesso Stato deve costantemente richiedere l’adempimento dei doveri inderogabili di solidarietà sociale (art. 2 Cost.). Questi doveri sono posti in primo luogo a carico dei soggetti che – di fatto o in quanto a ciò normativamente tenuti – siano vicini a chi si trovi in situazione di bisogno”. Tali soggetto sono, in primis, i familiari, i Servizi Sociali, le associazioni, che possono agire attraverso l’utilizzo degli strumenti negoziali predisposti dalla legge (ad esempio il mandato, la procura, ecc.) e gli altri strumenti legislativi, sociali, ecc.

 

In conclusione, secondo il Giudice Tutelare di Vercelli, non si vede il motivo per il quale alcuni soggetti, solo perché affetti da patologie, anche invalidanti, che inibiscano loro di provvedere autonomamente ai propri interessi, debbano necessariamente essere assistiti da un soggetto di nomina giudiziale, se sono concretamente in grado di esercitare con pienezza i loro diritti avvalendosi dell’aiuto da parte di terzi. In questi casi, sarebbe iniqua (in quanto aggiungerebbe ulteriori incombenze alle ordinarie attività di cura), e soprattutto superflua, la privazione, seppur parziale, della capacità di agire della persona. “In una situazione in cui o la famiglia, per solidarietà, o gli ausiliari volontari o retribuiti, provvedono alle esigenze dell’individuo “vulnerabile”, la figura dell’amministrazione di sostegno non è necessaria, poiché la protezione presuppone l’esistenza di effettivi e attuali bisogni che non possono essere soddisfatti in altro modo”.

 

Particolarmente suggestivo risulta il rinvio che il Giudice Tutelare di Vercelli fa all’art. 8 della Convenzione europea dei diritti dell’uomo e delle libertà fondamentali che “sancisce il diritto di ogni persona al rispetto della propria vita privata e familiare e che non può esservi alcuna ingerenza di una autorità pubblica nell’esercizio di tale diritto, a meno che tale ingerenza sia prevista dalla legge a protezione della salute e quindi, latu sensu, dei bisogni delle persone deboli e non autosufficienti”.

In un momento storico in cui il concetto di tutela della privacy e delle libertà dell’individuo ha raggiunto declinazioni esasperate, è sorprendente come non si siano ancora manifestati moti di disapprovazione nei confronti del ricorso e delle modalità di applicazione di una misura che, per i suoi sconfinati orizzonti, si presta al rischio di aberrazioni.

Con queste affermazioni non si vuole mettere in discussione la potenzialità dell’istituto dell’amministrazione di sostegno e i traguardi che lo stesso ha consentito di raggiungere, bensì ricondurre il pensiero all’origine; all’essenza della disciplina introdotta con la legge 6 del 2004. La cosiddetta “bozza Cendon” , che ha preceduto e stimolato la promulgazione della legge, “individuava, sinteticamente, l’obiettivo primario di una riforma della vigente normativa privatistica dell’infermità di mente nella necessità di introdurre un nuovo equilibrio tra le opposte esigenze di libertà e di protezione del sofferente, assicurando a quest’ultimo tutta la libertà possibile ed indispensabile e, quanto alla protezione, garantendogli quella necessaria, ma togliendogli quella “superflua, dannosa, ingiusta”1.

 

Quando la nomina di un amministratore di sostegno sia stata valutata come necessario strumento di protezione della persona fragile non si può prescindere dall’obbligo giuridico, nonché etico e deontologico, di ascoltare, interpretare, ricostruire la volontà del beneficiando. Il principale strumento a disposizione del Giudice Tutelare è quello dell’audizione del beneficiando, sancito dall’art. 407 del codice civile, che rappresenta l’aspetto procedimentale più gravoso ma del tutto imprescindibile in quanto funzionale alla decisione circa l’attivazione della misura e i termini in cui si esplicherà; in un’ottica dialogica e relazionale in grado di accogliere il potenziale destinatario con le sue richieste, riserve e con tutta la sua storia fatta di racconti, aspettative, desideri e paure.

Il giudice tutelare non può dunque fermarsi ad una “ricostruzione della realtà” rappresentata da chi propone ricorso attraverso la documentazione depositata o la loro udienza (non a caso, facoltativa) e neppure attraverso il ricorso a tecnici o ad altri mezzi istruttori dallo stesso suscettibili di essere richiesti, ma ha l’obbligo di ascolto del beneficiando; obbligo che si mantiene attivo anche dopo l’emissione del decreto di nomina. E quando le condizioni del beneficiando siano incompatibili con la sua audizione, sarà ancora più importante l’opera del Giudice Tutelare volta alla ricostruzione delle sue volontà.

Il decreto è parte di un “progetto di vita” che, come tale, esige di essere saldamente combinato alle esigenze del destinatario – da lui stesso manifestate – siano esse di natura prettamente patrimoniale, sia riferite agli aspetti ordinari della quotidianità. Il decreto deve essere l’“abito su misura” sapientemente tagliato e cucito addosso al beneficiario; l’unico che può vestirlo ai fini di un’adeguata formula di protezione e sostegno personali.

 

Sorge, necessariamente, qualche perplessità su come un decreto possa opportunamente assolvere a tale funzione se si tiene conto della semplicità mezzi istruttori, delle esigenze di tempestività dell’intervento (unite alla enorme mole di lavoro dei Giudici e delle cancellerie dei Tribunali!) e delle infinite sfaccettature dell’esistenza umana. Il decreto non può – e non deve – pretendere di disciplinare l’intera esistenza del beneficiario ma solo quegli aspetti la cui cura consente di rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla massima realizzazione di sé.

Dunque i decreti dovrebbero essere diversi fra loro e, con riferimento al medesimo beneficiario, diversificati nel tempo attraverso un’opera responsabile di ascolto e comprensione del beneficiario e delle sue necessità. Un lavoro faticoso che può condurre attraverso sentieri tortuosi per ritrovarsi, alla fine, al punto di partenza; un lavoro che va condotto dall’amministratore di sostegno nella cornice della relazione con il beneficiario e, dove presenti, di quella con i Servizi che lo hanno in carico; un lavoro che può acquisire di senso ed essere sostenibile solo se l’amministratore di sostegno viene supportato da una rete di Servizi in connessione tra loro e con il Giudice Tutelare.

 

Non è perciò corretto standardizzare questa figura assurgendola esclusivamente a strumento per ovviare a problematiche che, molto spesso, non sono del beneficiario ma di un sistema che, sempre di più, tende a bloccarci dentro ai labirinti della burocrazia e del formalismo. Problematiche reali, rispetto alle quali l’istituto dell’amministrazione di sostegno può, e non deve, rappresentare una risorsa.

Assecondare o non riconoscere questa deriva ci allontana dalla ratio della norma; ci allena al distacco dal tentativo di comprensione dei bisogni – di immedesimarci- con chi ci sta accanto: la persona fragile, ma anche il familiare/caregiver che ne è diventato amministratore di sostegno, l’amministratore di sostegno professionista o volontario, ognuno con il proprio bagaglio di vissuti e motivazioni.

Partire da questa consapevolezza, può essere un primo passo verso l’obiettivo di non trasformare i confini dell’istituto dell’amministrazione di sostegno in frontiere invalicabili ma nell’opportunità di consolidamento di relazioni fondate sul riconoscimento e la ri-costruzione delle proprie identità.

  1. Cendon P., “Infermi di mente e altri “disabili” in una proposta di riforma del codice civile”, in Giurisprudenza Italiana, 1988, p. 118.