Perché la coprogrammazione arranca?


Gianfranco Marocchi | 29 Febbraio 2024

Il tema

Nel 2021 scrivevo su Welforum l’articolo 2022: sarà l’anno della coprogrammazione?, in parte prevedendo, in parte auspicando un maggiore utilizzo di questa forma di amministrazione condivisa.

A distanza di più di due anni, questa previsione si è rivelata giusta o meno?

La risposta non è immediata. Alcuni dati ci fanno propendere per una risposta almeno parzialmente positiva. L’analisi svolta da un gruppo di ricercatori (Vesan, Razetti e Papa, autori del grafico sotto riportato) e pubblicata l’anno scorso su Impresa Sociale evidenzia come le coprogrammazioni, pur essendo assai meno numerose delle coprogettazioni, siano effettivamente cresciute in modo palpabile dal 2020 in avanti. Il passaggio di questo istituto dalla sostanziale irrilevanza ad una quota di circa il 10% delle esperienze di amministrazione condivisa è comunque un fatto degno di nota.

Inoltre, appare essere ampiamente condivisa, sia da parte degli studiosi, sia da parte degli operatori, l’affermazione che proprio la coprogrammazione sia una delle chiavi di volta per garantire la qualità dei processi di amministrazione condivisa: è diffusa l’opinione che solo dedicando maggiori energie alla programmazione in comune si riusciranno a superare talune mancanze della coprogettazione e in particolare la diffusione di iniziative di corto respiro, schiacciate sul momento gestionale, che sembrano evidenziare la carenza di un precedente momento di riflessione più ampia circa le direzioni da intraprendere, collocabili appunto nella fase della coprogrammazione.

Dunque, sia considerando l’aumento del numero di esperienze di coprogrammazione, sia considerando l’attenzione a questo specifico strumento, possiamo effettivamente dire che negli ultimi due anni vi sia effettivamente stata una maggiore attenzione alla coprogrammazione.

D’altra parte, ci sono evidenze, forse ancor più marcate, di segno opposto. Pur aumentate, le coprogrammazioni sono pur sempre una piccola frazione delle esperienze di amministrazione condivisa e, malgrado gli inviti da parte di ricercatori e studiosi di cui sopra, questo numero pare non crescere; inoltre, anche la qualità stessa delle spesso lascia a desiderare: in specifico, in molti casi, pare che esse siano caratterizzate da un orizzonte ristretto, un insufficiente investimento sui dati alla base di ragionamenti, poca capacità di immaginare nuove strategie. E quindi gli interrogativi di tre anni fa – perché così poche coprogrammazioni, in un pese dove si è iniziato a sperimentare l’amministrazione condivisa sotto forma di piani di zona, quindi di coprogrammazione, già vent’anni fa – rimangono.

Per fare un passo avanti partiamo da un presupposto: quando chi di mestiere scrive e pensa afferma con insistenza un contenuto e chi di mestiere opera non lo mette in atto, alcune domande bisogna farsele. Certo, è possibile ritenere che il practitioner sia oberato da incombenze pratiche e non trovi lo spazio di riflessione per modificare i suoi approcci; e, dunque, che il problema stia effettivamente nell’incapacità di dare corso a linee operative effettivamente condivisibili. Ma, d’altra parte, l’esperienza ci insegna che in questi casi è sempre bene lasciare aperta una finestra per ipotesi diverse; e, specificamente, al valutare che qualcosa possa sfuggire a coloro che di mestiere, appunto, pensano e scrivono.

Istanze coprogrammatorie e coprogrammazione

Provando a seguire questa ipotesi, emerge come dietro l’etichetta di “coprogrammazione” si trovino forzatamente a convivere fenomeni diversi, che probabilmente necessiterebbero di strumenti dedicati. Il problema, quindi, non è probabilmente solo quello della sordità o della non curanza dei practitioners, ma nel fatto che lo strumento in questione si sta dimostrando adatto ad alcune circostanze e non ad altre, rendendone quindi l’applicazione faticosa. Proviamo quindi a identificare e distinguere diverse esigenze (co)programmatorie.

La prima esigenza riguarda un adeguamento soft del sistema dei servizi. Rientrano in questa categoria tutti i casi in cui, a fronte di ragionamenti sull’evoluzione dei bisogni, sull’andamento degli interventi in essere e a fronte dell’effettivo utilizzo dei servizi da parte dei cittadini, ci si orienta a sopprimere o modificare un servizio esistente o a introdurne uno nuovo. In sostanza, in questo caso, si parla di programmazione riferendosi ad azioni di messa a punto, che può essere anche significativa, degli interventi in atto. Perché questo tipo di esigenze programmatorie, pur chiaramente esistenti, non danno corso a procedimenti di coprogrammazione? La risposta è abbastanza semplice: perché tale esigenza è adeguatamente soddisfatta dalle esperienze virtuose di coprogettazione, quelle, si intende, che prevedono periodiche verifiche sull’andamento dei progetti e un conseguente processo di riflessione da cui scaturiscono, appunto, modifiche dell’assetto dei servizi come quelle sopra accennate. Dunque, il motivo per cui, in questi casi, non si coprogramma, è che di fatto si assolve a tale funzione senza bisogno di un distinto procedimento. È molto più immediato, in questi casi, affidare questo tipo di esigenza ad un procedimento di coprogettazione ben articolato e che abbia davanti un tempo di lavoro adeguato e che sia caratterizzato da meccanismi di revisione progettuale fluidi e flessibili.

La seconda esigenza co programmatoria è quella di enti pubblici che scelgono di istituire sedi di confronto permanente aperta – non quindi su temi specifici – con il terzo settore. Fanno parte di questo tipo di iniziative varie forme di consulta o consiglio, organismi, quindi, in cui si attua un’interlocuzione permanente tra un soggetto pubblico, generalmente un ente locale, e i soggetti di terzo settore. Questi organismi possono avere, ad esempio, compiti istruttori su specifici ambiti di interesse generale (ad esempio il welfare) o possono riguardare il terzo settore in generale. Possono esprimere pareri consultivi su ipotesi di deliberazione dell’ente, possono presentare proposte, approfondire temi, ecc. e, in ogni caso, rappresentano un luogo permanente di confronto e di scambio. Queste iniziative e hanno senza dubbio una valenza coprogrammatoria. Ma non sono “coprogrammazioni” ai sensi dell’articolo 55 del codice del terzo settore.

La terza esigenza, già oggetto di alcuni contributi, riguarda il ruolo che il Terzo settore potrebbe / dovrebbe avere nella formazione dei documenti strategici delle amministrazioni pubbliche, nelle sedi quindi in cui un ente definisce obiettivi pluriennali, in particolare laddove ciò riguardi i settori di interesse generali. Con riferimento ai Comuni, la sede naturale potrebbe essere quella del DUP, ma in generale tutti gli enti pubblici (ad esempio le ASL) adottano atti programmatori in cui si fissano obiettivi trasformativi di medio periodo. Pur dovendosi equilibrare – se ne tratterà più tardi – il tema della rappresentanza per mandato politico (quella cioè che legittima la persona eletta a delineare priorità politiche e strategie) con l’esigenza di coinvolgimento nella programmazione affermata dal Codice del Terzo settore, è evidente che ipotizzare che la partecipazione del Terzo settore avvenga solo a valle della redazione dei più rilevanti atti di programmazione delinea un processo monco. Anche se, di fatto, le esperienze di partecipazione strutturata degli ETS a queste fasi di programmazione sono limitate, si tratta di tema senza dubbio importante e non riconducibile ad una coprogrammazione ex art. 55 del Codice del Terzo settore.

La quarta esigenza è quella relativa a momenti partecipativi consultivi nell’ambito del processo decisionale pubblico. Tali momenti possono essere istituzionalizzati e formalizzati, anche in circostanze che non chiamano direttamente in causa il Terzo settore come nel caso dei processi di approvazione dei piani regolatori, o, nei casi di maggiore interesse per il discorso qui sviluppato. possono riguardare iniziative specifiche, nel caso in cui ad esempio un’amministrazione locale voglia coinvolgere la cittadinanza rispetto a scelte sull’utilizzo di spazi pubblici, su piani di trasformazione urbana, ecc. In tali sedi sicuramente sono presenti contenuti coprogrammatori che sono oggetto di una forma seppur soft di condivisione: consultiva, che non comporta impegni formali, talvolta poco strutturata; ma non per questo irrilevante. È vero che generalmente tali contesti vedono la partecipazione di una pluralità di soggetti (compresi i cittadini singoli), ma sicuramente le forme organizzate di aggregazione della società civile rivestono nei fatti un ruolo assai significativo. Anche in questo caso, comunque, non si tratta di una coprogrammazione ai sensi del Codice del Terzo settore.

Vi sono poi i casi in cui la coprogrammazione, quella effettivamente immaginata dall’art. 55. Come ricorda Felice Scalvini, ciò avviene nei casi in cui ci si interroghi su questioni di una certa portata, che superano l’esigenza di messa a punto di un quadro di interventi già definito, interrogandosi su scenari di medio periodo: ad esempio le strategie da adottare per affrontare il fenomeno di una società in rapido invecchiamento. Questo implica la conoscenza dei dati e delle buone prassi nazionali e internazionali, la capacità di tracciare, a partire da un adeguato supporto scientifico, gli scenari evolutivi e dunque di immaginare un nuovo assetto del sistema di risposte ai bisogni. Che però, a ben vedere, è un tipo di lavoro ben diverso da quello di molte coprogrammazioni, che spesso si risolvono in una discussione generale in cui vengono condivise tra operatori valutazioni e riflessioni che sono in grado di generare un valore aggiunto limitato. Va inoltre ricordato che questo, anche in coerenza con quanto richiamato dall’art. 55, si realizza “nel rispetto … delle norme che disciplinano specifici procedimenti ed in particolare di quelle relative alla programmazione sociale di zona”. Probabilmente si tratta di verificare quando una certa istanza di programmazione comune trascende aspetti specifici e si configura come analisi complessiva di un sistema territoriale.

In sintesi, se consideriamo, sulla scorta dell’art. 55, la coprogrammazione come azione tesa a analizzare 1) i bisogni, 2) gli interventi che possono rispondere a tali bisogni, 3) i criteri generali, orientamenti, linee guida, ecc. relativi agli interventi stessi e 4) le risorse necessarie per realizzarli, abbiamo, sulla base di quanto sopra scritto, il quadro di situazioni e relativi strumenti sintetizzato nella tabella.

Esigenza

Esempi di azioni

Strumento

Evoluzione, riorganizzazione e adeguamento del sistema dei servizi.

·        Aumento o diminuzione della capienza o degli orari di un servizio;

·        apertura di un nuovo servizio o chiusura di un servizio esistente;

·        riorganizzazione del sistema degli interventi o servizi;

·        modifica delle procedure o dei criteri di accesso.

Coprogettazioni “avanzate”, sia durante il procedimento, sia (e soprattutto) durante le revisioni degli interventi in corso di realizzazione, prevedendo livelli (es. “cabina di regia”, coordinamento, ecc.) in cui via via recepire le indicazioni del livello operativo e trasformarle nel corso del tempo in adeguamenti dell’impianto progettuale. In questi casi ricorrere direttamente alla coprogettazione (“avanzata”, si intende) rappresenta una via più diretta rispetto al “doppio passaggio” coprogrammazione + coprogettazione.

Istituire un luogo di confronto permanente con il Terzo settore.

·        Istruire il dibattito o proporre deliberazioni o atti di indirizzo su questioni connesse al Terzo settore o ai settori di interesse generale;

·        Discutere una proposta di deliberazione su settori di interesse generale;

·        Confrontarsi sulle forme di coinvolgimento del Terzo settore.

Consulte / coordinamenti / Consigli del Terzo settore, istituiti con forme di rappresentanza del Terzo settore su base territoriale.

Partecipazione del Terzo settore alla formazione dei documenti di indirizzo di un’amministrazione.

·        Lavorare congiuntamente sulla redazione delle porzioni dei documenti strategici, soprattutto quelle dedicate a settori di interesse generale.

Forme da definire; ad oggi ci sono ipotesi in letteratura, ma non si stanno consolidando esperienze di questo tipo.

Processi partecipativi.

·        Coinvolgere la cittadinanza (sia singoli cittadini che enti di Terzo settore) su piani di rigenerazione, utilizzo di spazi pubblici, ecc.

Assemblee pubbliche, utilizzo di metodologie partecipative per favorire il dialogo. Valenza esclusivamente consultiva.

Analisi di medio periodo sull’evoluzione dei bisogni e dei corrispondenti interventi.

·        Analizzare gli sviluppi su un’area di bisogno, soprattutto nel caso di situazioni evolutive significative: es. come affrontare l’invecchiamento delle nostre società, come confrontarsi con una società multietnica, ecc.

Coprogrammazione ex art. 55, supportata da un significativo apporto di dati e studi e da percorsi di ascolto degli stakeholder. Può assumere il carattere di pianificazione di zona laddove investe il complesso del sistema territoriale di interventi e servizi.

 

A partire da queste considerazioni, possiamo ipotizzare una risposta alla domanda sul basso numero di coprogrammazioni un po’ più complessa di quella che si sarebbe tentati di dare in prima istanza, centrata sulla trascuratezza di chi opera nel sociale. La risposta dovrebbe in altre parole comprendere due aspetti: il primo è che non ogni esigenza coprogrammatoria trova risposta nella coprogrammazione; il secondo è che la coprogrammazione “vera” – non quella facilmente surrogabile in una coprogettazione ben fatta – richiede presupposti, risorse e determinazione non comuni, e non solo con riferimento all’universo collaborativo: anche ignorando l’istanza di condivisione e centrandosi solamente sulla programmazione, non è per nulla frequente che si intraprendano iniziative di studio e analisi significative, che sono un aspetto qualificante per intraprendere uno sforzo di come quello qui ipotizzato.

E la politica?

Ciò detto, è opportuno spendere qualche parola anche su un altro aspetto, che a ben vedere aggiunge una certa instabilità al tema.

La relazione della coprogrammazione con la politica può avere aspetti faticosi.

La coprogrammazione ex art. 55 è un procedimento amministrativo ai sensi della legge 241/1990: sostanzialmente quindi un atto – in cui protagonisti nella parte pubblica sono dirigenti e funzionari, non assessori – che si pone in un terreno incerto, a valle delle indicazioni della politica, a declinare priorità e strategie con essa coerenti, ancorché a monte del momento operativo della coprogettazione, che a sua volta immaginiamo, nella sua forma pura e coerente, essere abbastanza aperto dal non descrivere quali azioni mettere in atto (altrimenti vi sarebbe un appalto).

È uno spazio stretto tra il già deciso a monte e quanto va lasciato aperto a valle. Questo non significa che non esistano concrete esperienze lodevoli di coprogrammazione, ma che non sempre è facile trovare un terreno chiaro per il suo esplicarsi.

Non è forse un caso il diverso esito che le linee guida indicano tra coprogettazione e coprogrammazione: la prima dà luogo ad accordi che diventano direttamente operativi, con le conseguenti assunzioni di reciproci impegni tra i partecipanti; la coprogrammazione invece, secondo le linee guida, “dovrebbe concludersi con l’elaborazione condivisa di un documento istruttorio di sintesi, mentre le determinazioni conseguenti sono di competenza dell’amministrazione procedente, in modo da garantire l’autonomia di quest’ultima nell’acquisizione, nel bilanciamento e nella sintesi dei diversi interessi acquisiti nel corso dell’istruttoria in coerenza con gli indirizzi dell’ente medesimo”. La coprogrammazione ha quindi un “secondo tempo” in cui entrano in gioco “gli indirizzi dell’ente” con cui gli esiti dei tavoli sono raffrontati.

Prima si coprogramma, poi si coprogetta

È questa la formula che chiunque scriva e rifletta si sente di consigliare, ma che a ben vedere qualche dubbio pratico lo desta. Ci sono, senza dubbio, casi positivi esemplari in tal senso, ma d’altra parte laddove vi sia già una prospettiva operativa sullo sfondo, potrebbe essere tardi per iniziare a concepire una coprogrammazione, che, nell’accezione qui descritta, richiede tempi di realizzazione lunghi e sguardo aperto (e se già stiamo pensando a coprogettare, probabilmente non è così). I casi in cui in pochi mesi si fanno seguire distinti procedimenti di coprogrammazione e poi di coprogettazione probabilmente potevano forse essere meglio interpretati da una coprogettazione adeguatamente ampia. Diverso è il caso in cui si scelga di coprogrammare non avendo un orizzonte operativo già definito, quindi sia con il tempo che con la libertà di sguardo di esplorare a fondo il tema.

In conclusione

Le coprogrammazioni, ancorché cresciute, rimangono minoritarie e, a ben vedere, in molti casi di valore non eccelso rispetto al valore aggiunto in termini di profondità di analisi. Si è scelto di ragionare in modo aperto, senza adottare la via del facile richiamo agli operatori inadempienti. E da ciò emergono temi che probabilmente richiedono un più serio esame e l’individuazione di soluzioni adeguate, che possono andare sia nella direzione della parziale riforma dello strumento, sia del suo affiancamento ad altri.