Più autonomia alle regioni significa diritti dei cittadini non omogenei?


Maurizio Motta | 19 Dicembre 2022

È in crescita il dibattito sulla prospettiva di aumentare l’autonomia differenziata delle Regioni, anche in base al disegno di legge quadro proposto a novembre 2022 dal ministro Calderoli (per gli Affari regionali e Autonomie). Tra le opinioni più preoccupate rispetto ai contenuti di questa proposta si possono richiamare la risoluzione approvata il 1/12/2022, a maggioranza, dal Consiglio regionale della Campania, l’avvio di raccolta firme per una legge d’iniziativa popolare che cambi gli articoli 116 e 117 della Costituzione (di un gruppo di cittadini che fanno riferimento al Coordinamento per la Democrazia Costituzionale), le posizioni espresse da Anaao-Assomed (il principale sindacato di medici ospedalieri) sui rischi di “egoismo territoriale” che frantumano il diritto alla salute.

 

La proposta Calderoli punta a trasferire alle Regioni poteri e risorse su 23 materie, tra le quali la sanità, l’istruzione, la tutela dell’ambiente, la protezione civile, la sicurezza sul lavoro, e le principali perplessità suscitate dal modello proposto sembrano essere:

  1. Il rischio che si indebolisca il ruolo del Parlamento, riducendolo di fatto ad un organo di ratifica delle intese assunte tra Governo e singole Regioni. Il processo per attivare maggiori funzioni regionali si fonda infatti su un percorso di negoziazione tra la singola Regione ed il Governo, con un parere della Commissione parlamentare per gli affari regionali. Ed il Parlamento deve poi approvare l’intesa finale senza poterla modificare
  2. La fragilità del meccanismo per evitare differenze eccessive nei diritti dei cittadini, che prevede che prima del trasferimento di funzioni alle Regioni siano definiti i livelli essenziali delle prestazioni (LEP) da garantire ovunque, come prevede l’art. 117 della Costituzione; fragilità derivante dal fatto che si prevede che se i LEP non vengono approvati entro un anno dalla legge quadro i finanziamenti alle Regioni interessate alle nuove funzioni si baseranno sulla spesa storica, definita in una commissione mista Stato/ Regione.

 

Sono snodi da tempo dibattuti nel lungo e caotico percorso verso un federalismo regionale, che dura sin dall’approvazione della legge 42 del 2009 di delega al Governo in materia. È tuttavia difficile sfuggire alla sensazione che la proposta Calderoli venga oggi avanzata soprattutto per introdurre un modello istituzionale che è connaturato alle forze politiche oggi al governo, con il rischio di una spinta alla differenziazione regionale più fondata su intenzioni ideologiche che su verifiche di maggior qualità per i cittadini di una diversa distribuzione dei poteri tra Stato e Regioni. Come già rilevato da altri osservatori1 manca nella discussione una più robusta evidenza su “che cosa migliorerebbe in concreto” col trasferimento di nuove funzioni e risorse, che peraltro è ciò che davvero dovrebbe essere esposto ai cittadini. Altrimenti, come appare sinora anche nelle motivazioni esposte dalle Regione favorevoli al nuovo assetto, si rischia di fondare il modello solo su concetti troppo generici (“valorizzare meglio il territorio”, “modellare i servizi sulle specificità locali”, “portare le scelte più vicino ai cittadini”, e simili), oppure su una efficacia ed efficienza che si presumono a priori migliori soltanto perché il governo delle funzioni è regionale anziché statale. Approfondire “perché” funzionano meglio maggiori poteri regionali, consentirebbe di fondare meglio le scelte su esperienze, ed anche di mettere a fuoco funzioni per le quali un maggior ruolo regionale è più utile (ad esempio politiche ambientali e culturali) e altre nelle quali rischia di frantumare diritti (come nelle politiche sanitarie) o creare scenari irrazionali (ricordiamo in fase di piena pandemia Covid posizioni di Regioni che volevano normare vaccinazioni e norme di tutela locali, come se il virus si comportasse diversamente in differenti Regioni).

 

Ma anche chi sostiene con più forza una maggiore autonomia delle regioni ha ben presente l’esigenza di non creare critiche differenze nei diritti fondamentali per i cittadini. Ed i correttivi proposti sono:

  • la definizione dei livelli essenziali delle prestazioni (i LEP) come quadro normativo che garantisca un livello minimo di interventi in ogni Regione;
  • modalità di distribuzione delle risorse nazionali alle Regioni che puntino a evitare/ridurre critiche differenze tra le offerte del welfare nei diversi territori.

Merita dunque riflettere sul possibile funzionamento di questi due meccanismi, e per essere più concreti qui li si discute con riferimento agli interventi sanitari e sociosanitari.

 

I livelli essenziali delle prestazioni

La Costituzione prevede all’art. 117 che lo Stato debba procedere alla “determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale”, ma ecco quattro rilevanti limiti sinora emersi nei LEA (denominazione dei livelli essenziali delle prestazioni sanitarie e sociosanitarie, normati dal dPCM 12/1/2017):

 

1. I LEA (come tutti i LEP) dovrebbero essere le prestazioni da garantire in modo uniforme in tutto il territorio nazionale, visto che questo è appunto un loro obiettivo primario. Ma se si osservano gli interventi che i cittadini possono ricevere nelle diverse Regioni è facilissimo trovare enormi differenze. Che cosa consente di trasformare livelli essenziali che dovrebbero essere uniformi in offerte molto diverse per i cittadini? Almeno questi meccanismi:

  • La definizione di interventi nella normativa su LEA con un linguaggio troppo generico. Nel dPCM 12/1/2017 ci sono interventi/livelli essenziali ben definiti (come le forniture di protesi, o la presa in carico entro il primo mese di vita dei nuovi nati) e altri che non spiegano abbastanza, o si prestano a qualunque interpretazione; ad esempio le cure domiciliari ai non autosufficienti che devono essere “…integrate da interventi sociali”, il che non significa nulla.
  • L’assegnazione alle Regioni di eccessive discrezionalità nella messa in opera dei livelli essenziali, col rischio che per adattarli ai servizi di ogni Regione (che su alcune tematiche sono enormemente diversi, basti pensare all’assistenza domiciliare per i non autosufficienti) ciò che si fornisce al cittadino venga deformato per piegarlo ai modelli organizzativi locali.

 

2. I LEA (come tutti i LEP) dovrebbero avere il significato di interventi che vanno garantiti ai cittadini, ossia che sono loro diritti esigibili, anche minimi (ossia appunto “essenziali”) ma comunque fruibili. Ma è facile constatare che l’esigibilità reale anche di interventi descritti nei LEA è molto indebolita non solo da eventuali risorse insufficienti (ad esempio nel SSN), ma anche dal prevedere che i LEA sono subordinati alle risorse disponibili degli enti che li gestiscono (come prevede ad esempio l’art. 1 del Lgs. 229/1999), il che significa farne ben strani diritti, finanziariamente condizionati, con una esigibilità del tutto incerta2

Di conseguenza vi sono Regioni nelle quali i non autosufficienti ricoverati in RSA devono pagarsi tutto il costo della retta (circa 90 euro al giorno) perché le ASL non pagano il 50% che invece deve essere a loro carico (in base ai LEA vigenti). E vi sono Regioni nelle quali l’assistenza domiciliare a non autosufficienti gravi consiste al massimo in 3 ore settimanali di un operatore sociosanitario, e altre invece nelle quali la famiglia può invece scegliere tra un mix di interventi connessi ad un budget di cura significativo.

Ma rispetto a questi dati di realtà, chiediamoci, ai cittadini interessa disporre di livelli essenziali che garantiscano interventi robusti ed esigibili anche se si vive in territori diversi, oppure interessa di più ricevere ciò che il modello regionale prevede, perché così è più “modellato su specificità locali”?

 

3. Per definizione i LEA devono essere aggiornati nel tempo, in ragione dell’evoluzione dei bisogni, delle capacità di intervento, delle risorse. Ma i LEA emanati nel 2001 hanno ricevuto il primo aggiornamento solo nel 2017. La Corte Costituzionale, con sentenza n° 242 del 1/12/2022 ha stabilito che i LEA non sono modificabili dalle Regioni; ma la Corte nell’occasione ha evidenziato la necessità di modificare i meccanismi di aggiornamento dei LEA, con questo giudizio “Il tempo trascorso, da cui deriva la sicura obsolescenza delle prestazioni previste, non trova alcuna giustificazione in relazione a un tema essenziale per la garanzia del diritto alla salute in condizioni di eguaglianza su tutto il territorio nazionale, senza discriminazione alcuna tra regioni”. Occorre dunque un dispositivo che permetta revisioni più adeguate dei LEA al mutare delle condizioni.

 

4. Esiste un sistema di monitoraggio del Ministero della Salute che annualmente verifica se le singole Regioni adempiono alla messa in opera dei LEA. Ma non contiene ancora indicatori adeguati su diverse tematiche, ad esempio per verificare il livello di interventi domiciliari per i non autosufficienti, oppure per valutare se l’assistenza sanitaria territoriale evita ricoveri ospedalieri non appropriati.

 

Le risorse da distribuire alle Regioni

Un secondo meccanismo importante per ridurre differenze improprie tra territori riguarda le modalità per programmare la distribuzione delle risorse finanziarie statali. Si tratta di definire come si individuano (e si monitorano nel tempo) i fabbisogni regionali, superando finanziamenti basati sulla spesa storica. Ma non è sufficiente prevedere che i finanziamenti statali siano erogati alle Regioni solo sulla base dei “costi standard” dei servizi essenziali da garantire. Se lo scopo delle risorse trasferite alle Regioni vuol essere anche di superare inaccettabili squilibri tra i servizi fruibili in diverse regioni, il sistema dovrebbe sia definire i costi standard delle prestazioni e servizi da garantire ovunque (ossia appunto i livelli essenziali), sia valutare le differenze dei “bisogni” di ogni regione, ossia monitorare dove rischi e situazioni di deprivazione richiedono risorse più adeguate.

Su questo secondo aspetto merita ricordare che in Conferenza delle Regioni del 2/12/2022 i Presidenti di Regione e delle Province di Trento e Bolzano hanno concordato sull’introduzione di nuovi criteri per distribuire le risorse per finanziare i servizi sanitari regionali, prevedendo che non si utilizzi più soltanto la distribuzione per età della popolazione, ma anche il tasso di mortalità e l’indice di deprivazione socioeconomica.

Ma per questo obiettivo è indispensabile anche costruire (e condividere) il set di indicatori che descriva in modo affidabile ed articolato (e monitorabile con continuità nel tempo) le condizioni di deprivazione e bisogno che si intende ridurre. Operazione che richiede lavoro almeno su due fronti: la definizione degli indicatori e le modalità per misurarli nelle diverse regioni, ossia per muovere verso sistemi informativi capaci di raccogliere in modo organico informazioni affidabili e mirate.

 

Una prima conclusione

Per discutere meglio delle ipotesi di crescita dell’autonomia regionale sarebbe opportuno anche approfondire come debbano essere costruite le precondizioni che evitino rischi di frantumazione dei diritti dei cittadini. Impegno che sarebbe necessario anche rispetto a precondizioni (come la definizione dei LEP e le modalità di distribuzione delle risorse alle Regioni) che pure sono incluse nel modello ipotizzato dal Governo, ma che riguardano sistemi operanti e dispositivi che sinora hanno manifestato:

  • gravi genericità nei contenuti, rischiando di assumere come “livelli essenziali” imprecise definizioni di diritti dei cittadini e di interventi da garantire;
  • insufficiente garanzia di esigibilità da parte dei cittadini dei livelli essenziali che pure sono definiti:
  • importanti deficit di conoscenza;
  • tempistiche di aggiornamento troppo lunghe rispetto alle esigenze:
  • inadeguati processi che monitorino la messa in opera reale dei livelli essenziali, e che ad essa leghino distribuzioni di risorse, e dispositivi premianti o sanzionatori.

 

Se i due meccanismi discussi in questo articolo sono individuati come condizioni preliminari per una maggior autonomia regionale che non differenzi i diritti dei cittadini, e già oggi non funzionano in modo adeguato, ha senso ampliare le differenze dei welfare regionali senza almeno un robusto riordino di quei dispositivi?

  1. Stefano Piperno, “Per un confronto sereno sul regionalismo differenziato”, Commenti, n° 253 del 5/12/2022, Centro Studi sul Federalismo, Torino
  2. Merita ricordare che ci sono importanti sentenze nella giurisprudenza recente, della Corte Costituzionale e del Consiglio di Stato che dichiarano illegittime leggi regionali disponendo che se una prestazione è definita come livello essenziale, non è legittimo subordinarne l’erogazione alla disponibilità di risorse. Queste sentenze sostengono che in tal caso vi sono “diritti incomprimibili prima del pareggio del bilancio (…)” che “ (…) devono prevalere sulle esigenze di spesa pubblica”.