Riempire le scuole vuote: una proposta per l’estate


A cura di Tortuga | 20 Maggio 2020

Riaprire le scuole oppure no? Ad oggi, 191 Stati, che comprendono circa il 91% degli studenti in tutto il mondo, hanno chiuso le loro scuole per cercare di contenere la diffusione del coronavirus. La chiusura delle scuole avrà un impatto importante su tutti gli studenti, non solo in termini di sviluppo cognitivo o progresso accademico, ma anche relazionale ed emotivo. A soffrirne maggiormente saranno gli studenti più vulnerabili: bambini migranti, rifugiati o con bisogni educativi speciali (Bes) che vedranno le loro difficoltà inasprirsi, ma anche bambini di famiglie a basso reddito che non hanno accesso alle tecnologie necessarie per la didattica online.

Per di più, il Miur ha stimato che un 20% degli studenti sia stato “perso” nel passaggio alla didattica a distanza. Un recente studio ha misurato che una chiusura prolungata delle scuole porterebbe gli studenti a perdere il 30% dei progressi in comprensione del testo e più del 50% in matematica. Per alcune classi d’età, la perdita potrebbe equivalere a un intero anno di insegnamento.

 

La proposta del think-tank Tortuga

In molti stanno pensando a come garantire supporto nei mesi estivi ai genitori lavoratori e recuperare almeno parte del tempo perso con le scuole chiuse. Ma tra le proposte avanzate finora mancano in particolare due elementi: dove organizzare le attività estive e con quale personale. È fondamentale che il Governo, assieme agli enti locali, si attivi per mettere a disposizione le 41mila strutture scolastiche presenti sul territorio, altrimenti inutilizzate, per attività facoltative di formazione nei mesi estivi. A questo fine sarebbe necessario coinvolgere educatori di asili nido e scuole materne e il corpo docente degli istituti scolastici.

Le attività estive, infatti, non solo garantirebbero l’apprendimento degli studenti ma anche il supporto ai genitori che torneranno al lavoro, soprattutto considerando che i campi estivi e gli oratori non saranno attivi come di consueto. La partecipazione di studenti, insegnanti ed educatori non potrebbe che essere su base volontaria (con bonus in busta paga per i docenti), per lasciare a famiglie e a docenti la ponderazione dei rischi sanitari (in caso, per esempio, di famigliari a rischio). La regia spetterebbe al Governo, con il supporto fondamentale di Comuni (per la fascia 0-6 anni, il coinvolgimento del terzo settore e la regia sul territorio) e le Regioni (per le disposizioni sanitarie).

 

Per quanto il Governo stia prendendo in considerazione di estendere i bonus baby-sitter e i congedi straordinari, queste misure non sarebbero in grado di coprire le reali necessità dei genitori, in particolare delle donne – che sarebbero le prime ad rimetterci – e dei nuclei mono-genitoriali. E anche i bandi “Educhiamo” e “Giochiamo” proposti dal Ministero della Famiglia potrebbero contribuire solo in parte a risolvere il problema.

Chi rientrerebbe nelle scuole?

Allo stesso tempo, sono diversi i criteri da considerare nel pianificare un’apertura estiva degli istituti scolastici, in particolare nel decidere a quali studenti dare la priorità, non potendo ospitare tutti per garantire le norme di distanziamento sociale. Si potrebbe aprire la possibilità di partecipare alle attività estive a chi frequenta l’asilo nido, le scuole materne, le elementari e le terze medie. Perché questa scelta?

In primis, va considerato che alcuni anni del ciclo scolastico sono particolarmente importanti, come quelli di passaggio fra i vari livelli di istruzione. Basti pensare alle attuali terze medie, che hanno perso gli ultimi fondamentali mesi di formazione e orientamento prima di approcciarsi alle scuole superiori. Ma è altresì vero che il picco nello sviluppo cognitivo, emotivo e sociale si ha entro i primi tre anni di vita, rendendo altrettanto importante favorire il rientro al nido e alle scuole materne. Inoltre, mentre gli studenti di superiori e medie – che sarebbero in buona parte esclusi – sono in grado di studiare autonomamente, i bambini delle elementari difficilmente progrediscono nell’apprendimento per conto loro, anche se supportati per quanto possibile dai genitori.

Vi è poi l’urgenza di far rientrare alcuni gruppi specifici di studenti. Tra questi, i bambini di famiglie in cui entrambi i genitori (o il singolo genitore) lavorano, o gli studenti con Bes o Dsa, che faticano a trarre il massimo dalla didattica a distanza senza il supporto specializzato di insegnanti di supporto. Inoltre, inclusione significa anche relazione con i compagni, e l’apprendimento di ragazzi con disabilità è in gran parte sociale. Un discorso simile può essere fatto per i bambini migranti e in genere per quelli stranieri che non hanno ancora una proprietà di linguaggio definita dell’italiano, o i cui genitori faticano a supportarli nell’apprendimento a distanza. È anche il caso degli studenti Rom o sinti, che già in situazioni normali soffrono di grossi svantaggi nel sistema educativo.

 

Un ulteriore criterio da tenere in conto è quanto gli alunni delle differenti età siano in grado di rispettare le misure di igiene e sicurezza.  Sarebbe più facile assicurarsi che i ragazzi delle medie e delle superiori rispettino le norme necessarie, anche se gli spazi andrebbero ripensati e le dimensioni delle classi ridotte. Al contrario, il rischio sanitario è alto per asili nido e istruzione prescolastica, che Banca d’Italia elenca tra i 10 settori più a rischio per contatti fisici ed esposizione a malattie.

Per quanto i giovani sembrino meno soggetti a contrarre il virus e a subire conseguenze gravi rispetto agli adulti, i bambini sono un potenziale veicolo di contagio non solo per gli insegnanti e per i loro coetanei, ma anche per i familiari più fragili: si stima che circa il 15% degli anziani faccia parte dello stesso nucleo familiare dei nipoti o viva nel loro stesso edificio, e i nonni che abitano con i nipoti tendono ad essere meno in salute e in età più avanzata.

Per bilanciare il trade-off tra rischio sanitario, supporto alle famiglie e vantaggi educativi, sarebbe importante offrire le attività didattiche nelle scuole almeno agli alunni più piccoli. Per chi invece può restare a casa da solo mentre i genitori lavorano, questa necessità è meno impellente. Per di più, il 90% degli alunni di elementari e medie vive nello stesso Comune della propria scuola, mentre il dato si abbassa al 43% per le superiori. Concentrarsi sui più giovani allevierebbe il già complesso problema della mobilità nella fase 2.

 

Altri paesi europei hanno riaperto le scuole per i più piccoli e programmato la riapertura progressiva degli altri livelli scolastici. Osservare lo sviluppo della situazione in queste nazioni potrebbe dare degli interessanti spunti di riflessione per le pratiche da adottare, o evitare, nel riaprire gli istituti.

 

Come rendere possibile la proposta

Prima di tutto va garantita la tutela sanitaria. Tra le varie soluzioni vi sono ridurre le classi a piccoli gruppi, che debbono rimanere gli stessi per tutto il periodo, organizzare turni di attività, assegnare a ogni gruppo di studenti gli stessi formatori per tutto il periodo estivo, monitorare la salute degli studenti, sanificare gli spazi, usare i dispositivi di protezione individuale e far lavare spesso le mani ai bambini. Si potrebbero poi sfruttare gli spazi aperti disponibili nelle strutture scolastiche. In caso di ampia adesione alla riapertura estiva, gli alunni potrebbero essere trasferiti nelle aule delle scuole medie e superiori presenti nello stesso comune: dato che gli studenti più grandi non parteciperebbero alle attività, gli spazi delle oltre 12mila scuole statali secondarie di primo (7239) e secondo (5283) grado potrebbero garantire un maggior distanziamento tra i partecipanti.

 

Nonostante la partecipazione sia volontaria, è però necessario incentivare il ritorno sui banchi di scuola, soprattutto dei minori le cui famiglie valutano meno l’investimento formativo sui figli. Per molti alunni non essere a scuola significa non ricevere un pasto che la propria famiglia fatica ad offrire: nel 2018, il 9,4% delle famiglie italiane con due figli minori non poteva permettersi di mangiare carne o pesce ogni due giorni (dati Istat).

A questo fine, si potrebbe offrire un buono spesa agli studenti con reddito Isee corrente medio-basso, con l’effetto di ridurre povertà e dispersione scolastica, e di migliorare la salute e le performance scolastiche degli alunni. La nostra proposta si riferisce ai buoni spesa poiché la rapida attivazione di un servizio mensa durante l’estate è difficoltosa: la ristorazione scolastica va ripensata a causa del rischio sanitario connesso all’elevato contatto tra i bambini, e gli appalti riorganizzati. Inoltre, solo il 50% dei bambini delle scuole elementari e medie ha accesso alla mensa, e l’erogazione del servizio è molto disomogenea poiché decisa a livello comunale. Il buono spesa può dunque costituire un aiuto omogeneo e realizzabile su larga scala.

 

Il personale necessario

Ma chi gestirebbe bambini e ragazzi? L’organico di fatto degli insegnanti nell’anno scolastico 2019/2020 nelle scuole elementari, medie e superiori è composto da poco meno di 850mila docenti, di cui tra il 10 e il 20 per cento supplenti precari. C’è poi il bacino di chi orbita nelle graduatorie ad esaurimento (circa 35mila insegnanti) e in quelle di istituto (un numero molto maggiore ma difficilmente quantificabile). E poi gli educatori degli asili nido e delle scuole materne. Le attività didattiche e formative estive organizzate nelle strutture scolastiche potrebbero essere tenute proprio da questi insegnanti, senza dimenticare il supporto che sarà necessario da personale Ata e segretari amministrativi.

 

Per garantire la presenza di un numero sufficiente (attorno al mezzo milione di insegnanti ed educatori, nel caso in cui l’adesione da parte dei minori fosse del 50 per cento), senza modificare il contratto nazionale, sarebbe necessario offrire un bonus mensile di uguale ammontare sia per insegnanti di ruolo che per i docenti senza cattedra (da assumere con contratto a tempo determinato). Dato che la letalità del Covid-19 aumenta con l’età, andrebbe inoltre garantita la tutela di chi è più in là con gli anni.

Anche alla luce delle recenti linee guida Inail, che propongono una sorveglianza sanitaria eccezionale per i lavoratori sopra i 55 anni, potrebbe essere ragionevole limitare la partecipazione a insegnanti ed educatori con meno di 50 anni di età. Questo limite di garanzia sanitaria pone una sfida per la fattibilità della proposta: secondo l’Ocse nelle scuole primarie meno del 50% di maestri e maestre ha meno di 50 anni e appena il 40% per le scuole medie e superiori.

Per questo risulta fondamentale il coinvolgimento di giovani professori e maestri precari, e degli studenti in scienze della formazione.

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Fonte
Questi sforzi potrebbero però non bastare: gli alunni di elementari e terze medie potenzialmente coinvolti sono circa 3 milioni. Non vanno dimenticati inoltre i bambini che frequentano l’asilo nido (350mila bambini per gli ultimi dati Istat) e le scuole materne (circa 1 milione).

Per offrire servizi educativi e formativi all’altezza e in sicurezza a tutti gli utenti sarebbe dunque fondamentale coinvolgere il terzo settore, nel caso in cui non fosse possibile organizzare per l’estate corsi e campi estivi, per ragioni sanitarie. Per evitare il collasso del settore e rendere possibile il progetto delle scuole aperte durante l’estate, queste realtà potrebbero confluire nelle strutture scolastiche. Il loro apporto, assieme a quello di chi svolge il servizio civile nazionale, potrebbe essere reso possibile grazie a convenzioni standardizzate con i comuni, e garantire attività di formazione informale e sociale particolarmente preziosa soprattutto per bambini e studenti più giovani.

 

Conclusione

Da anni in Italia discutiamo sull’utilità di vacanze estive tanto lunghe, in cui molto spesso gli studenti perdono parte delle conoscenze e competenze apprese durante l’anno. La crisi pandemica che ha colpito il nostro paese può essere l’opportunità di ripensare, almeno per quest’anno, alcuni dogmi dell’istruzione italiana e di rimettere al centro il ruolo fondamentale della formazione e dell’istruzione nella rimozione delle disuguaglianze prescritta dall’articolo 3 della Costituzione. A patto che si inizi a lavorarci subito.

 

Coautrice dell’articolo è Cecilia Mezzanotte1

  1. Consulente presso il Dipartimento dell’Istruzione dell’Ocse, si occupa di inclusione e diversità nei sistemi educativi, nel Progetto “Strength through Diversity”. In particolare, si occupa di inclusione per gli studenti con bisogni educativi speciali e di questioni di genere all’interno dei sistemi educativi. Laureata magistrale presso l’Università Bocconi, si è specializzata in Economia e Management delle Organizzazioni Internazionali, con un minor in Healthcare.

Commenti

Assolutamente d’accordo con le conclusioni, in particolare con l’ultima frase: non possiamo (o non dovremmo ?) aspettare. Sul versante epidemiologico gli attuali problemi non saranno risolti a settembre, mentre in compenso sul versante educativo dovremo affrontare la “rieducazione” di bambini che, dopo un’assenza così prolungata, oltre a carenze e diseguaglianze marcate nella preparazione avranno dei problemi per riattivare la dinamica dei rapporti con i compagni e gli insegnanti in modo favorevole per la loro crescita culturale e civile. L’epidemia non è un brutto sogno dal quale ci risveglieremo con il bacio di un principe azzurro: è necessario studiare e attivare da subito soluzioni diverse da quelle del passato, per continuare a garantire il diritto allo studio.