Stefano Toso interviene sul Reddito di Cittadinanza

Intervista a Stefano Toso (Professore Ordinario di Scienza delle Finanze all’Università di Bologna), a cura di Daniela Mesini


A cura di Daniela Mesini | 16 Aprile 2017

Che cosa si intende per Reddito di Cittadinanza? Quali le principali differenze con il più noto Reddito Minimo?

Quando si parla di «reddito di cittadinanza» o «reddito di base» (in inglese basic income) la prima cosa da fare è intendersi sui termini. A questo fine è utile il riferimento allo statuto del Basic Income Earth Network (BIEN), l’associazione che ne propugna l’applicazione a livello nazionale e transnazionale, secondo cui il reddito di cittadinanza è «un reddito erogato in modo incondizionato a tutti, su base individuale, senza alcuna verifica della condizione economica o richiesta di disponibilità a lavorare». Nella sua accezione più estrema questo istituto dovrebbe fare piazza pulita di tutti i trasferimenti monetari esistenti, non solo assistenziali ma anche previdenziali. Questo vorrebbe dire in Italia abolire le pensioni sociali, quelle di invalidità civile, le integrazioni al minimo delle pensioni, l’indennità di accompagnamento, ecc., nonché i trattamenti pensionistici di vecchiaia, di anzianità e di reversibilità! Il reddito di cittadinanza sarebbe a carico della fiscalità generale e la sua copertura assicurata dal gettito proveniente da un’imposta sul reddito opportunamente riformata in senso proporzionale. Nella sua radicalità, il reddito di cittadinanza incarna l’universalismo più puro in materia di sicurezza sociale, qualcosa che non è mai stato realizzato da che mondo è mondo.

 

Il modello antitetico al reddito di cittadinanza è quello del «reddito minimo». Con quest’ultima espressione si intende un trasferimento in moneta destinato alle famiglie in condizioni di povertà economica e disponibili a cercare un lavoro e/o un reinserimento sociale: un trasferimento quindi non categoriale, cioè rivolto a tutti poveri in quanto tali, e selettivo, ovvero subordinato a stringenti limiti di reddito e/o di patrimonio e alla disponibilità di dare qualcosa in cambio alla società (la disponibilità a lavorare, a partecipare a programmi di formazione professionale, ecc.). Il reddito minimo è presente in tutta l’Unione europea (UE-28), eccetto alcune significative eccezioni, l’Italia e la Grecia. In questi ultimi due paesi sono attualmente in corso «prove di reddito minimo» che dovrebbero preludere alla loro messa a regime in un numero di anni ragionevolmente breve.

 

Cosa distingue il reddito di cittadinanza dal reddito minimo? Vista la distinzione lessicale precedente non è difficile coglierne le differenze. Essendo erogato su base individuale e in modo automatico a tutti, ricchi e poveri, per il solo fatto di esistere e in virtù del diritto ad accedere ai frutti delle risorse comuni (la terra, le risorse naturali, ecc.), il reddito di cittadinanza non soffre dei problemi tipici di un trasferimento subordinato alla verifica della condizione economica, ossia l’invasione nella sfera privata del singolo cittadino, gli elevati costi amministrativi di gestione, lo stigma sociale, il rischio di una non corretta identificazione dei potenziali beneficiari e la possibilità che questi ultimi restino intrappolati in una condizione di povertà e mancata occupazione, essendo il reddito minimo erogato in funzione inversa al reddito del soggetto (l’intuizione è: chi me lo fa fare di lavorare, se per ogni euro di reddito prodotto sul mercato perdo un euro di sussidio o una frazione di esso?).

A che punto sono gli altri paesi, europei e non, rispetto all’implementazione di una politica di contrasto alla povertà incondizionata ed universale?

Nonostante il dibattito sul tema risalga ad almeno due secoli fa e il reddito di cittadinanza sia periodicamente proposto da grandi studiosi di diversa estrazione culturale, nessuna nazione ha mai implementato una politica di lotta alla povertà autenticamente universale. Gli unici tentativi in un paese industrializzato hanno avuto per oggetto la città canadese di Manitoba, dove fu garantito un reddito a tutta la popolazione per un periodo di quattro anni (1975-1979), e l’Alaska, dove è in vigore da circa un trentennio il cosiddetto Permanent find dividend, un programma di redistribuzione dei rendimenti di un fondo vincolato, in parte investito sui mercati finanziari nazionale ed estero, in cui confluiscono le entrate che lo Stato ricava dalle concessioni di sfruttamento dei pozzi petroliferi. Il caso dell’Alaska è tuttavia difficilmente esportabile: sia per i motivi che ne hanno determinato l’introduzione, sia per il particolarissimo contesto geografico in cui si realizza (un paese di circa 370.000 abitanti, residenti su di una superfice pari a quasi sei volte l’Italia).

 

Quali sono i motivi che ostacolano l’introduzione del reddito di cittadinanza? Se ne possono individuare almeno tre: uno di tipo normativo, uno relativo alla sua sostenibilità economica ed uno collegato alla sua realizzabilità politica. La prima obiezione è quella avanzata dal maggiore filosofo politico del XX secolo, John Rawls, secondo il quale «non è giusto sussidiare i surfisti a tempo pieno di Malibu (California)». Con tale metafora l’autore vuole dire che non è eticamente accettabile che tra gli ipotetici destinatari del diritto all’assistenza pubblica ci sia chi non lavora e, soprattutto, non vuole farlo. Una seconda obiezione è di ordine economico e riguarda l’intollerabile pressione tributaria che il finanziamento di un reddito di cittadinanza di importo non trascurabile comporterebbe per i contribuenti. Solo per fare un esempio: un reddito di cittadinanza pari alla metà del reddito medio della nazione e interamente finanziato con un’imposta proporzionale sul reddito richiederebbe un’aliquota media e marginale del 50%, un valore di gran lunga superiore a quelli che si riscontrano nei sistemi tributari vigenti. Ma anche ipotizzando importi molto più contenuti del sussidio universale si porrebbero problemi di compatibilità macroeconomica della spesa: un reddito di cittadinanza di 100 euro mensili significherebbe nel nostro paese una spesa di poco più di 70 miliardi di euro annui, un valore pari all’intera spesa pubblica per l’assistenza! Il terzo motivo che osta all’introduzione di un sussidio autenticamente universale è di natura politica e consiste nel cosiddetto «effetto magnete»: il paese che lo volesse introdurre incentiverebbe flussi migratori in entrata poiché offrirebbe ai neo-residenti la possibilità di godere, dopo un certo numero di anni, di una garanzia di reddito incondizionato.

 

Perché in Italia è totalmente irrealistico pensare ad un Reddito di Cittadinanza?

Il fatto che in nessuna parte del mondo sia mai stato introdotto il reddito di cittadinanza non significa che non ci si possa incamminare su quella strada nel corso del XXI secolo, secondo una logica non sostitutiva ma complementare degli attuali comparti della sicurezza sociale. Alcuni paesi (Finlandia, Olanda) hanno avviato di recente forme più o meno estese di basic income e la valutazione di quegli esperimenti aiuterà a far maturare un dibattito serio ed empiricamente fondato sul tema. Del resto, se alcune prestazioni in natura di importanza fondamentale (sanità, istruzione) sono erogate con modalità universali e semi-gratuite in molti sistemi europei di protezione sociale, perché non immaginare in un futuro prossimo anche la fornitura pubblica di un sussidio in moneta, ancorché modesto ma non subordinato a limiti di reddito?

 

Se questo è l’orizzonte che hanno di fronte i sistemi di welfare state più evoluti, la stessa cosa non si può dire di quello italiano che, a vent’anni dalle proposte di riforma della Commissione Onofri, continua ad essere caratterizzato dal peso preponderante della componente previdenziale e da una cronica sotto-dotazione di risorse per quella assistenziale, con particolare riferimento alle politiche di lotta della povertà, cui sono destinati poco meno di 20 miliardi, la maggior parte dei quali (13 miliardi) assorbiti dalle integrazioni al minimo delle pensioni. Il reddito di cittadinanza non rientra quindi nell’agenda politica italiana, sia per le incongruenze della spesa sociale sopra citate sia perché il nostro paese manca ancora di un sistema di reddito minimo analogo a quelli esistenti nei principali partner europei. I trasferimenti assistenziali presenti in Italia hanno natura soprattutto categoriale (le pensioni sociali, rivolte ai poveri con più di 65 anni; l’assegno al nucleo familiare, destinato alle famiglie in condizioni economiche disagiate ma in cui prevale il reddito di lavoro dipendente; ecc.) e solo di recente si è dato corso ad una prima e parziale applicazione di un istituto di reddito minimo, il neonato «reddito di inclusione», previsto dal disegno di legge delega approvato in Parlamento nel marzo 2017, recante norme relative al contrasto della povertà, al riordino delle prestazioni correnti e al sistema degli interventi e dei servizi sociali. Il reddito di inclusione è per ora limitato alle famiglie in cui è presente un minore, un disabile o una donna in stato di gravidanza ed è subordinato a criteri di selettività economica particolarmente severi in termini di ISEE. Esso costerà a regime, una volta esteso a tutti i poveri assoluti, tra i 5 e i 7 miliardi e ingloberà istituti vigenti come la vecchia e la nuova Social Card e l’Asdi (l’assegno assistenziale di disoccupazione): una cifra decisamente inferiore a quella (10-15 miliardi) stimata dall’Istat per il «reddito di cittadinanza» proposto dal Movimento 5 Stelle, che in realtà reddito di cittadinanza non è, essendo parametrato ad una soglia di povertà relativa e subordinato all’obbligo di cercare un’occupazione.