Welfare e salute a Milano

Intervista al neoassessore Lamberto Bertolè


A cura di Ugo De Ambrogio | 29 Novembre 2021

Lamberto Bertolè, 46 anni, è il neo assessore milanese a Welfare e Salute, ha un passato coerente con queste tematiche, da addetto ai lavori, sia come fondatore e operatore di una cooperativa sociale che si occupa di minori, che come insegnante di storia e filosofia al liceo. Negli ultimi 5 anni ha ricoperto il ruolo di Presidente del Consiglio Comunale e oggi si misura con questo nuovo compito amministrativo.

Il direttore IRS, Ugo De Ambrogio, lo incontra nel suo ufficio del quartiere Corvetto, una storica periferia milanese. Il neo assessore lo saluta calorosamente dicendo che sta bene ed è ben motivato nell’assumere le sue nuove funzioni.

 

 

Sei assessore al Welfare e salute in questa delicata fase di pandemia, non più in emergenza drammatica ma ormai quasi cronica: che significato hanno queste deleghe?

Lo shock della pandemia ha creato una grande discontinuità, ha amplificato disuguaglianze, fragilità, vulnerabilità e problemi già esistenti. E, al tempo stesso, ha aumentato la consapevolezza pubblica della centralità del welfare e dell’importanza di avere un sistema di servizi non residuale, non marginale, ma trasversale alle politiche dell’amministrazione.

Rispetto a welfare e salute è diffusa oggi una grande aspettativa. La collettività è più consapevole dell’importanza di investire sul sistema del welfare, è una consapevolezza ritrovata che ci offre l’opportunità di farlo e che sostiene la nostra determinazione. Abbiamo il dovere di dedicare ogni nostro sforzo ed energia alla costruzione di risposte ai bisogni, aumentando le possibilità di tutti i cittadini di sostenere le crisi e gli shock, di reagire alle condizioni di fragilità che devono affrontare. Dobbiamo fare di più sia perché è giusto, sia perché tante parti della nostra comunità, che stanno affrontando difficoltà pesanti, ci chiedono di fare di più.

Il binomio Welfare e Salute nasce da una rinnovata coscienza del valore della sanità pubblica e di quanto concorra al benessere e al welfare. Sono due piani che non possono essere scissi. Quella che abbiamo di fronte è anche un’occasione culturale per superare un’asimmetria “storica”: il welfare viene tradizionalmente considerato qualcosa che riguarda solo una parte della popolazione, la salute, invece, è universalmente riconosciuta come qualcosa che ha a che fare con tutte le persone. Ritengo che noi dobbiamo superare questa asimmetria, perché anche il welfare deve essere rivolto a tutti: tutti siamo portatori di domande di welfare. La sfida che abbiamo di fronte consiste infatti nell’innovare la capacità di rispondere a bisogni non solo delle persone più fragili e vulnerabili, ma dei cittadini milanesi in generale, che hanno, tutti, indipendentemente dalla loro condizione socio-economica, bisogni e richieste legate al welfare e alla salute.

Sappiamo che sul tema della salute le competenze comunali sono limitate, perché è una materia di competenza prevalentemente regionale, tuttavia nei prossimi mesi dovremo giocare una partita sul piano della pianificazione sanitaria e, soprattutto, su quello della promozione di una medicina di territorio. Dovremo quindi attivare un confronto costruttivo e dialettico, allo tempo stesso, con tutti i soggetti coinvolti, per far sì che la nostra città e i nostri cittadini possano ritrovarsi, al termine della pandemia, con un sistema di sanità territoriale più efficace di quello con cui hanno dovuto fare i conti nelle fasi dell’emergenza.

 

In questi mesi è in costruzione il nuovo Piano del welfare della città, mi sembra una importante occasione di costruire una visione triennale ovvero di buona parte del tuo mandato, sullo sviluppo delle politiche di welfare in città. Puoi dirci già alcune direzioni che ritieni utile che si prendano – sul fronte del cosa fare per lo sviluppo del welfare a Milano?

È una coincidenza temporale molto importante. È un bene che si faccia adesso il piano del welfare per due elementi di contesto. Il primo riguarda la pandemia: abbiamo vissuto già un anno e mezzo di shock e stiamo ancora affrontando questa crisi. Secondo elemento, siamo all’inizio del mandato e dobbiamo costruire un piano strategico di lavoro, in un momento di grande cambiamento.

Parto dall’idea che le crisi spesso, in passato, sono state vissute anche come pretesti per rallentare sul piano del contrasto alle disuguaglianze e della promozione del welfare, per non parlare dell’impegno sui temi della sostenibilità. Le crisi in passato ci hanno fatto arretrare. Nel nome della ripresa economica, in passato, le politiche hanno smesso di mettere al centro l’ambiente, il sociale e anche la legalità, in alcuni casi. Io auspico invece che emerga una grande consapevolezza, da parte delle istituzioni, a partire dall’Unione Europea, che da questa crisi così violenta si debba uscire diversamente, con un altro tipo di strategia. I fondi europei del PNRR indicano questa direzione.

Dobbiamo superare questa crisi accelerando, facendo di più, cambiando. Vorrei pertanto che il Piano di Sviluppo del Welfare della città fosse un’occasione di accelerazione e cambiamento del nostro sistema del Welfare. Non potrà essere un piano come gli altri, non sarà il tradizionale piano triennale. Si tratterà di un piano nuovo, per una fase nuova.

Mi aspetto molto da questo processo di costruzione e confronto, che non vivo come un adempimento ma come un’occasione di riflessione e scambio. Il cosa fare sarà in buona parte il risultato di quanto nascerà dall’apertura e del confronto di queste settimane con le tante persone che dovremo coinvolgere.

 

Anticipo alcune cose che ho in mente perché mi sembrano cruciali, le quali dovranno comunque essere confrontate con istruttorie e con gli altri punti di vista.

Sono convinto che dobbiamo superare in modo molto netto l’approccio tradizionale di un welfare prestazionale, che risponde a bisogni individuali e, a volte, solo ad alcuni bisogni individuali. Veniamo infatti da un sistema che spesso ha frammentato la lettura dei bisogni, e le risposte a questi, all’interno dei singoli nuclei, ragionando per componenti di un nucleo familiare e, a volte, prendendo in considerazione la singola persona.

Spesso ci si è trovati in presenza di più attori degli interventi,  i quali sono intervenuti in modo differenziato e non coordinato, su una stessa persona… Ovviamente le risposte specialistiche e le prestazioni continueranno ad esser necessarie e verranno garantite, sono molto importanti, ma non possiamo limitare le risposte di welfare costruendole su questa logica. Credo che sia invece opportuno promuovere un sistema di welfare di prossimità, di territorio, in una parola: generativo. Penso a un welfare capace di affiancare alle risposte tradizionali ai bisogni individuali, una risposta di territorio.

Tale approccio è importante perché il sistema prestazionale diventa insostenibile all’aumento dei bisogni, che è molto forte e molto netto. Non possiamo pensare di rispondere alle sofferenze aumentando le prestazioni e basta. Sarebbe insostenibile da un punto di vista economico, oltre che inefficace. In verità, solo un welfare generativo è capace di attivare risorse, competenze, relazioni nei territori che possano svolgere una potente funzione, anche di prevenzione o di accompagnamento al riscatto sociale, di costruzione di buona vita, vita diversa e migliore anche nei quartieri a basso reddito.

 

Per queste ragioni dobbiamo lavorare molto su un nuovo sistema di welfare territoriale che non abbia nelle azioni comunitarie una parte marginale, residuale, sperimentale, com’è stato spesso in questi anni. A onor del vero, negli ultimi anni molte cose sono state fatte, non siamo all’anno zero, ma sono state purtroppo solo un’aggiunta allo “zoccolo duro” dell’azione tradizionale. Io vorrei invece che si riequilibrassero questi diversi aspetti e che molte sperimentazioni realizzate fino ad oggi diventassero parte della programmazione.

Vorrei, detto in altri termini, che ci fosse un rapporto più virtuoso, organico tra lavoro di territorio e risposte ai bisogni individuali, superando il dualismo che mi sembra ancora esistente in molte situazioni. Ritengo che questo sia un aspetto decisivo.

 

Dal punto di vista dei temi sono tante le questioni sulle quali lavorare.

Per quanto riguarda i Minori e Giovani cito i temi della povertà educativa, della salute mentale, in particolare per gli adolescenti, e quello dei NEET. Sono tutte questioni molto importanti. Per fare un esempio, va considerato che l’accesso ai servizi di neuropsichiatria è più che raddoppiato negli ultimi tempi, e non sempre si riscontra un’adeguata capacità di fare diagnosi e dare risposte. Le diagnosi riguardano solo il 50% delle persone che fanno richiesta ai servizi e le risposte ai bisogni sono appena un terzo del totale.

Per quanto riguarda gli Anziani, abbiamo la questione dell’invecchiamento attivo, e quella dei moltissimi cittadini che invecchiano soli, sempre più soli, perché le famiglie si separano più di prima, perché hanno meno figli delle generazioni precedenti, perché spesso i figli vivono lontani, e questi anziani frequentemente sono costretti a vivere in condizioni fisiche di cronicità che non consentono loro di rimanere autosufficienti per lungo tempo. Lavorare su queste criticità comporterà la sfida di produrre innovazione rispetto a questa fascia di popolazione.

Relativamente alla Disabilità dobbiamo occuparci di diverse questioni che riguardano la piena inclusione dei cittadini disabili e il loro diritto a una vita autonoma. In questa area sono tantissimi i temi da affrontare: dal “Dopo di Noi” al salto che esiste tra minore e maggiore età, in termini di occasioni e opportunità di integrazione sociale, di autonomia nelle attività. Saranno tante, insomma, anche in questo ambito, le questioni su cui lavorare.

C’è poi il tema dell’immigrazione, che è un fattore strutturale della nostra società e sul quale dobbiamo essere capaci di offrire occasioni sempre più attive ed efficaci di integrazione e coinvolgimento nella vita della città.

A questo si lega il tema delle donne vittime di tratta, su cui stiamo lavorando. Vogliamo poi dare grande rilievo al contrasto alla violenza di genere, che è in forte aumento.

Mi sono limitato a indicare solo alcuni temi ma le questioni sarebbero tantissime. Fra di loro, e non secondarie, quelle dell’accesso alla casa e del contrasto alla povertà, che in una città come Milano sono molto rilevanti, anche per il costo della vita particolarmente elevato. Dal mio punto di vista, insomma, dobbiamo lavorare su un approccio diverso, che veda il territorio al centro, facendo sì che le molte realtà nate in questi anni che operano nei quartieri lavorino sempre di più in squadra tra loro, con una regia pubblica che consenta di realizzare un sistema efficace di risposta, in base alle diverse priorità sui temi che ho ricordato.

 

 

Alcune cose le hai già dette ma puoi dire qualcosa di più rispetto alle direzioni che ti sembra utile che si prendano sul fronte del come farlo?

Dovremo sicuramente coinvolgere le molte realtà ed esperienze già attive, sia quelle più strutturate e organizzate, con una lunga tradizione e storia, sia le quelle più giovani, informali, nate in quest’ultimo periodo. Mi riferisco agli enti del terzo settore, alle associazioni della cittadinanza attiva, e alle tante risorse esistenti nella città nel suo complesso.

Dieci anni fa, il primo forum delle politiche sociali realizzato a Milano si chiamava “tutta la Milano possibile”. Rileggendola oggi mi sembra un’espressione molto bella per definire il progetto di un sistema di welfare che esca dai suoi recinti tradizionali e sappia coinvolgere in modo trasversale le tante realtà esistenti nella nostra città.

Ad esempio, sarebbe molto importante coinvolgere di più le associazioni sportive. Lo sport ha una valenza sociale fondamentale. Sarebbe molto parimenti importante coinvolgere maggiormente le associazioni culturali, il mondo del volontariato e delle organizzazioni giovanili, il mondo della scuola. Tutte realtà che devono poter dire la loro ed essere coinvolte nelle politiche di welfare! Dobbiamo, in definitiva, promuovere un approccio trasversale capace di coinvolgere le migliori realtà attive a Milano.

Tra queste, anche il mondo delle imprese. La responsabilità sociale di impresa si può declinare in tanti modi e io credo che non possiamo accontentarci di una responsabilità che si esercita, come oggi avviene, nella frammentazione degli interventi. Possiamo provare a sfidare propositivamente le imprese, per coinvolgerle in una strategia di insieme. Oggi tante aziende e imprese della nostra città, autonomamente com’è giusto che sia, investono rilevanti risorse per sostenere progetti sociali. Bisogna provare a dare loro l’opportunità di entrare in programmi e progetti complessivi, costruiti insieme, offrendo occasioni per ricomporre le risorse disponibili e per perseguire obiettivi prioritari.

Credo che il come farlo sia molto legato alla centralità del ruolo pubblico che la città di Milano deve provare a esercitare.

 

 

Sul fronte del “cosa” e quello specifico della salute quali obiettivi, strategie di integrazione sociosanitaria hai in mente in questa delicata fase di pandemia, non più in emergenza drammatica ma ormai quasi cronica, caratterizzata anche da fondi in arrivo con una vocazione sociosanitaria (Case della Comunità ecc.)?

Le Case di comunità, che arrivano in ritardo, sono un’opportunità che non dobbiamo sprecare. Noi dobbiamo costruire 24 Case di Comunità in città. Partiamo dagli obiettivi: esistono alcuni obiettivi fondamentali che dobbiamo porci per rispondere alle carenze del nostro sistema sanitario.

Alcuni di questi riguardano: l’uso improprio dei Pronto soccorsi; la poca integrazione tra assistenza domiciliare sociale e sanitaria; una Medicina di territorio non adeguata; il bisogno di integrare ambito sociale e ambito sanitario.

Ne derivano quattro titoli di cose da fare e le Case della comunità possono aiutare a realizzarle, se fatte e pensate bene, rispondendo con efficacia a questi quattro problemi.

Devono pertanto essere dei luoghi riconosciuti e riconoscibili, in cui i cittadini possano trovare un orientamento e una prima risposta ai loro bisogni sociosanitari. Questo significa che dovremo prevedere, al loro interno, la presenza di una serie di professionalità in grado di orientare rispetto ai bisogni. Innanzitutto non devono essere un nuovo nome per i vecchi ambulatori, non devono essere un co-housing dove esistano cose diverse senza una governance e una strategia unitaria. Sarà quindi cruciale la gestione del punto di accesso ai servizi e la capacità di orientare e indirizzare.

 

A me interessa molto la possibilità che in queste Case trovi sede anche un pezzo di servizio sociale di territorio, il nostro servizio sociale comunale. Non sto pensando a un piano e a degli uffici dedicati al sociale in cui, per esempio, chi deve andare dall’assistente sociale va al quarto piano e chi ha bisogno di un servizio sanitario va al primo. Penso a una realtà interconnessa, con un punto di accesso in cui ci sia una risposta completa, precisa, integrata, complessiva, con uno sguardo e con “lenti di osservazione” e di assistenza alle persone che siano di tipo multidisciplinare. Penso che le Case della comunità saranno una grande opportunità, se le faremo bene.

Da subito noi dovremo lavorare sulla scelta e l’ubicazione delle sedi, perché questa è una cosa che ha tempi stretti, legati alla possibilità di utilizzare i fondi. La Giunta Lombarda ne ha previste 24 per Milano ma nulla vieta che siano di più, in seguito. Già a partire da 24, comunque, saranno un traguardo significativo. Nasceranno in parte con fondi del PNRR, in parte con fondi della Regione.

 

Il punto decisivo però sarà, come dicevo, concentrarsi con decisione sui contenuti, l’organizzazione, le competenze e i servizi che dovranno essere erogati. I dettagli sono molto importanti, penso che dovremmo anche aprire una riflessione sulle buone esperienze fatte da altre parti che, insieme all’analisi dei bisogni del nostro territorio, ci aiuteranno a capire come configurarle.

Se le costruiremo bene potranno dare risposte sui punti che dicevo in precedenza: come diminuire gli accessi al Pronto Soccorso, come regolare la medicina di territorio e quindi anche il rapporto con i medici di medicina generale, come favorire l’integrazione socio-sanitaria e l’assistenza domiciliare socio-sanitaria, che è molto importante. Su questo aprirei uno spazio di confronto, l’idea è quella di approfondire nelle prossime settimane altre esperienze per ascoltare e acquisire suggerimenti e impostazioni di valore.

 

 

Sul fronte del “come”, il nuovo quadro anche normativo sostiene fortemente un futuro collaborativo fra pubblico, terzo settore e società civile che in qualche modo si sostituisce ad un paradigma fortemente competitivo, di mercato, che ha caratterizzato gli anni della esternalizzazione. I nuovi Istituti di Coprogrammazione e Coprogettazione previsti da Codice Del Terzo Settore sono strumenti promettenti, che hanno fatto scrivere ad alcuni osservatori, su Welforum.it, che si auspica una stagione del CO (COprogrammazione, COprogettazione, COndivisione, COrresponsabilità, Comunità)1 che scenario auspichi su questo fronte, per Milano? E che ostacoli vedi?

Noi a Milano abbiamo una grande tradizione di Terzo settore qualificato e di rapporto con la pubblica amministrazione. Dobbiamo fare un salto di qualità proprio dal punto di vista della capacità di coprogrammare insieme.

È necessaria, in questa direzione, stabilire con precisione e aver chiari i ruoli. Io penso sia possibile mantenere una forte centralità del pubblico, dal punto di vista della responsabilità, al tempo stesso riconoscendo il ruolo pubblico esercitato dal Terzo settore. Questa è una condizione per coprogrammare insieme, e fornire le risposte complessive che la città deve dare ai problemi sociali.

Un ostacolo è rappresentato a mio parere da un bisogno di formazione e consapevolezza, anche culturale, che la coprogettazione implica, trattandosi, come dicevi, di un percorso che prevede un cambio di approccio/paradigma.

Il Terzo settore non dev’essere più considerato un fornitore ma un partner reale della progettazione. Al tempo stesso il Terzo Settore deve mettersi in gioco. Ha fatto molto ma dovrà fare ancora di più e ancora meglio, dal punto di vista della capacità di condividere strategie, risorse, costruire alleanze, superare una logica competitiva, ragionando e costruendo obiettivi comuni con le altre realtà. Ci vorrà anche del tempo ma è un approccio importante da perseguire fin da ora.

 

Un altro elemento che voglio sottolineare è che Milano è una città molto fertile, viva e ricca di iniziative. Alcune sono molto strutturate e organizzate e hanno luoghi di rappresentanza, altre sono distribuite nella città e magari non conosciute. Milano è, dal mio punto di vista, un insieme di tante isole. Quindi un fattore ostacolante è la forte frammentazione degli interventi che ancora esiste.

Superare la frammentazione e costruire un sistema integrato deve essere fatto senza però togliere vita, energia e anche autonomia alle tante realtà che esistono. Questo non è un aspetto banale, perché si tratta di tenere insieme due esigenze: la spontaneità dal basso di chi si auto-organizza per rispondere ai problemi e il bisogno di costruire una filiera di risposte per evitare vuoti e ridondanze, in modo che si possa lavorare con efficacia sull’appropriatezza delle risposte.

Questa è una cosa che mi preoccupa e sta a cuore. Un sistema a isole fa sì che ci si faccia carico di problemi a volte non nel modo più appropriato possibile. Invece la filiera/sistema consente di orientare/indirizzare ai bisogni le risposte in modo più coerente. Credo che in questo percorso dovremmo tutti fare subito non uno ma due passi avanti!

  1. vedi su welforum.it: Marocchi G. De Ambrogio U.; Santuari A.