Il Terzo settore di fronte al Codice: una sfida impegnativa


Luca Gori | 7 Novembre 2017

La definizione di ETS. Finalmente

Il decreto legislativo n. 117/2017 denominato Codice del Terzo settore (d’ora in poi, brevemente, CTS) intende costituire il “punto di riferimento” per tutti gli enti del Terzo settore: tutte le norme rilevanti per la costituzione, l’organizzazione e l’attività degli enti del Terzo settore dovrebbero essere concentrate in una sola sede normativa; mentre, sia detto per inciso, un mese dopo l’approvazione del Codice il legislatore ha già iniziato a introdurre disposizioni sul Terzo settore extra codice, inserendo nell’art. 1, comma 125, della legge 124/2017 (la “Legge annuale per il mercato e la concorrenza”) una disposizione circa la trasparenza delle associazioni, delle fondazioni e delle Onlus (che il Codice destina alla scomparsa).

L’elemento di maggiore novità è rappresentato dalla definizione di “ente del Terzo settore” (art. 4). Gli enti del Terzo settore sono enti privati, che perseguono finalità solidaristiche o di utilità sociale svolgendo una o più attività fra quelle elencate all’art. 5 del Codice (sono ben 26!) senza scopo di lucro in senso soggettivo (come precisa all’art. 8 CTS), in uno dei quattro diversi modi che il legislatore individua. Tali modi sono: “azione volontaria”, “erogazione gratuita di denaro, beni o servizi”, “mutualità”, “produzione o scambio di beni e servizi”, ovverosia – in questo ultimo caso – una organizzazione dell’ente del Terzo settore in una forma imprenditoriale.

A seconda della modalità con la quale l’ente persegue le proprie finalità e svolge le attività, il Codice distingue le organizzazioni di volontariato, le organizzazioni di promozione sociale, gli enti filantropici, le reti associative, le imprese sociali (cui è dedicato un decreto legislativo ad hoc, n. 112 del 2017), le cooperative sociali e, in generale, qualsiasi altro ente privato diverso dalle società commerciali.

 

L’iscrizione al Registro unico nazionale del Terzo settore

In presenza di tutte queste caratteristiche, il CTS consente l’iscrizione al Registro unico nazionale del Terzo settore. L’iscrizione è un onere per gli enti che intendono usufruire delle misure di favore contenute nel Codice. Gli enti che, pur avendo tutte le caratteristiche previste non intendano iscriversi, continueranno ad essere regolati dalle norme di diritto comune (codice civile e disciplina degli enti non commerciali dal punto di vista tributario). Le norme di “settore” che attualmente disciplinano le organizzazioni di volontariato, le associazioni di promozione sociale, le ONLUS sono destinate ad essere abrogate (ancorché in tempi diversi: art. 102 CTS).

Il Registro sarà una sorta di censimento “permanente” di tutti gli enti del Terzo settore (almeno di quelli che si iscriveranno al Registro unico), indipendentemente dalla forma giuridica assunta o dall’attività realizzata, con un aggiornamento costante e con un controllo da parte della P.A. decisamente più penetrante rispetto a quello attualmente svolto, consentendo peraltro una accessibilità migliore attraverso la realizzazione di una infrastruttura informatica.

 

Le misure di favore per gli enti del Terzo settore: la scelta di fondo e gli orientamenti del legislatore

Il CTS contiene una serie di misure di favore che si applicheranno agli enti, una volta perfezionata l’iscrizione al Registro unico. Esse operano, essenzialmente, su quattro fronti: il riconoscimento della personalità giuridica, il rapporto con gli enti pubblici, le misure di sostegno (diretto ed indiretto) e la disciplina fiscale.

Non è possibile illustrare questi aspetti diffusamente. La scelta di fondo compiuta dal legislatore è di creare una “area” giuridica di vantaggio per quegli enti che accetteranno, mediante l’iscrizione al Registro, di sottoporsi alla disciplina del Codice, adempiendo gli obblighi di conformazione degli statuti e delle attività a quanto previsto dalla legge, in tema di organizzazione, trasparenza, comunicazione di dati ed informazioni alla P.A.. La questione che si pone oggi è: ma il panorama degli enti del Terzo settore italiano, medio-piccoli generalmente, sarà in grado di soddisfare i molti requisiti che il Codice pone a loro carico? Oppure molti preferiranno rimanere al di fuori del Registro, nell’area del diritto comune? In altri termini: i vantaggi che il legislatore propone, se commisurati agli obblighi imposti, sono tali da “attrarre” dentro il perimetro degli enti del Terzo settore la gran parte delle attuali ODV, APS, Onlus, ecc.?

La risposta non può essere data ora. Ovviamente, più di tutto risulta attraente il regime fiscale ipotizzato per gli enti del Terzo settore (disciplinato dal Titolo X), che introduce alcune novità significative. La regola “aurea” del nuovo sistema di imposizione fiscale è dettata dall’art. 79, c. 2, CTS che prevede, in via generale, che le attività di interesse generale di cui all’art. 5 svolte dagli enti del terzo settore in via principale si considerano di natura non commerciale quando sono svolte in conformità a determinati criteri gestionali, e cioè se svolte a titolo gratuito oppure dietro versamento dei corrispettivi che non superano i costi effettivi (fermo restando che alcune attività sono considerate non commerciali per legge: art. 79, c.3). Qui, effettivamente, si pone un problema rilevante. Nessun particolare regime per gli enti del Terzo settore che svolgono attività di natura commerciale (ovverosia: i corrispettivi superano i costi effettivi), sebbene destinino interamente gli utili al conseguimento degli scopi istituzionali. In tale condizione risulta “conveniente” (inevitabile) esercitare in modo economico organizzato l’attività istituzionale nella veste giuridica dell’impresa sociale. Infatti, il decreto legislativo sull’ impresa sociale (n. 112/2017) prevede una sostanziale totale detassazione degli utili e avanzi di gestione che vengono effettivamente destinati allo svolgimento dell’attività statutaria o ad incremento del patrimonio. Appare evidente, quindi, che la disciplina “fiscale” è in realtà un volano molto efficace per orientare gli enti del Terzo settore, a seconda del modo in cui svolgono la loro attività, o verso il modello dell’impresa sociale (se l’attività è svolta in forma imprenditoriale) o verso l’ente non commerciale; a chi né l’una e né l’altra condizione risultasse conveniente, poiché non svolge attività in forma di impresa, ma riceve comunque corrispettivi superiori al costo effettivo sostenuto (ed è il caso di molti enti di piccole dimensioni), non resterebbe che proseguire a realizzare le proprie attività in una delle forme del libro primo del codice civile, qualificandosi come ente non commerciale ai sensi del TUIR, e senza chiedere di essere riconosciuto come ente di terzo settore.

 

Gli “oneri” (pesanti?) per gli enti del Terzo settore

Il dato che tuttavia colpisce maggiormente il lettore del CTS è l’imponente delimitazione dell’autonomia statutaria degli enti del Terzo settore. In questo ambito, il legislatore ha approntato una “rete” di norme piuttosto stringente. Scorrendo il Titolo IV, dedicato alle associazioni ed alle fondazioni del Terzo settore, si ha l’impressione che il legislatore abbia inteso prefigurare quasi una sorta di atto costitutivo – statuto tipo. È vero che in molti ambiti il legislatore fa salva la possibilità per l’ente del Terzo settore di disciplinare la materia diversamente, ma ciò non avviene, ad esempio, in tema di competenze dell’assemblea dei soci o nella disciplina dell’organo di amministrazione così come nel regime delle responsabilità. In altri casi, la disciplina è graduata in relazione al volume di ricavi (ad es., bilancio sociale). Viene esteso l’ambito di operatività di disposizioni attualmente previste per il modello delle società dal Libro V del codice civile agli enti del Terzo settore, prendendo atto di una storica difficoltà nella predisposizione di moduli organizzativi interni efficaci ed efficienti agli enti non profit italiani. Ciò appare opportuno per gli enti del Terzo settore che svolgono stabilmente e prevalentemente la loro attività in forma di impresa (e per questi il CTS prevede anche l’obbligo di registrazione presso il registro delle imprese: art. 11, c.3); qualche perplessità, invece, è generata dal fatto che gli enti del Terzo settore italiano manifestano una straordinaria varietà di attività e modalità organizzative, tendenzialmente di medie e piccole (quando non piccolissime) dimensioni e l’assenza di una dimensione propriamente imprenditoriale.

 

Uno sguardo di sintesi: la sfida è “posizionarsi” bene

Ciò che appare evidente è che il Codice ha inteso, da una parte, sistemare l’attuale groviglio normativo e, dall’altro, “trasformare” il volto del Terzo settore, condizionandone lo sviluppo sul lungo periodo. Così va letta anche la sopra richiamata scelta della legge di delineare in modo così stretto anche caratteristiche interne agli enti: da una parte per garantire i terzi, dall’altra per guidare il settore verso linee di sviluppo ben definite. Ed è su questo che la Riforma interroga le organizzazioni di Terzo settore.

Ci sono diciotto mesi, dall’entrata in vigore del Codice, per l’adeguamento degli statuti degli enti. In questo arco di tempo la vera sfida è riuscire a posizionarsi dentro il Terzo settore. Senza lasciarsi condizionare dalla disciplina del passato, senza guardare agli interessi più immediati: è necessario un esame lucido delle attività svolte e del modo in cui sono svolte.

Il legislatore ha puntato molto, per rispondere alla temperie del tempo presente, ad una progressiva uscita del Terzo settore dall’ambito delle “povere norme” del diritto civile delle persone giuridiche del Libro I del codice civile, per consegnarlo sempre di più, da un lato, ai moduli organizzativi tipici delle società commerciali e, dall’altro, ad un sistema di vincoli e controlli amministrativi (esterni). In altre parole, ha messo in campo la norma al tempo stesso come spinta all’adeguamento a determinati modelli e come garanzia verso gli interlocutori circa la natura positiva degli enti che vi si adeguano.

Essenziale è riuscire a cogliere il “senso” di questa trasformazione, vivendo questo tempo di “adeguamento” come una stagione di nuove opportunità, più che come un tempo di depresso ripiegarsi su di un passato normativo così caotico ed illeggibile da non essere più sostenibile per un Terzo settore maturo come quello italiano.