Schema di decreto legislativo in materia di disabilità: una prima analisi degli strumenti giuridici previsti

“Budget di progetto” e ruolo degli Enti del Terzo settore


Alceste Santuari | 5 Febbraio 2024

Lo Schema di Decreto legislativo recante “Definizione della condizione di disabilità, della valutazione di base, di accomodamento ragionevole, della valutazione multidimensionale per l’elaborazione e attuazione del progetto di vita individuale personalizzato e partecipato”, è stato oggetto dell’Intesa in seno alla Conferenza Unificata in data 11 gennaio 20241.

Avremo altre occasioni e sedi per commentare il testo che, in alcune parti, risente di una certa vaghezza e indeterminatezza circa le modalità implementative degli obiettivi che il decreto legislativo si propone di realizzare. Di seguito, l’intenzione è quella di analizzare, seppure in forma sintetica, alcuni profili giuridici ed istituzionali, che, nello specifico, richiamano l’azione e l’intervento degli enti del terzo settore, anche per confrontarne la coerenza con la legge delega 227/2021.

Lo schema in oggetto, richiamando la Convenzione ONU sui diritti delle persone con disabilità, richiamo importante che àncora le previsioni contenute nel testo del decreto al contesto internazionale – ove si raccomanda da decenni interventi dei singoli Stati finalizzati a rendere effettiva l’esigibilità dei diritti – prevede tra l’altro (per quanto riguarda questo contributo) i “sostegni”, “progetto di vita” e “budget di progetto” quali misure e strumenti di intervento che coinvolgono direttamente i beneficiari delle azioni, le loro reti, famigliari e comunitarie, e gli enti non profit/di Terzo settore.

Con la ratifica da parte dell’Italia (legge n. 18 del 13 marzo 2009) e dell’Unione Europea (23 dicembre 2010), la Convenzione in argomento forma parte integrante dell’ordinamento giuridico nazionale (oltre che degli altri Stati membri). Ne consegue, per esempio, che lo schema di decreto legislativo prevede, proprio in conformità all’art. 2 della Convenzione ONU, l’aggiunta dell’art. 5-bis all’art. 5 della legge n. 104/1992, che riconosce il diritto alle persone con disabilità all’”accomodamento ragionevole”. L’obbligo di cui sopra incontra soltanto il limite dell’onere finanziario sproporzionato che i datori di lavoro dovessero sopportare per adempiere alle previsioni del decreto. Per quanto riguarda l’Italia, l’obbligo di approntare tutte le misure organizzative volte ad assicurare alle persone con disabilità un adeguato e consono ambiente lavorativo era già stato peraltro evidenziato dalla Corte di Cassazione, Sezione Lavoro, con la sentenza n. 6798/2018. In quell’occasione, la Suprema Corte ha statuito l’illegittimità del licenziamento di un lavoratore che, a causa di una grave malattia, non era più in grado di essere adibito alla sua originaria mansione ed era quindi necessario adibire a nuova mansione, compatibile e adeguata alla sua patologia. Nello specifico, la Sezione ha inteso ribadire la compatibilità tra la libertà di iniziativa privata, libertà invocata dall’azienda in causa, atteso che l’obbligo di assegnare il lavoratore a nuova mansione avrebbe stravolto l’organizzazione interna dell’azienda medesima, e il diritto del lavoratore disabile a beneficiare di soluzioni (organizzative) ragionevoli che permettano alle persone con disabilità di accedere o mantenere un lavoro.

Lo schema di decreto legislativo in argomento, in coerenza e in continuità con altri provvedimenti approvati negli ultimi decenni, sottolinea l’essenzialità “strategica” del progetto di vita individuale, inteso quale strumento per “migliorare le condizioni personale e di salute nei diversi ambiti di vita” e facilitare “l’inclusione sociale e la partecipazione nei diversi contesti di vita su base di uguaglianza con gli altri” delle persone con disabilità. In questo contesto, viene in considerazione l’istituto giuridico del “trust con finalità sociali”, contemplato dalla legge n. 112/2016, che ha individuato un sistema di regole certe e chiare per i progetti in tema di “durante” e “dopo di noi”, che tra l’altro permettano di costituire vincoli, legami e networks strutturati e solidi a sostegno delle persone con disabilità, in specie quelle prive di sostegno familiare. Come è noto, “trustees” di un trust con finalità sociali possono essere individuati gli Enti del Terzo settore / non profit. Essi, per esempio, in un progetto in cui l’azienda sanitaria locale svolge un ruolo di garanzia, di coordinamento e di monitoraggio degli interventi, proprio l’affidabilità della dotazione patrimoniale degli enti in parola, la loro esperienza di gestione, nonché la propria reputation sul territorio locale possono invero rappresentare gli elementi che rendono gli enti del terzo settore i soggetti giuridici che, più di altri, possono assicurare la funzione di trustees. In quest’ottica, pertanto, le fondazioni, le associazioni, le cooperative sociali / imprese sociali rappresentano i soggetti idonei e coerenti per attivare un rapporto di trust avente come scopo precipuo l’assistenza e la cura della persona con disabilità. L’ente non profit entra nella disponibilità dei beni conferiti in trust e ne dispone esclusivamente per il mantenimento, le cure ed il sostegno del soggetto disabile, anche nell’ambito di un progetto comunitario. La possibilità che gli enti del terzo settore possano essere istituiti trustees nell’ambito di un trust per soggetti deboli rappresenta il “ponte” naturale tra questo istituto giuridico e l’amministratore di sostegno, che può (anch’esso) essere identificato in un soggetto giuridico non lucrativo.

Lo schema di decreto legislativo riconosce inoltre il “budget di progetto” quale strumento che può garantire l’attuazione del progetto di vita: esso è costituito, in modo integrato, dall’insieme delle risorse umane, professionali, tecnologiche, strumentali ed economiche, pubbliche e private, attivabili anche in seno alla comunità territoriale e al sistema dei supporti informali (art. 28, comma 1). Il “budget di progetto” si caratterizza, dunque, quale strumento nel quale possono confluire le diverse tipologie progettuali, di intervento e di azione che sul territorio possono trovare espressione sia nell’iniziativa pubblica sia in quella dei soggetti privati, in particolare non lucrativi. Ancorché il “budget di progetto” sia definito della necessaria integrazione tra prestazioni sanitarie e interventi assistenziali e tra competenze di diversi enti pubblici e i progetti e le proposte avanzate dagli enti non lucrativi, esso non può che essere il risultato dell’azione pianificatoria e programmatoria degli enti pubblici coinvolti, che coinvolgono attivamente in tale azione anche gli Enti del Terzo settore. Attraverso questa azione si intende garantire un accesso uniforme ai servizi e, contestualmente, conseguire un’effettiva ed efficace integrazione sociosanitaria. In ordine a quest’ultimo obiettivo, la regolazione pubblica non contempla soltanto la sfera di azione e di intervento delle autorità pubbliche, ma anche quella delle organizzazioni non profit, atteso che anch’esse partecipano alla realizzazione dei medesimi fini di interesse generale cui sono preordinati sia il sistema sanitario sia quello socio-assistenziale.

È in questa prospettiva che l’art. 28, comma 3 prevede che la realizzazione del “budget di progetto” sia effettuata (l’utilizzo del tempo verbale “è effettuata” sembrerebbe deporre a favore di una interpretazione che ritenga questa modalità di realizzazione esclusiva rispetto ad altre) attraverso gli istituti giuridici di natura cooperativa di cui all’art. 55 del Codice del Terzo settore. Il legislatore ha dunque operato una netta “scelta di campo”: lo schema di decreto legislativo riconosce che gli istituti cooperativi di cui al Codice del Terzo settore si prestano alla realizzazione di obiettivi condivisi tra pubbliche amministrazioni ed enti non profit. Le prime non esercitano la funzione di committenza, mentre i secondi partecipano al procedimento amministrativo. Gli istituti di natura cooperativa, che derivano la loro legittimazione normativa dal principio di sussidiarietà orizzontale di cui all’art. 118, u.c. Cost., affermano, invero, un paradigma di azione della pubblica amministrazione, caratterizzato da una propria autonomia e orientato al coinvolgimento delle organizzazioni non lucrative della società civile in progetti, interventi e attività prive di una dinamica mercantilistica e, quindi, di natura sinallagmatica.

In questo senso, le attività e i progetti contemplati nel budget di progetto sono finalizzati ad individuare percorsi e procedure che siano in grado di assicurare al contempo i livelli essenziali delle prestazioni socio-sanitarie, escludendo motivazioni egoistiche e lucrative e gli interessi degli operatori economici a fornire ed erogare i servizi e le prestazioni necessari al conseguimento degli obiettivi di integrazione socio-sanitaria.

Nello specifico delle procedure adottabili, la co-programmazione si colloca quale prima fase dell’intero percorso collaborativo tra pubbliche amministrazioni e soggetti non lucrativi. L’art. 55 del Codice del Terzo settore, richiamando l’applicazione dell’art. 11 della legge 241/1990 ribadisce che l’azione amministrativa è funzionalmente condizionata al raggiungimento degli obiettivi di interesse generale, al rispetto dei diritti dei terzi, nonché contempla anche l’ipotesi che agli accordi partecipino una pluralità di soggetti pubblici, circostanza che imporrà alle pubbliche amministrazioni di trovare gli adattamenti adeguati e capaci di contemplare le diverse posizioni. Lo strumento collaborativo della co-programmazione integra una funzione che tradizionalmente risulta affidata alle istituzioni pubbliche e che, in forza del disposto dell’art. 55, co. 2, assurge ad “ambito” di amministrazione condivisa tra gli enti pubblici e gli enti non profit, coerentemente con il dettato costituzionale. Tuttavia, è opportuno segnalare che l’art. 55, comma 2 riferisce la responsabilità della co-programmazione nell’ambito delle competenze delle autorità procedenti, le uniche, pertanto, ad essere legittimate ad avviare e a concludere il procedimento relativo, ai sensi delle previsioni di cui alla legge 241/1990 e ss.mm. Dalla competenza delle pubbliche autorità in ordine alla co-programmazione consegue che la programmazione non può considerarsi quale attività meramente rivolta all’interno della pubblica amministrazione. Al contrario, poiché la programmazione è finalizzata ad individuare obiettivi di impatto collettivo, ad essa deve corrispondere la facoltà di verifica da parte dei cittadini singoli e associati sulla congruità e correttezza delle scelte effettuate.

La co-progettazione, che naturaliter può concepirsi in rapporto di necessaria consequenzialità logico-giuridica con la fase precedente della co-programmazione, realizza concretamente il dialogo e il confronto collaborativo tra pubbliche amministrazioni ed enti non profit, il cui obiettivo è la definizione e l’eventuale realizzazione di specifici progetti di servizio o di intervento finalizzati a soddisfare bisogni definiti, così come individuati nel “budget di progetto”.

Le procedure di matrice cooperativa richiamate nell’art. 28, comma 3 sono per se finalizzate a promuovere una presa in carico delle persone con disabilità, prevenendo forme di istituzionalizzazione, anche attraverso soluzioni alloggiative e dotazioni strumentali innovative che permettano di conseguire e mantenere la massima autonomia, con la garanzia di servizi accessori, in particolare legati alla domiciliarità, che assicurino la continuità dell’assistenza, secondo un modello di presa in carico socio-sanitaria coordinato con il parallelo progetto di rafforzamento dell’assistenza sanitaria e della rete sanitaria territoriale (cfr. componenti 5 e 6 del PNRR). Si tratta di obiettivi stabiliti all’art. 2, punto (12) della legge delega 227/2021 e che non trovano esplicita “cittadinanza” nel testo approvato in Conferenza Unificata. Infatti, in questo senso, la previsione contenuta nell’art. 28, comma 9, secondo la quale il “budget di progetto è impiegato senza le limitazioni imposte dall’offerta dei singoli servizi”, andrebbe maggiormente specificata e resa funzionale a quanto sopra richiamato.

In ultima analisi, il testo normativo licenziato dall’Intesa nella Conferenza Unificata:

  1. cristallizza taluni aspetti giuridico-organizzativi già presenti in altri provvedimenti (si pensi per tutti a quelli della legge 104/1992) o, comunque, acquisiti nel contesto regolatorio riguardante le persone con disabilità;
  2. riconosce la legittimità e l’impiegabilità dei percorsi collaborativi previsti dal Codice del Terzo settore per realizzare alcuni degli interventi ritenuti fondamentali per assicurare una effettiva fruizione dei diritti fondamentali delle persone con disabilità;
  3. lascia ancora molti, forse troppi, spazi “interpretativi” e “adattativi” alle Regioni e agli ambiti territoriali, che, al contrario, seppure in un contesto ordinamental-istituzionale caratterizzato dalle competenze regionali esclusive in materia sociale e concorrenti in materia di sanità, dovrebbero risultare maggiormente uniformi e garantiti a livello nazionale;
  4. non sembra orientato ad assicurare interventi e modalità tese ad evitare la istituzionalizzazione delle persone con disabilità.

L’auspicio è quello che le Commissioni parlamentari chiamate a pronunciarsi sullo schema di decreto legislativo possano accogliere le osservazioni sopra riportate e integrare/modificare, di conseguenza, il testo.

  1. Il testo del decreto, con modifiche apportate in Conferenza Unificata, è disponibile qui.

Commenti

Grazie egregio professore della sua puntualizzazione su questo vastissimo argomento. La mia domanda riguarda “gli istituti giuridici di natura cooperativa” citati: si intendono comprese anche le forme associative/ fondazioni di partecipazione? Grazie

Risponde l’autore dell’articolo, Alceste Santuari:
Gli istituti giuridici cooperativi di cui al Codice del terzo settore si applicano a tutte le forme giuridiche, ivi comprese quelle evidenziate nel quesito, a condizione che possano essere qualificati come ETS, e quindi essere iscritti al Runts.