Prendersi cura di chi cura


A cura di Cecilia Guidetti | 15 Dicembre 2025

Appunti dal convegno promosso da Fondazione Cariplo a partire dal quaderno Professionalità qualificate nei servizi di cura – sfide per la reperibilità e il trattenimento nel Terzo Settore

L’articolo è stato pubblicato anche su LombardiaSociale.it

 

Il convegno “Prendersi cura di chi cura. Quali trasformazioni culturali e organizzative per attrarre e sostenere competenze nel nonprofit?” organizzato da Fondazione Cariplo e condotto da Sara De Carli di Vita lo scorso 29 ottobre, è stato occasione per presentare i dati raccolti nel quaderno “Professionalità qualificate nel lavoro di cura. Sfide per la reperibilità e il trattenimento nel Terzo Settore”, curato dall’Evaluation Lab di Fondazione Social Venture Giordano Dell’Amore (scaricabile gratuitamente qui).  Il Quaderno offre una fotografia del mercato del lavoro delle professioni di cura, analizzando e integrando diverse fonti normative, di letteratura scientifica e di dati nazionali e internazionali, con riferimento a quattro ambiti principali di intervento: socio-assistenziale, educativo e pedagogico, psicologico e socio-sanitario. La ricerca, e l’evento stesso, che è possibile rivedere qui, costituiscono un’importante occasione per riportare all’attenzione il tema delle professioni sociali e di cura, che dopo una fase di grande rilevanza nel dibattito pubblico del nostro settore, ha visto un generale calo di attenzione nonostante resti una questione cruciale per lo sviluppo del sistema di welfare, locale e nazionale, dei prossimi decenni.

LombardiaSociale e Welforum.it hanno dedicato a questo tema molta attenzione, pubblicando diversi contributi e organizzando momenti pubblici dedicati. Interpretiamo quindi la proposta di riflessione di Fondazione Cariplo come un’occasione importante per riportare al centro del dibattito il futuro delle professioni sociali, e il confronto tra soggetti diversi in merito a strategie, attenzioni e opportunità per rafforzare il settore del welfare e costruire solide basi per il suo sviluppo futuro.  L’evento è stato dedicato a guardare alle professioni sociali, educative e socio-sanitarie secondo una prospettiva specifica, che è quella degli enti del terzo settore, che si trovano oggi in un difficile processo di transizione, verso un ruolo di sempre maggiore compartecipazione e corresponsabilità con la Pubblica Amministrazione nello sviluppo delle politiche pubbliche, che richiede organizzazioni sempre più solide, strutturate e responsive ai cambiamenti di contesto, capaci però al contempo di mantenere salda la propria identità valoriale e organizzativa e di difendere e valorizzare il proprio lavoro.

La sfida è imponente: in una fase in cui i professionisti del sociale e della cura sembrano essere del tutto insufficienti ai fabbisogni, è possibile promuovere lo sviluppo complessivo del sistema dei servizi e delle politiche di welfare senza incappare in una dinamica di competizione tra enti pubblici e enti del terzo settore? Il sistema pubblico, tramite il LEPS in vigore di potenziamento del servizio sociale, quello in arrivo di costituzione di équipe multidisciplinari1 e l’assunzione, a livello nazionale, di quasi 4.000 professionisti tra psicologi, educatori e funzionari amministrativi, di cui 500 per gli Ambiti lombardi, sta andando incontro a un processo di importante rafforzamento. Una svolta positiva, e decisiva, di investimento di risorse pubbliche nel settore, per garantirne la stabilità e la capacità di dare attuazione a tutti i Livelli Essenziali previsti.  

In questa strategia, del tutto condivisibile, di rafforzamento di un sistema pubblico che fatica a stare al passo e a rispondere adeguatamente ai bisogni emergenti, si vede con chiarezza un rischio di polarizzazione tra pubblico e privato, quando non di una vera e propria “gara” a contendersi i professionisti del sociale e della cura. Tuttavia, il sistema è unitario e così strettamente interrelato che risulta estremamente limitante guardare allo sviluppo di una parte senza considerare l’altra. È quindi decisivo continuare a interrogarsi sul ruolo del terzo settore e su come rafforzare e garantire lunga vita alle organizzazioni, ma anche richiamare le istituzioni pubbliche a un ruolo di responsabilità verso lo sviluppo di una strategia complessiva per l’intero sistema di welfare, che sia capace di attrarre, curare e mantenere lavoratrici e lavoratori della cura, in un formato dove ognuno e ognuna possa trovare la dimensione identitaria, organizzativa e lavorativa più vicina alle proprie caratteristiche e sensibilità, senza che lo sviluppo di una parte vada a scapito dell’altra.

I contributi al convegno si sono articolati intorno a tre grandi questioni, sempre sviluppate a partire dai dati della ricerca, che qui riprendiamo sinteticamente in relazione ai principali messaggi evidenziati.

Quale valore ha, oggi, il lavoro di cura?

Il valore che oggi viene attribuito a tutte le professioni di cura, deriva da diverse questioni, di tipo culturale ed economico, e dalla forma che queste hanno assunto nel tempo2.

Il primo elemento nasce da una prospettiva di genere, e concerne il fatto che parliamo di un settore fortemente femminilizzato: dallo studio realizzato emerge come l’83% degli occupati del settore siano donne, a fronte del 52% in altre professioni; dato a cui si accompagna una penalizzazione salariale, con una retribuzione netta mensile diversa tra uomini e donne e di molto inferiore a quella di altri settori, e con una stabilità contrattuale ridotta rispetto ad altri comparti3. I problemi che derivano da questo fenomeno, comuni a tutti i paesi europei e a tutti i settori fortemente femminilizzati, riguardano da una parte una stratificazione interna, per cui le donne tendono a ricoprire le posizioni più basse rispetto agli uomini; dall’altra – purtroppo – una perdita complessiva di prestigio e di valore, che porta i settori ad alta prevalenza femminile ad essere percepiti come marginali e scarsamente professionali. In Italia, a questi fenomeni, si aggiunge il fatto che il settore della cura – in termini di numero di occupati – è molto ridotto rispetto ad altri Paesi europei, con un livello di professionalizzazione basso e una forte frammentazione nelle relazioni economiche e contrattuali che lo caratterizzano. La qualificazione del lavoro di cura potrebbe passare quindi da un mix di interventi su livelli diversi:  il livello organizzativo, per garantire benessere e la soddisfazione dei lavoratori; un livello sistemico per dare uno statuto professionale a chi fa lavoro di cura, attraverso formazione e revisione dei contratti di lavoro per incidere a livello economico; e un investimento pubblico, per qualificare le professioni, garantire ai lavoratori condizioni di lavoro e salariali adeguate, evitando che questo costo ricada sugli utenti dei servizi stessi. 

Il secondo elemento riguarda la storia del settore, il suo sviluppo negli scorsi decenni e la relazione tra Pubblica Amministrazione e Terzo Settore. I processi di esternalizzazione che lo hanno caratterizzato negli anni hanno contribuito a produrre effetti negativi, in termini di svalutazione economica e sociale del lavoro sociale, retribuzioni più basse, perdita di responsabilità pubblica sulla spesa, diffusione di lavoro nero e indebolimento dell’attrattività del settore per i giovani. Oggi ci troviamo in una fase di cambiamento: si è aperta la stagione dell’amministrazione condivisa e si è arrivati, con un lungo lavoro, al rinnovo dei contratti per la cooperazione sociale.  Serve, in questa direzione, lavorare sul fronte della Pubblica Amministrazione, perché riconosca il valore del lavoro sociale e assicuri finanziamenti adeguati, ma al contempo collaborare tutti perché il terzo settore riesca ad affermare con più forza la propria dignità, anche accettando i livelli di conflittualità necessari per essere riconosciuto, e a costruire alleanze ampie, coinvolgendo sindacati, reti del terzo settore, attori dell’economia sociale e comunità locali, per aumentare il peso negoziale e l’impatto collettivo di tutto il settore. Serve tuttavia anche affrontare questa transizione rinnovando i modelli organizzativi interni, superando la standardizzazione ma senza perdere la forza di modelli fortemente partecipativi, capaci di attrarre giovani e favorire creatività, crescita e senso di appartenenza. Gli strumenti sono diversi e su vari livelli: il rinnovo dei contratti, come quello appena avvenuto, che riconosce valore al lavoro; l’amministrazione condivisa, quando utilizzata per co-progettare effettivamente e non per mascherare le gare d’appalto; la valutazione di impatto, quale strumento chiave dell’economia sociale per valorizzare l’efficacia degli interventi, superando criteri puramente produttivistici basati sul costo-orario; processi di innovazione generati dal basso, come l’apertura di rami B (inclusione lavorativa) da parte di numerose cooperative, che permettono: diversificazione del modello di business, maggiore riconoscimento da parte del privato, riqualificazione professionale e attrazione di nuove energie e giovani.

Il terzo elemento riguarda la comunicazione, quale strumento essenziale per contribuire a dare valore alle professioni della cura.  Raccontare ciò che accade nei servizi, grazie alle storie e all’esperienza quotidiana degli operatori, permette di valorizzare il lavoro sociale dall’interno. Allo stesso tempo, comunicare tra organizzazioni del terzo settore significa fare cultura comune e condividere visioni che rafforzano l’intero ecosistema. Verso l’esterno, invece, il terzo settore deve affrontare il fatto di essere spesso poco conosciuto e raccontato solo nelle emergenze o negli scandali, e per questo deve impegnarsi a creare comunità attraverso la comunicazione, fondata su valori come giustizia sociale, diritti, inclusione e antifascismo, per riuscire ad attrarre persone motivate che scelgono i servizi o l’organizzazione proprio perché ne condividono i valori e vogliono contribuire alla costruzione di comunità.

Quali competenze per le professioni di cura, e come formarle e farle crescere?

Il contesto mostra una crescita generale della formazione nelle professioni di cura,tranne nel settore sociale, che rimane indietro. Il problema principale non è solo quantitativo ma qualitativo: si rimarca un forte disallineamento tra competenze universitarie e richieste del mondo del lavoro. Il terzo settore percepisce i neolaureati come preparati ma poco consapevoli delle condizioni reali del lavoro, mentre i giovani lamentano scarsa supervisione e organizzazioni poco strutturate. Il terzo settore diventa spesso un luogo di passaggio verso il pubblico, percepito come più stabile. Rimane però molto forte la motivazione valoriale di chi sceglie le professioni di cura, significativamente più alta rispetto ad altre carriere4.

Un ruolo fondamentale in questa partita è giocato dalle università, che pur non potendo coprire tutta la complessità dei servizi in cui operano le professioni di cura, possono però migliorare significativamente la formazione attraverso percorsi più integrati. Serve unire orientamento, didattica, tutorato, laboratori, job placement e tirocini, così da evitare frammentazioni e accompagnare studenti e studentesse in un percorso che è formativo ma anche esistenziale e professionalizzante. Per sostenere e garantire un orientamento continuo e mirato, l’università deve rafforzare la collaborazione con il territorio e il terzo settore attraverso tavoli di indirizzo, testimonianze professionali, ricerca-azione e percorsi co-progettati, così da allineare formazione iniziale e formazione in servizio e preparare davvero al lavoro di cura.

Al di là della formazione, vi è però un tema di come avvicinare i giovani al mondo del sociale, un mondo che è spesso poco conosciuto e rappresentato nell’immaginario collettivo, oppure percepito come scarsamente prestigioso e di valore. A questo si aggiungono anche la necessità di rafforzare la motivazione di chi avvia il proprio percorso in questo settore, e di potenziare alcune soft skills necessarie per questa tipologia di lavori, come autonomia, intraprendenza e capacità di lavorare in gruppo. Risultano di valore, in questa direzione, alcune esperienze di attivazione e accompagnamento dei giovani – tra cui quelle presentate dal Consorzio Consolida di Lecco come la Leva civica e il progetto Giovani competenti – che permettono loro di avvicinarsi al settore in modo graduale e consapevole, con una funzione di orientamento e di sperimentazione di forme di cittadinanza attiva che possano poi portare a scelte professionali mature.

Nella medesima direzione si muove la necessità di ripensare e aggiornare con continuità le forme e le modalità di formazione che consentono di acquisire le competenze necessarie per lavorare nel terzo settore in generale, e ancora più specificamente nelle professioni di cura. Competenze che cambiano e si aggiornano in relazione al cambiamento dei contesti, e alle modifiche o novità che via via vengono introdotte nel campo del welfare. È paradigmatica in questo senso la recente riforma sulla disabilità (decreto legislativo 62/2024), che introduce un cambio di paradigma culturale, organizzativo e formativo che richiede a terzo settore, Pubblica Amministrazione e università di ripensare profondamente le proprie pratiche. Il nuovo modello del progetto di vita, centrato su desideri e preferenze della persona, contrasta con servizi oggi ancora standardizzati e basati su logiche quantitative come il conteggio dei minuti. Questo implica nuove competenze per gli operatori: core skills legate all’ascolto empatico e alla valorizzazione delle potenzialità delle persone; design skills per coprogettare progetti di vita insieme alle persone; e metaskills riflessive, cioè la possibilità di avere spazi per percorsi riflessivi per tutti gli operatori della cura rispetto al lavoro quotidiano. In questa direzione, si evidenzia l’importanza di considerare – a livello di sistema – un adeguamento della formazione per colmare il mismatch tra questa e le richieste del settore, rafforzando sempre più l’esperienza pratica sul campo tramite una collaborazione stretta tra università, enti e servizi.

Protagonismo giovanile e transizioni organizzative

Il terzo settore presenta un alto turnover giovanile, con il 35% dei giovani che lascia il lavoro pochi anni dopo l’ingresso. Le basse retribuzioni e la rigidità organizzativa spingono a cercare maggiore flessibilità e conciliazione con la vita personale. I giovani chiedono non solo spazio e voce, ma ruoli con responsabilità e riconoscimento effettivo, che li valorizzi e li includa nei processi decisionali5.

La transizione generazionale nelle organizzazioni è inevitabile, e spesso si rivela un processo complesso e faticoso. Tre o anche quattro generazioni convivono con bisogni, desideri e stili di vita diversi, e il riconoscimento delle aspirazioni di tutti è fondamentale per il benessere collettivo. La cultura organizzativa, lo stile di leadership e il concetto di potere influenzano il modo in cui avviene questo ricambio. Le organizzazioni resistono naturalmente al cambiamento, temendo di perdere continuità e controllo, anche se queste transizioni costituiscono certamente una sfida ma anche un’opportunità per rinnovare e rendere più sostenibile il terzo settore. La cooptazione interna ed esterna, le fusioni e il ricorso a consulenti esterni sono strategie diverse che vengono perseguite dai diversi enti per gestire il passaggio generazionale. Tuttavia, alcuni approcci rischiano di impoverire l’ecosistema organizzativo o di creare scavalcamenti improvvisi, che portano a una perdita di identità o a un generale smarrimento delle persone dentro le organizzazioni. Si tratta, dunque, di processi che vanno fortemente pensati e accompagnati per includere nuove prospettive e innovare e ripensare i servizi, ma anche per rafforzare il senso di appartenenza di tutte le generazioni e dare continuità ai gruppi di lavoro.

Negli ultimi anni, una delle questioni che è salita con maggiore forza alla ribalta in relazione alla crisi delle professioni di cura è quella della fuga dei lavoratori e delle lavoratrici più giovani dal lavoro educativo in comunità; un processo che ha portato diverse comunità educative alla chiusura per carenza di personale (ne abbiamo parlato qui con il CNCA Lombardia). In generale, Il lavoro in comunità è considerato faticoso, emotivamente pesante e con limitate prospettive di carriera, e inizialmente, da parte di tanti responsabili di servizi, questa fuga dei giovani dal lavoro in comunità è stata vissuta come un tradimento, con una grande difficoltà a comprenderne profondamente le ragioni. Tuttavia, il fastidio iniziale verso il disimpegno dei giovani ha spinto a un ascolto diretto dei lavoratori per comprendere attrazioni e frustrazioni del lavoro. Questo ascolto ha dato il via a un processo di ripensamento organizzativo: le cooperative hanno intensificato formazione, supervisione, valorizzazione individuale e cura dei luoghi di lavoro. Si è lavorato su partecipazione, appartenenza e relazioni con i vertici. Sono stati introdotti benefit e supporti logistici per agevolare i trasferimenti. Si lavora per l’aumento delle retribuzioni, a partire da una rinegoziazione delle rette con gli Enti Locali. In questo, la grande forza è quella della collaborazione tra organizzazioni, che permette una rappresentanza più forte e coesa, con l’obiettivo finale è conciliare sostenibilità economica e benessere dei lavoratori. Ma anche per fare in modo che una crisi così profonda possa essere veicolo per ripensare le modalità, i tempi e gli strumenti di lavoro con i ragazzi nelle comunità, e migliorare così complessivamente tutti gli aspetti fondanti dei servizi.

Da tanti punti di vista emerge quindi non solo come necessario, ma come profondamente utile per migliorare servizi e organizzazioni, fare spazio ai giovani e promuovere effettivamente il ricambio generazionali. Diverse cooperative – tra cui Il pugno aperto, che ha presentato la propria esperienza con il progetto New wave – stanno lavorando per creare spazi di ascolto, partecipazione e confronto attivo, raccogliendo bisogni legati a valori, relazioni, conciliazione vita-lavoro e benessere, oltre alla necessità di riconoscimento e partecipazione reale. Creare spazio per le nuove generazioni significa riconoscere l’esperienza di chi è già presente, senza soffocare l’innovazione dei giovani. È fondamentale lasciare margini di manovra e ascolto reale delle loro idee, evitando strutture precostituite troppo rigide. L’avvicendamento generazionale non si riduce a quote anagrafiche, ma a opportunità di partecipazione e ascolto. È essenziale integrare visioni nuove, anche se complesse o difficili da comprendere. L’attenzione alle nuove generazioni deve essere costante, reale e strutturata. Lo stimolo finale è costruire organizzazioni vive, capaci di evolversi insieme a chi vi entra.

In conclusione, Valeria Negrini, vice presidente di Fondazione Cariplo, sottolinea l’importanza di riconoscere le dinamiche di potere e il tema del prestigio del lavoro di cura e del sistema di welfare, spesso sottovalutati – come si è visto – anche a causa di una profonda e dolorosa prospettiva di genere, che fa sì che più le professioni si femminilizzano e più perdono potere e prestigio. La narrazione e le risorse destinate al settore risultano spesso marginali rispetto ad altri ambiti, riducendo la percezione del valore sociale e collettivo del terzo settore. Il ruolo delle organizzazioni del terzo settore è invece fortemente innovativo: creano benessere, dignità e libertà, promuovendo inclusione sociale e trasformazione delle comunità. Innovare significa però essere anche capaci di andare oltre le regole consolidate e valorizzare le giovani generazioni, evitando che il loro desiderio di cambiamento venga soffocato. In questa direzione è necessario ancora un grande sforzo per rafforzare il ruolo trasformativo del terzo settore e delle organizzazioni nel migliorare la società e le condizioni di chi lavora al loro interno.

  1. Il disegno di legge di bilancio per il 2026 in via di emanazione (qui il testo), definisce un nuovo LEPS che aggiunge alla equipe già prevista dalla normativa vigente le figure dello psicologo e dell’educatore. Come per gli assistenti sociali, il DDL definisce un parametro di dotazione rispetto alla popolazione residente: 1:30.000 per gli psicologi e 1:20.000 per gli educatori.
  2. Hanno partecipato alla sessione in qualità di relatori Barbara Da Roit (Università Ca’ Foscari Venezia), Stefano Granata (Confcooperative Federsolidarietà), Paolo Dell’Oca (Fondazione Arché) e Matilde Zanni (Consorzio dei Servizi Sociali del Verbano).
  3. Tutti i dati riportati sono tratti dal Quaderno e sono stati presentati nel corso dell’evento.
  4. Hanno partecipato alla sessione in qualità di relatori, Elena Luciano (Università degli Studi di Milano-Bicocca), Eleonora Cortesi (Consorzio Consolida), Salvatore Semeraro (Consorzio SiR) e Ilaria Botta (Consorzio Sociale Il Filo da Tessere)
  5. Hanno partecipato alla sessione in qualità di relatori Francesca Gennai (Consorzio Nazionale CGM), Paolo Tartaglione (CNCA Lombardia), Rossana Aceti (Cooperativa Sociale Il Pugno Aperto) e Simone Buzzella (Cooperativa Sociale Sineresi).