Aziende esclusive … o inclusive?


Giovanni Merlo | 19 Dicembre 2018

Non tutte le aziende sono uguali, e questo è noto. Cosa può rendere un’impresa più o meno inclusiva nei confronti delle persone con disabilità?

 

Parlando di lavoro e disabilità, spesso si pone attenzione alla capacità o meno del sistema educativo, formativo e sociale di offrire sostegni e servizi che possano favorire l’incontro tra persone con disabilità e le aziende. Ci si occupa poco e con meno attenzione a capire come favorire lo sviluppo in senso inclusivo delle imprese che possono e devono divenire i datori di lavoro delle persone con disabilità. Uno snodo fondamentale, per cercare di risolvere alla radice la discriminazione diffusa e persistente delle persone con disabilità nell’accesso come nel mantenimento del lavoro (per non parlare delle prospettive di mobilità e di carriera).

 

Uno studio, sviluppato all’interno del progetto ROAD Rete Occupazione in Azienda di persone Disabili [vedi box in fondo all’articolo] promosso da Anmil Milano, ha cercato di individuare quali possano essere gli elementi significativi, gli indicatori, che possano permettere di riconoscere e quindi valorizzare le aziende virtuose, rispetto a quelle che ancora pensano all’inclusione dei lavoratori con disabilità come a un vincolo piuttosto che come a una opportunità. Il progetto è stato finanziato dalla Provincia di Monza e della Brianza, utilizzando fondi di Regione Lombardia. Il campo di azione è stato quindi di carattere regionale, ma il tema affrontato ha con tutta evidenza caratteristiche generali che esulano dalle specifiche caratteristiche territoriali locali.

Da questa esperienza, emerge un quadro complesso e articolato, da cui però è possibile ricavare alcune indicazioni importanti e significative.

 

La prima constatazione, solo apparentemente banale, è che una “buona azienda” debba prima di tutto rispettare le norme in vigore, a partire naturalmente dagli adempimenti previsti dalla Legge 68/99, ma, e forse ancora di più, evitando ogni discriminazione e quindi evitando ogni forma di distinzione o esclusione basata sulla disabilità, nell’accesso alle opportunità di formazione, di benefit, di welfare integrativo e di avanzamento economico e di carriera. Una buona azienda garantisce l’assenza di barriere architettoniche, l’inserimento dei lavoratori con disabilità nei processi di valutazione, la durata e l’inquadramento contrattuale, l’attenzione a specifiche esigenze di sicurezza e di comunicazione e alla soddisfazione dei lavoratori con disabilità. Appaiono criteri e indicatori preliminari sia l’assenza di condanne per discriminazione sia l’adeguatezza della postazione di lavoro delle persone con disabilità inserite in azienda.

Sul piano delle attenzioni e azioni “positive” che devono essere promosse dalle aziende appare rilevante la definizione della funzione del Disability Manager, la presenza (quando necessaria) di un Tutor che possa affiancare il lavoratore con disabilità in particolare nelle fasi di inserimento, così come la previsione di momenti di preparazione e di attenzione ai colleghi del (futuro) lavoratore con disabilità.

Una serie di condizioni e attenzioni che non è frequente incontrare nelle aziende del nostro paese, ma che non risultato del tutto assenti. Infatti, pur in un quadro di persistente difficoltà e discriminazione dell’accesso al lavoro delle persone con disabilità, non mancano di certo numerosi esempi di inserimenti positivi, a volte esemplari. Atteggiamenti e comportamenti che potrebbero essere oggi maggiormente valorizzati per favorirne la diffusione e quindi creare le condizioni necessarie anche per un buon intervento delle diverse misure e servizi in favore dell’inclusione lavorativa delle persone con disabilità.

 

Quale strada percorrere?

Lo scopo del progetto era di poter contribuire al riconoscimento delle pratiche di inclusione, in un’ottica di valorizzazione di tutti i soggetti coinvolti, e di superamento delle principali criticità. L’ipotesi di partenza era quella di favorire la creazione di un riconoscimento pubblico delle aziende inclusive o in forma di “bollino di qualità” o all’interno di certificazioni di qualità. Una ipotesi che ha incontrato attenzione e favore da parte di molti operatori, amministratori, imprenditori, ma anche qualche dubbio e perplessità.

I dubbi riguardano la possibilità di cristallizzare in un unico giudizio di merito (bollino sì, bollino no) questioni complesse che attraversano situazioni molto differenti in diversi settori della stessa azienda e che possono mutare repentinamente a seguito, ad esempio, di spostamenti di personale o di modifiche dell’assetto aziendale. Ma è anche la stessa idea di utilizzare comportamenti aziendali adeguati e corretti come strumento di marketing sociale a destare qualche perplessità, perché non dovrebbe essere questa la principale motivazione a sostegno all’inclusione lavorativa.

Non mancano anche i riscontri positivi, e non solo per la valorizzazione delle realtà virtuose, obiettivo realizzabile anche prevedendo l’istituzione di un premio annuale. L’ipotesi che ha preso corpo è di poter utilizzare criteri e indicatori di “qualità inclusiva” come influenza e orientamento dei processi di accreditamento tipici della Pubblica Amministrazione per accedere a opportunità e benefici ovvero come pre-requisito per partecipare a bandi e gare.

Un’altra ipotesi, non certamente alternativa, potrebbe essere quella di lavorare all’inserimento di riferimenti specifici all’inclusione lavorativa delle persone con disabilità nel Rating di legalità, un indicatore sintetico del rispetto di elevati standard di legalità rilasciato dall’Agenzia Garante della Concorrenza e del Mercato. Così come si potrebbe ipotizzare l’implementazione di uno specifico Rating disabilità.

In coerenza con l’approccio sociale alla disabilità, basato sui diritti umani, non è stato preso in considerazione la possibilità di differenziare gli eventuali riconoscimenti di “virtuosità” in base alle tipologie di menomazione delle persone. Anche il riconoscimento di un maggior “punteggio” in base alla presenza in azienda di persone con disabilità psichiche e/o intellettive (vittime di maggior stigma e che incontrano maggiori difficoltà lavorative) è stato considerato come significativo, ma non particolarmente rilevante ai fine del progetto.

 

In sintesi, al termine di questa prima fase progettuale, appare evidente che con il lavoro svolto è stato avviato un percorso che non può definirsi concluso e che sia ragionevole pensare a necessari ulteriori approfondimenti, anche di natura teorica, per meglio definire quali obiettivi e risultati si intendano raggiungere e, sulla base di questi, raffinare la definizione di criteri e indicatori utili.

Ciò che si conferma è l’impegno a mantenere l’obiettivo di influire sulla realizzazione di un complessivo migliore atteggiamento delle imprese e aziende italiane nei confronti dei lavoratori con disabilità, come condizione necessaria per superare le attuali situazioni di discriminazione di cui sono ancora oggi vittime molte persone con disabilità.

 

 

“ROAD –  Rete Occupazione in Azienda di persone Disabili” è un progetto promosso da Anmil Milano Associazione Nazionale Mutilati e Invalidi del Lavoro in partenariato con Umana Spa, Gruppo Cooperativo CGM,
SLO srl e IAL Lombardia srl, finanziato dalla Provincia di Monza e della Brianza nell’ambito degli “Avvisi per azioni di sistema a rilevanza regionale (DGR X/5504 del 02 agosto 2016)”. Il Progetto intende creare e mettere a sistema uno sportello permanente e una rete di servizi per le aziende della Lombardia che possa risolvere bisogni, criticità e problemi legati alla disabilità e promuovere nel mondo del lavoro una maggior sensibilizzazione e la diffusione di buone prassi. Nel corso del progetto è stata realizzata una analisi dei contesti aziendali, azioni di promozione del Disability Management e sono stati sperimentati interventi diretti in azienda. Infine è stato svolto uno studio preliminare sulla certificazione di qualità di buone prassi aziendali di inclusione di lavoratori con disabilità. A tale scopo è stato realizzato uno studio, su diverse fasi:

  1. analisi della letteratura e delle esperienze sul tema;
  2. definizione di un primo set di possibili criteri per l’individuazione di aziende virtuose;
  3. realizzazione di focus group di condivisione e verifica del criteri con la partecipazione di 31 persone tra rappresentanti di aziende, profit e di carattere sociali, leader associativi, istituzioni pubbliche e operatori di agenzie per la mediazione lavorativa;
  4. condivisione dei primi esiti dei focus con alcuni testimoni qualificati del settore;
  5. presentazione dei risultati al seminario finale del progetto e stesura del report finale (i cui esiti sono sintetizzati nell’articolo).

L’azione di ricerca sulle buone prassi aziendali è stata condotta da Ledha Lega per i diritti delle persone con disabilità.

 

Si ringrazia Annalisa Dordoni per la collaborazione