Centri Antiviolenza: i numeri e le risorse che mancano all’appello


Tortuga | 16 Gennaio 2024

Con l’analisi della scomposta reazione della politica ai recenti femminicidi e alla scorsa giornata internazionale per l’eliminazione della violenza contro le donne, Tortuga ha dato l’avvio a un percorso esplorativo dell’evidenza empirica sul tema in Italia. La pervasività della violenza di genere, che in Italia vede un caso denunciato ogni 10mila donne nel 2021, rende necessaria una lettura sistemica del fenomeno a partire dalle sue radici, affondate nelle istituzioni economiche, culturali e politiche del paese. Sulle spalle delle istituzioni politiche, come rappresentate dal governo eletto, cade la responsabilità di fornire supporto strutturale alle istituzioni sociali attive a contrasto della violenza di genere. Tra queste, i Centri antiviolenza (Cav) agiscono da presidi di libertà accogliendo donne che subiscono o sono minacciate di qualsiasi forma di violenza. Questi centri necessitano però di risorse che spesso rimangono imbrigliate nelle trame della burocrazia italiana e appese alle scadenze delle manovre politiche di bilancio.

In Italia, i Cav sono presenti sul territorio dalla fine degli anni ‘80 come espressione della società civile e dei suoi gruppi femministi. Nel 2013, queste realtà sono state istituzionalizzate come organo locale a supporto delle donne vittime di violenza. Unendo i dati Istat, disponibili a partire dal 2018, a quelli estrapolati dalla mappatura del 1522 (il numero verde antiviolenza), si nota che il numero dei Cav è cresciuto di anno in anno fino a raggiungere oggi il numero di 396.

 

Nonostante la crescita degli ultimi cinque anni, un quadro completo sui Cav in Italia non deve essere informato solo dal numero di centri presenti sul territorio, ma anche dal numero di persone che ci lavorano (e se sono retribuite o meno), dalla stabilità dei fondi che ricevono e dai servizi che riescono a offrire. In quest’ottica, colpisce la distribuzione non omogenea sul territorio italiano sia del numero che della tipologia dalle strutture.

I Centri che mancano

L’articolo 25 della Convenzione del Consiglio d’Europa sulla prevenzione e la lotta contro la violenza nei confronti delle donne e la violenza domestica, firmata a Istanbul nel 2011, prevede la presenza di un centro che offra supporto alle vittime di violenza ogni 50mila donne. In Italia, tuttavia, c’è un centro ogni 76mila donne.

Elaborando i dati presenti nella mappatura del 1522, emerge che in alcune regioni, come l’Umbria, la copertura raggiunge un centro ogni 43mila donne, mentre in altre, come il Trentino, solamente uno ogni 250mila. In un’analisi più granulare, le province che raggiungono il livello minimo sono 21, ossia meno del 20% delle province italiane, mentre 8 province non arrivano a 0,25 centri ogni 50mila donne: tra queste, Alessandria, Como, Ancona e Trapani.

 

Ragionando in termini di distanza dall’obiettivo posto dal Consiglio d’Europa e lasciando da parte, per il momento, le considerazioni sull’operato, queste cifre implicano che in Italia mancano 240 Centri antiviolenza per soddisfare i livelli minimi. Regioni come il Molise e l’Umbria raggiungono gli standard minimi anche grazie alla popolazione ridotta, ma mancano all’appello almeno 20 centri in Emilia-Romagna, Sicilia, Veneto, Piemonte e Lombardia. Concentrandoci sulle province, devono aprire almeno un Cav ben 64 province (quasi il 60% del totale), con in testa la città metropolitana di Milano, che ne dovrebbe predisporre 17.

 

Le figure che mancano

La presenza di un Centro antiviolenza non assicura però un operato omogeneo sul territorio e continuativo nel tempo. Nel suo report annuale, l’associazione nazionale Donne in Rete contro la Violenza (D.i.Re), che riunisce quasi un terzo dei centri antiviolenza italiani, avverte che l’immagine offerta dall’indagine Istat (che copre il 90% dei Cav attivi) nel 2022 potrebbe nascondere ulteriori criticità: la definizione utilizzata per il conteggio lascia spazio a importanti eterogeneità nel livello dell’operato. In particolare, quasi un centro su due è gestito da enti la cui missione principale non è unicamente il contrasto alla violenza di genere.

Inoltre, i numeri aggregati possono nascondere diversi tipi di supporto offerti: la distribuzione del personale attivo nei Centri offre indizi di questa eterogeneità. A livello nazionale, in media 15 persone sono retribuite o si impegnano in modo volontario in ogni centro, ma questo numero è rispettivamente 6,5 e 7 in Campania e Sicilia, mente 22 e 26,5 in Lombardia e Piemonte.

Come c’è eterogeneità regionale sul numero totale di persone attive nei Centri, c’è eterogeneità anche nel numero di persone che sono impegnate in maniera retribuita. Dall’analisi dei dati Istat, risulta che in Sicilia e nelle Marche ci sono circa 2 persone retribuite ogni 50mila donne, a fronte di 7 in Umbria. I dati sull’assunzione del personale, pur accompagnati da informazioni sui corsi di formazione seguiti, non sono legati alla tipologia di inquadramento oraria o professionale, impedendo quindi considerazioni più comprensive sulla gestione quotidiana dei Cav. Emerge però una forte disuguaglianza tra i Centri che coinvolgono o meno figure volontarie nelle proprie attività. In media, vi sono una figura retribuita e una volontaria ogni 10mila donne. In Sicilia e Liguria, 2 persone impegnate ogni 3 sono volontarie, mentre di 4 persone impegnate in Calabria e Abruzzo solo una è volontaria. Il rapporto tra persone retribuite e volontarie nei Cav non è di immediata interpretazione: una disproporzione a favore del lavoro volontario garantisce la motivazione e l’attenzione delineate nella Convenzione di Istanbul, ma limitare la professionalità retribuita rischia di compromettere la stabilità dei Cav come luoghi di sostegno.

 

Le risorse che mancano

A fronte dei limiti nei numeri dei Cav e nelle figure al loro interno, un quadro completo sui Centri antiviolenza deve essere informato innanzitutto da criteri di sostenibilità finanziaria, cruciale per comprendere l’efficacia del sistema di finanziamenti.

L’eterogeneità dell’operato riflette le sottostanti descritte nell’indagine ISTAT, con il 32,8% dei Centri nel 2021 che chiudono l’anno con un bilancio negativo, con picchi di oltre due Cav su cinque al Nord ovest e al Sud. In questo contesto, è grave che questo dato non sia stato aggiornato dall’Istat per i Centri attivi lo scorso anno. Un bilancio in positivo non va letto però come il risultato di un efficace sistema di finanziamenti, ma piuttosto come il sottile bilanciamento tra istituzioni locali flessibili e supporto privato.

A partire dal 2013, i Cav sono finanziati dal Ministero per le Pari Opportunità tramite il Fondo per le politiche relative ai diritti e alle pari opportunità. La legge di bilancio 2022 ha reso strutturale il fondo prevedendo uno stanziamento annuale di 31,4 milioni di euro per finanziare i Cav esistenti, potenziarne la rete territoriale e supportare le case rifugio. Tuttavia, l’istituzionalizzazione di un fondo dedicato non ha portato a una completa stabilizzazione finanziaria dei Cav: il processo di allocazione dei fondi tende a generare importanti ritardi, quantificati nell’analisi di ActionAid. Le risorse stanziate attraverso il Fondo sono allocate agli enti regionali attraverso un decreto attuativo del ministero competente in base alla popolazione e al numero di Cav presenti sul territorio. I fondi così ripartiti sono gestiti, secondo pratiche più o meno virtuose, in modo diverso da regione a regione. I principali ritardi e incertezze si verificano nelle regioni che delegano lo stanziamento dei fondi ai comuni o alle strutture sanitarie locali, come evidenziato in un report di ActionAid.

Inoltre, la quantità di risorse allocate è spesso insufficiente per garantire l’operatività dei Centri. Una caratteristica peculiare del sistema di finanziamento è infatti la combinazione di risorse pubbliche e private. In aggiunta ai fondi del Ministero per le Pari Opportunità, al Nord 6 Cav su 10 fanno affidamento su risorse private e autofinanziamento, a fronte del 34% nelle Isole e del 17% nel Sud. Sono in particolare Toscana, Emilia-Romagna e Lombardia le regioni che ricevono un significativo contributo da finanziamenti privati.

 

Riflettere sulle modalità di allocazione dei fondi statali e sull’accesso a varie fonti di finanziamento non è un mero esercizio di contabilità per una maggiore stabilità finanziaria, ma è cruciale per comprendere il valore dell’operato.

L’analisi dei dati Istat illustrata nella figura qui sotto mostra che i Centri finanziati per più di 75mila euro offrono maggiori servizi rispetto alle altre strutture. Ad esempio, il servizio di orientamento lavorativo è erogato dall’85% dei Centri con alti finanziamenti (oltre 75mila) contro il 64% di quelli che spendono fino a 25mila euro. Altri servizi che vedono una simile dinamica comprendono il supporto ai figli minorenni, i servizi per donne immigrate e quelli di attivazione del permesso di soggiorno per violenza domestica. La discrepanza a livello territoriale delle prestazioni offerte dai Cav diventa ancor più evidente se si osserva che i Centri che ricevono finanziamenti nella fascia 25-50mila euro sono concentrati al Sud e nelle isole mentre quelli con oltre 100mila euro al Nord.

 

L’immagine generale che emerge è di disallineamento tra il supporto statale e le attività dei Centri antiviolenza esistenti; distanza che nasce dall’incapacità di ascolto e sintesi del decisore politico rispetto alle realtà a presidio del territorio.

Un nuovo Livello Essenziale delle Prestazioni

Le realtà attive tutti i giorni nella lotta contro la violenza di genere denunciano come lo stanziamento di risorse per potenziare i Cav debba essere accompagnato da una visione strategica del loro impiego. I dati presentati qui sul numero di Centri antiviolenza, sulle figure professionali e sulle risorse finanziarie che mancano all’appello tradiscono proprio l’assenza di una seria pianificazione nel tempo che possa garantire sostegno continuativo e incondizionato alle vittime nei percorsi di fuoriuscita dalla violenza.

L’articolo 117 della Costituzione pone come competenza statale esclusiva la determinazione dei livelli essenziali delle prestazioni (Lep) concernenti i diritti civili e sociali che devono essere garantiti su tutto il territorio nazionale. Il think-tank Tortuga ritiene che il supporto alle vittime di qualsiasi forma di violenza sia parte integrante dei loro diritti civili e sociali. In quanto tale, riteniamo che il ruolo dei Cav nell’assicurare questo sostegno debba essere oggetto di un Lep garantito su tutto il territorio nazionale. Inoltre, la Carta costituzionale, dando potere legislativo esclusivo allo Stato in materia, rimarca che la definizione del Lep è un passaggio cruciale perché lo Stato stesso formi una coscienza politica e informi una pianificazione per realizzarla.

Definire un Lep non significa rendere i Centri antiviolenza uno dei tanti ingranaggi nell’apparato statale: potrebbe, invece, essere un’occasione per rendere programmatico l’impegno a consultare tutti gli attori che hanno costruito e animato la coscienza sociale dentro i Centri quali luoghi di protezione e libertà.

Definire un Lep in termini di numeri dei Centri antiviolenza significa, dunque, fare un primo passo per delineare la distribuzione dei luoghi di sostegno da assicurare a tutte le cittadine e tutti i cittadini e, soprattutto, per garantire agli enti interessati dal provvedimento quanto necessario per raggiungerlo. In altre parole, per garantire i Centri, le figure e le risorse che all’alba del 2024 mancano all’appello.