Crisi del personale: il lavoro da ripensare


Sergio Pasquinelli | 14 Marzo 2023

Nel 2022 le imprese italiane hanno cercato invano oltre diecimila progettisti di software, 85mila camionisti, 41mila elettricisti, 22mila idraulici, e così via (dati Confartigianato). Nel frattempo l’Ocse certifica che dal 1990 al 2020 l’Italia è l’unico dei 36 Paesi membri il cui salario medio è diminuito (del 2,9%, mentre è aumentato di oltre il 30% in Paesi come la Francia e la Germania).

In sanità e nel settore dei servizi alla persona la mancanza di medici fa sì che siano ben tre milioni gli italiani che il medico di famiglia semplicemente non ce l’hanno più, in un processo chiamato di “desertificazione sanitaria”. Mancano infermieri, che con le indicazioni del PNRR dovrebbero aumentare di almeno diecimila unità nei prossimi quattro anni. Mancano operatori sociosanitari (Oss) nelle Rsa, mancano assistenti sociali, che con il nuovo standard di servizio dovrebbero essere uno ogni 5.000 abitanti, una dotazione molto lontana dall’esistente, soprattutto al Sud.

E tutti questi fabbisogni di personale vanno ben al di là del numero di persone che possiamo ragionevolmente formare nei prossimi anni. Esiste dunque un problema strutturale, che riguarda le capacità formative delle università e delle scuole professionali, insufficienti rispetto a ciò che il mercato richiede.

A ciò si aggiunge la crisi vocazionale che ha investito le professioni sociali. È cresciuta una disaffezione diffusa, una crisi di credito verso questo settore che si esprime anche nel numero di iscrizioni ai corsi universitari e ai centri di formazione professionale, in calo. Secondo gli ultimi dati dell’Osservatorio Isnet, sette imprese sociali su dieci dichiarano difficoltà a reperire personale sotto i 30 anni. È emblematico il caso degli educatori sociopedagogici, sempre meno disposti a sopportare i sacrifici del lavoro in una comunità alloggio o in un centro per minori, e sempre più inclini a un’assunzione, più sicura e meglio pagata, in un ente pubblico, o nella scuola.

Sul banco degli imputati vengono messi contratti di lavoro obsoleti e bassi livelli retributivi, alla base delle fughe verso la sanità, o dal terzo settore verso l’ente pubblico. Ma questa è solo una parte della verità. Perché anche con questi contratti e con queste retribuzioni rimangono margini entro cui possiamo compiere scelte importanti. Basti pensare al lavoro agile e alla settimana corta di quattro giorni lavorativi, su cui si stanno addensando attenzioni e sperimentazioni anche in Italia, sulla scia di modelli già affermati all’estero.1

Se il lavoro diventa meno centrale nella vita delle persone,2 perché si riesce a vivere riducendone il peso e ricorrendo a risorse e a fonti diverse, anche nel sociale le sue qualità vanno ripensate, prima che l’emorragia di personale metta in pericolo l’esistenza stessa dei servizi. Questo significa affrontare alcune dimensioni chiave. Tre in particolare.

Primo: la precarietà. Il lavoro che si offre ha ancora, spesso, le incertezze di un’epoca pre-Covid, con quel rosario di impieghi a tempo determinato, stage, tirocini, contratti a progetto. Proposte circoscritte, magari sottopagate, dicono in realtà ai giovani candidati: “noi ci fidiamo poco di te, diamoci del tempo, poi vedremo”. È giusto avere un tempo reciproco di verifica, sapendo però poi che cosa può accadere. Ma se quello che accade dopo rimane vago, e il tempo della verifica rimane indefinito, ci muoviamo sul piano inclinato della demotivazione, della svalutazione. Si è generata così una popolazione giovanile in costante sospensione, abituata a chiedersi quanto ne vale la pena, e che viene spinta a entrare e uscire dai lavori in cerca di condizioni continuamente migliori, reiterando una vita “per prova”, sempre in cerca della prossima occasione.

Secondo: i progressi di carriera. In molte organizzazioni del sociale, un aspetto critico riguarda i pochi progressi di carriera possibili, la ripetizione che diventa fatica, frustrazione, burn-out. Ancora troppo spesso la gestione delle risorse umane è assimilata a una funzione amministrativa anziché al miglioramento della qualità dei servizi. Costruire dei passaggi professionali di progressione nei livelli di responsabilità, di ruolo, di retribuzione, è una grande sfida. Ma è qui che si gioca la possibilità di fidelizzare il lavoratore, il cosiddetto “cliente interno”, che tale non è considerato in molti casi e che invece lo dovrebbe essere perché risorsa su cui si gioca il valore aggiunto di ciò che viene prodotto.

Terzo: il clima organizzativo. Ogni servizio tende a riprodurre con l’utente relazioni analoghe a quelle messe in atto al suo interno. Il clima organizzativo è un aspetto cruciale. Creare un buon clima richiede funzioni dedicate, e può fare la differenza nella qualità dei servizi offerti. Le organizzazioni come risorse per le persone, e non viceversa, seguono una logica del lavoro come opportunità di realizzazione e dunque di benessere per chi vi opera. Un ruolo attivo nei processi produttivi aiuta a creare un buon clima, così come l’aiuta una struttura per funzioni o per gruppi di progetto. Una struttura da cui un’intera generazione di imprenditori – anche sociali – è lontana, se ne è allontanata nel tempo, o non vi si è mai avvicinata.

La disaffezione verso il sociale non è solo il prodotto di vincoli esterni: contratti troppo rigidi e bassi salari. Certo, questi fattori rimangono cruciali. Ma è anche la conseguenza di scelte, o non-scelte, che hanno reso questo settore meno attrattivo. Considerare l’operatore come un cliente interno richiede ascolto, attenzione alle sue esigenze di tempo, di autonomia, e retributive. Un operatore non più mero esecutore, ma partner attivo di una relazione, portatore di competenze, ma anche di atteggiamenti, aspettative e disponibilità variabili. E un operatore soddisfatto, che si sente “a casa”, è portatore sano di un benessere professionale che può essere contagioso e assumere una dimensione collettiva.

 

* Abbiamo dedicato alla crisi del lavoro nel sociale l’inserto monografico del numero 4/2022 di Prospettive Sociali e Sanitarie, dal titolo “Le professioni d’aiuto: declino o rilancio?“. Sul tema, Welforum.it sta dedicando un’attenzione particolare, con contributi provenienti da più punti di osservazione.

  1. Ne ha scritto di recente Valentina Battiloro su Welforum.it.
  2. Seminale fu il lavoro di Jeremy Rifkin, La fine del lavoro, Milano, Baldini&Castoldi, 1995.

Commenti

Bisognerebbe ripensare anche al profilo dell’ operatore: non solo infermieri (con laurea) o Oss (900 ore di formazione) ma anche assistenti semplici per le tante funzioni ausiliarie e non socio sanitarie. Il mondo della cronicità e della non autosufficienza ha bisogni non convenzionali e non possiamo abdicare alle badanti questo delicato ruolo.

È necessario rivalutare il ruolo dell’operatore sapendo offrire servizi integrati continuativi o salutarti.

Nemmeno il matching famiglia/badante è una risposta lasciandoli soli nella gestione o nelle difficoltà di sostituzione. O peggio ancora di ricatto.

Una nuova occupazione che consentirebbe a molte persone, donne in particolare, di essere formate con corsi a doc per servizi alla persona socio-ausiliari. E rientrare nel mondo del lavoro in orari non convenzionali. E i sindacati dovrebbero condividere una flessibilità necessaria sui rapporti di lavoro.