Lavoro e settimana ridotta

Il fenomeno delle dimissioni di massa


Valentina Battiloro | 1 Febbraio 2023

Il fenomeno delle Great Resignation, le dimissioni di massa, ha preso il via negli Stati Uniti nell’immediato post pandemia, ma riguarda, seppur in maniera minore, anche il nostro paese.
Secondo il Ministero del lavoro nei primi nove mesi del 2022 oltre 1,6 milioni di persone hanno lasciato volontariamente il proprio lavoro, il 22% in più rispetto allo stesso periodo del 2021. Non è solo la ricerca di condizioni economiche migliori – soprattutto tra i giovani con competenze digitali – ad incidere sulla scelta di abbandonare il proprio posto di lavoro, ma anche il bisogno di un diverso equilibrio tra vita privata e professionale emerso in maniera forte durante e dopo la crisi pandemica.
Il fenomeno, che riguarda prevalentemente gli uomini ma tocca in maniera sensibile anche le donne, rappresenta un costo di rilievo per le aziende. Secondo uno studio pubblicato dalla rivista “Organization Science”, per una azienda di medie dimensioni la perdita di un dipendente rappresenta un costo (per spese di assunzione e di formazione e in termini di minore produttività) che può variare tra i 3.000 e i 20.000 euro.
Si rende quindi necessaria una riflessione critica sui modelli organizzativi adottati sino ad ora.
Se da una parte la pandemia ha facilitato il processo di sperimentazione di modalità di lavoro nuove, in primis il lavoro agile, è ancora ampio il margine di sviluppo del cosiddetto welfare aziendale, in particolare nelle micro imprese che rappresentano più del 90% del tessuto produttivo italiano.

La settimana corta può ridurre le dimissioni di massa?

Tra le possibili soluzioni che vanno incontro alla crescente esigenza di conciliazione dei tempi di vita e lavoro c’è la settimana lavorativa ridotta. Se ne parla da tempo, ma ultimamente il tema sta prendendo nuovo slancio in tutto il mondo. In molti casi i tentativi di adozione della settimana breve sono accompagnati da studi per testarne gli effetti. Se da una parte oggetto di osservazione è la qualità di vita percepita dai lavoratori (che incide in maniera diretta sulla fidelizzazione alle aziende) dall’altra una crescente attenzione è rivolta alle ricadute per le aziende e ai possibili vantaggi sull’ambiente. Molti degli esempi più rilevanti provengono dall’estero.
Nel Regno Unito tra giugno del 2022 e gennaio 2023 circa sessanta tra aziende e organizzazioni hanno sperimentato l’orario settimanale ridotto. Il programma (https://www.4dayweek.com/ukpilot), gestito dai ricercatori delle università di Cambridge e Oxford, dal Boston College, dal movimento 4 Day Week Global e dal think tank britannico Autonomy, ha coinvolto circa tremila lavoratori che hanno ridotto il loro orario di lavoro di 8 ore (32 ore anziché 40) a parità di retribuzione. Obiettivo del programma è testare se e in che misura la produttività delle imprese e il benessere dei lavoratori aumentano riducendo l’orario di lavoro.
In Islanda tra il 2015 e il 2019 è stato realizzato un programma che ha coinvolto più di 2500 lavoratori, l’1% della popolazione attiva del paese, che hanno ridotto il proprio orario di lavoro da 40 a 35 ore settimanali. Il programma è stato oggetto di diversi studi di valutazione di impatto. I risultati mostrano che la produttività è aumentata (o nella peggiore delle ipotesi è rimasta invariata) a fronte di una riduzione del rischio di burnout, un miglioramento nella salute e nel bilanciamento vita-lavoro (dopo l’esperimento l’86% dei lavoratori ha scelto di lavorare meno ore).
A Valencia lo scorso maggio l’amministrazione locale ha promosso il “Four Day Week International Summit”, per lanciare il progetto della settimana lavorativa di quattro giorni che si terrà su tutti i luoghi di lavoro della città spagnola. L’ambizione è estendere il piano a livello regionale finanziando con novemila euro per dipendente in tre anni le imprese che sceglieranno di attuare la medesima riduzione.
Negli Emirati Arabi Uniti a maggio del 2022 il sottosegretario per la comunicazione e le relazioni internazionali ha annunciato l’avvio di una sperimentazione che prevede la riduzione della settimana lavorativa a quattro giorni e mezzo.
Parallelamente all’avvio di programmi più estesi, a livello micro sono numerose le aziende che stanno adottando questo tipo di approccio. Microsoft Japan nel 2019 ha testato su 2300 lavoratori della sede di Tokyo la settimana lavorativa di quattro giorni. La valutazione che ha accompagnato l’intervento mostra un aumento della produttività del 40% e contemporaneamente benefici sui costi aziendali e sull’ambiente: il consumo di elettricità è diminuito del 23% e c’è stata una riduzione del 59% nell’utilizzo della carta. Il gruppo Unilever ha recentemente lanciato uno studio in Nuova Zelanda: 81 dipendenti potranno lavorare quattro giorni la settimana, pagati come fossero cinque, per un anno intero. Uniqlo (la società di abbigliamento giapponese) ha coinvolto un quinto dei propri dipendenti in un progetto finalizzato a testare la settimana lavorativa di quattro giorni.
Non mancano tentativi di questo tipo anche in Italia. Di recente il gruppo Intesa San Paolo ha proposto ai propri dipendenti di lavorare 4 giorni a settimana aumentando a 9 le ore giornaliere su base volontaria, a parità di retribuzione. Discorso analogo è stato avviato da Lavazza: i dipendenti potranno uscire in anticipo il venerdì, a parità di stipendio.

Delle provvisorie conclusioni

Resta la necessità di consolidare la conoscenza fin qui prodotta circa le ricadute di queste scelte, conoscenza che ad oggi, in particolare in Italia, è piuttosto scarsa. Due le dimensioni che vanno tenute in considerazione.

La prima riguarda le condizioni (e i vincoli) legati all’implementazione dei nuovi modelli organizzativi. In questo senso una riflessione è stata avviata ad esempio rispetto all’utilizzabilità del lavoro agile in alcuni ambiti lavorativi, in primis quello dei servizi di tipo assistenziale. Se infatti il lavoro agile ha permesso di fornire una risposta, seppur parziale, a bisogni immutati o cresciuti durante la fase pandemica, sono emersi in maniera altrettanto evidente i limiti alla sua utilizzabilità a regime in alcuni contesti: la forte fragilità dei beneficiari dei servizi sociali/sanitari così come le scarse competenze linguistiche e/o digitali rendono quindi il lavoro agile uno strumento “da maneggiare con cura”.

Un discorso in parte diverso riguarderebbe la riduzione dell’orario di lavoro. In questo caso il tema rilevante è la differibilità o la contrazione nell’offerta di servizi. Anche a parità di produttività del lavoratore infatti una riduzione dell’orario di lavoro porterebbe con sé il rischio di una minore copertura dei bisogni. È quindi necessario indagare se e in che misura questo tipo di rischio possa essere tenuto sotto controllo o se per contro il ricorso ad alcuni cambiamenti nei modelli di lavoro siano praticabili solo in alcuni settori.

Il secondo elemento di attenzione riguarda invece i potenziali benefici (o le diseconomie) che da questi cambiamenti nei modelli di lavoro possono derivare. Un contributo importante a questa conoscenza può certamente arrivare da robusti studi di valutazione, anche condotti su piccola scala, necessari prima di adottare cambiamenti strutturali. Non è detto infatti che quello che vale in altri contesti territoriali (di cui abbiamo prime evidenze) valga in egual misura nel nostro Paese, caratterizzato da una normativa del lavoro e da caratteristiche del tessuto produttivo peculiari.


Commenti

Il tema è complesso e va giustamente trattato con cautela; credo che vadano sollecitate esperienze diverse e quindi procedere ad una applicazione graduale sul territorio nazionale.Il tema è sempre più attusle.