Decreto lavoro e quel vuoto sulle professioni d’aiuto


Sergio Pasquinelli | 10 Maggio 2023

La cosiddetta labour shortage inizia a farsi sentire, con servizi che chiudono per mancanza di personale. Avviene nelle comunità per minori, nell’accoglienza ai migranti, nel campo delle dipendenze.

Sono tre milioni gli italiani che il medico di famiglia semplicemente non ce l’hanno più, in un processo chiamato di “desertificazione sanitaria”. Mancano infermieri, che con le indicazioni del PNRR dovrebbero aumentare di almeno dodicimila unità nei prossimi quattro anni. Mancano operatori sociosanitari (Oss) nelle Rsa, mancano assistenti sociali, che con il nuovo standard di servizio dovrebbero essere uno ogni 5.000 abitanti, una dotazione molto lontana dall’esistente, soprattutto al Sud. Mancano 42.000 educatori da collocare nei nuovi nidi, educatori che non abbiamo e non riusciremo mai a formare nel giro di pochi anni. Mancano persino assistenti familiari (badanti): almeno 23.000 secondo Assindatcolf, che diventano 65.000 se proiettati nel prossimo triennio.

Intanto, viene emanato un Decreto lavoro che su tutto ciò non dice nulla. Non dice come formare, incentivare nei numeri e nella qualità quel personale sanitario e sociale che il Paese ha disperatamente bisogno, pena la moltiplicazione di servizi vuoti. Servizi che vengono peraltro regolamentati con puntigliosità attraverso standard esigenti quanto astratti, creando iper-regolazione in un contesto di crescente marginalità del servizio pubblico rispetto a un privato sempre più invadente.

A un anno dal Dm 77/2022, il decreto del Ministero della Salute che dovrebbe riorganizzare la sanità di territorio, i suoi standard di servizio e di personale appaiono sempre più lunari, oltreché ampiamente inapplicati: un infermiere di famiglia ogni 3.000 abitanti, oltre mille Case della Comunità Hub aperte H24, 7 giorni su 7, un’assistenza domiciliare (ADI) che copre il 10% della popolazione ultra 65enne, un ospedale di comunità ogni centomila abitanti e così via.

Lo stesso decreto tralascia ampiamente il tema dell’integrazione sociosanitaria. Nelle Case della Comunità, sul cui stato di realizzazione si è alzata una fitta cortina fumogena, tutto fa pensare che essa avverrà con i servizi che stanno fuori, nel territorio: anche perché lo standard di personale per la Casa della comunità Hub (la versione più strutturata) prevede solamente 1 (un) assistente sociale. Un assistente sociale per un bacino di 50.000 persone significa che questa figura si limiterà a fare da tramite tra i servizi sanitari interni e quelli sociali presenti sul territorio. Seguendo così un modello a vocazione ampiamente sanitaria, con un sociale totalmente ancillare.

Nel frattempo dilaga il mercato privato, a fronte di un Servizio sanitario pubblico in evidente affanno. Il definanziamento del Servizio Sanitario Nazionale viene certificato dal primo Documento di Economia e Finanza del Governo Meloni, il DEF 2023, che mina il SSN nei suoi principi fondamentali di universalità, uguaglianza ed equità, compromettendo il diritto alla tutela della salute sancito dalla Costituzione. Nel DEF approvato lo scorso primo aprile dal Governo, infatti, si rilevano previsioni di definanziamento del nostro servizio sanitario drammatiche, dato lo stato attuale del sistema e le diverse esigenze di personale più sopra richiamate. Al contrario da quanto ci eravamo sentiti dire in campagna elettorale lo scorso settembre, infatti, il rapporto spesa sanitaria/PIL che scende dal 6,9% del 2022 al 6,2% nel 2026, e l’incremento di quattro miliardi di euro nel 2023 costituisce un mero spostamento della spesa sanitaria prevista nel 2022 per il rinnovo contrattuale del personale dirigente.

In realtà le previsioni sulla spesa sanitaria per il prossimo triennio certificano meno risorse per la sanità, in particolare per il 2024 è previsto un meno 2,4%: un colpo grave per il nostro SSN, una previsione di spesa che prelude a rendere le diseguaglianze di accesso alle cure sanitarie sempre più marcate. Un accesso, per esempio sul piano dell’assistenza ambulatoriale, che in diverse regioni è diventato un vero calvario, con liste di attesa infinite per visite ed esami e l’opzione “se-paghi-ti-servo-subito” penosamente dilagante.