La natalità ha attraversato una trasfigurazione rara nel nostro Paese: da tema tipicamente privato, frutto di scelte strette nelle mura domestiche, è diventato argomento pubblico ed è entrato nell’agenda di governo.

Ma le soluzioni ricercate a un problema di così vasta portata e dalle conseguenze potenzialmente devastanti sono ancora parziali, di settore, e rimangono ancora più sul piano del dichiarato che sul piano dell’effettivo. Così fa piacere sentire, dal governo, che occorre aumentare i tassi di occupazione femminile, notoriamente correlati ai livelli di fecondità, ma non aiuta l’intransigenza sui flussi migratori, considerati come qualcosa da avversare a prescindere. E che invece aiuterebbero molto la nostra demografia, oltre che il nostro mercato del lavoro.

Avere un figlio continua a essere una scelta maledettamente solitaria, rimanendo così un salto nel buio che molte giovani coppie si sentono sempre meno di compiere. Come ha ben sintetizzato l’Alleanza per l’Infanzia in un recente comunicato, “autonomia dalla famiglia di origine e realizzazione di una propria sono strettamente dipendenti dalle politiche abitative e dalle opportunità di lavoro, adeguatamente remunerato e ragionevolmente sicuro, per i giovani”. Se il tema è investire su più fronti in modo coordinato, integrato, siamo ancora molto indietro.

A politiche integrate, coordinate, convergenti, si preferiscono interventi qua e là, una tantum: i sussidi. Cresce così un welfare risarcitorio che è quello dei bonus, profusi con generosità. La legge di bilancio 2023 ne ha generati a decine: da quelli per le bollette alla carta cultura giovani, al bonus psicologico, alla carta risparmio spesa, al superbonus per ristrutturazioni domestiche e così via. A ogni bonus, a ogni sussidio corrisponde un servizio non offerto, un asilo nido non costruito, un centro anziani non inaugurato, una infrastruttura non avviata, un’abitazione non resa disponibile.

Ed è proprio la casa che è diventata oggi il problema dei problemi, fonte di diseguaglianze profonde. L’azzeramento del fondo per gli affitti, il ritiro dell’emendamento governativo che andava incontro al caro affitti per gli studenti, lo stallo di fronte ai costi astronomici delle grandi metropoli (non solo per gli studenti ma per tutti) sono l’eredità di lunghi anni di inerzia e di politiche molto deboli. L’auspicio di ampliare l’edilizia sociale, di cui l’Italia ha uno dei primati negativi in Europa, suona leggermente velleitario a fronte delle risorse disponibili. Nell’epoca degli affitti brevi e del mercato totalmente deregolato, la casa diventa fonte di reddito quasi inaspettato per un’enorme quantità di piccoli proprietari, ai quali diventa sempre più difficile imporre vincoli (leggi: prezzi calmierati). In un contesto dove ognuno si arrangia come può. E dove diventa sempre più difficile conciliare gli interessi di chi una casa la mette a reddito con quelli degli affittuari, interessi che ormai affondano le radici ad ogni livello della scala sociale.

Ai movimenti solitari di chi offre e di chi cerca casa, corrisponde la crescente solitudine di chi una casa ce l’ha e dentro di essa si trova caricato degli oneri di cura di una persona fragile. La verticalizzazione delle famiglie riguarda la riduzione del numero dei suoi componenti, il suo assottigliamento, e spinge verso una crescente solitudine. Lo argomenta ampiamente uno studio recente con riferimento all’età anziana1.

I “prestatori di cura” familiare, i cosiddetti caregiver (ma gli inglesi parlano di “carer”), attraversano cambiamenti rilevanti, nelle dimensioni e nelle caratteristiche. Si tratta di persone che svolgono attività quotidiane di aiuto e sostegno a favore di un proprio familiare: perché in tenera età, perché portatore di disabilità, perché anziano fragile. Un esercito silente che Istat calcola in 7,3 milioni di persone, di cui 2,1 milioni prestano sostegno per 20 o più ore alla settimana.

Nella ricerca che abbiamo realizzato sul più esteso campione di caregiver lombardi (quasi duemila) impegnati ad assistere anziani non autosufficienti, abbiamo registrato conferme di dati in parte noti assieme a cambiamenti di rilievo. Tra i primi: un ruolo prevalentemente ricoperto da donne, di età media avanzata (60 anni), il cui impegno si protrae da tempo (nel 60% dei casi da più di due anni).

Il dato di novità riguarda quanto il carico di cura ricada su una sola persona o viene viceversa condiviso tra più familiari. Abbiamo messo a confronto il risultato con ricerche analoghe svolte tra il 2015 e il 20202. Come mostra la figura riportata, negli anni i caregiver risultano sempre più soli: l’aiuto prestato anche da altri familiari o conoscenti è calato dall’88% al 65% dei casi. La rete di aiuti si restringe via via, a seguito degli imponenti cambiamenti demografici nella struttura familiare. Una tendenza a rendere l’impegno di cura, quando c’è, sempre più solitario, destinata a diventare prevalente. Di questo i servizi pubblici dovranno sempre di più tenere conto.

Caregiver che condividono con altri il carico di cura, in Lombardia

Fonte: Osservatorio OveR, Acli Lombardia e Irs, 2023

  1. C. Ranci, M. Arlotti, G. Lamura, F. Martinelli (a cura di), La solitudine dei numeri ultimi. Invecchiare da soli nell’epoca della pandemia, Bologna, Il Mulino, 2023.
  2. Si veda Prospettive Sociali e Sanitarie, n. 3, 2021.