I Livelli Essenziali delle Prestazioni (LEP)
Profili giuridici e assetti istituzionali multilivello
Alceste Santuari | 12 Gennaio 2021
Il tema in oggetto è il risultato di un’evoluzione storico-normativa che testimonia della necessità di definire un punto di equilibrio tra esigenze di uniformità territoriale delle prestazioni e modelli organizzativi e gestionali regionali.
La previsione e definizione di livelli essenziali ai fini dell’erogazione di prestazioni da parte dello Stato avviene per la prima volta con la legge n. 833/1978, istitutiva del SSN. Gli artt. 3 e 53 della legge in parola configuravano i livelli uniformi di assistenza (LEA) da perseguire nella erogazione delle prestazioni e dei servizi sanitari, rispondendo così all’esigenza di dare piena attuazione al diritto alla salute di cui all’art. 32 della Costituzione.
Successivamente, il d. lgs. n. 502/1992, come modificato ed integrato dal d. lgs. n. 229/1999, specificava la nozione di LEA, disponendo che il SSN assicura “i livelli essenziali e uniformi di assistenza definiti dal Piano sanitario nazionale nel rispetto dei principi della dignità della persona umana, del bisogno di salute, dell’equità nell’accesso all’assistenza, della qualità delle cure e della loro appropriatezza riguardo alle specifiche esigenze, nonché dell’economicità nell’impiego delle risorse”. In quest’occasione, il legislatore, confermando la necessità di definire un assetto di interventi, azioni e prestazioni che potessero effettivamente garantire il diritto alla salute, avvertiva altresì la necessità di bilanciare le esigenze e le limitazioni della finanza pubblica con l’erogazione di un servizio uniforme su tutto il territorio nazionale. La riforma della sanità intendeva, infatti, intervenire sugli squilibri economici, sociali e territoriali esistenti nelle diverse aree del Paese, avendo come obiettivo la razionalizzazione e l’efficientamento del sistema sanitario.
Accanto ai LEA, relativi al comparto dei servizi sanitari, l’art. 22 della legge n. 328/2000 ha introdotto i livelli uniformi di assistenza sociale (LIVEAS) riconoscendoli quali interventi che costituiscono “il livello essenziale delle prestazioni sociali erogabili sotto forma di beni e servizi”. La materia è stata affrontata di nuovo in un atto di intesa ai sensi dell’art. 13, comma 5, del d. lgs. n. 68/2011 da parte della Conferenza unificata, approvato il 17 maggio 2015, concernente “Prime indicazioni per un percorso finalizzato alla rilevazione della spesa sociale, dei fabbisogni e dei costi standard dei servizi ed interventi aventi caratteristiche di generalità e permanenza all’interno delle Regioni e delle Province autonome e degli Enti locali nell’ambito delle politiche sociali”. E, di recente, si segnala l’art. 89, comma 2-bis, d.l. 34/2020, conv. in legge n. 77/2020, che testualmente afferma che “i servizi sociali di cui all’articolo 22, comma 4, della legge 328/2000 sono da considerarsi servizi pubblici essenziali, anche se svolti in regime di concessione, accreditamento o mediante convenzione in quanto volti a garantire il godimento di diritti della persona costituzionalmente tutelati”.
Con la Riforma del Titolo V della Costituzione di cui alla legge costituzionale n. 3/2001, la nozione di livelli essenziali delle prestazioni (LEP) risulta (art. 117, comma 2, lett. m):
- estesa alle prestazioni relative a tutti i diritti sociali e civili;
- estesa su tutto il territorio nazionale;
- costituzionalizzata
In questo senso, la definizione dei LEP diviene uno degli elementi più significativi nella ricostruzione dei rapporti di potere e delle competenze dello Stato e delle Regioni. Lo Stato centrale si fa carico di assicurare che nelle diverse aree territoriali siano assicurati i servizi, le prestazioni e gli interventi che possano rendere effettivamente fruibili ed esigibili i LEP, indicando anche la strada per una loro fruizione integrata.
La rilevanza centrale dei LEP e delle loro fruizione è ribadita dalla previsione dell’art. 120 della Costituzione, che prevede che l’esercizio del potere sostitutivo straordinario del Governo nei confronti delle Regioni, delle Città metropolitane, delle Province e dei Comuni sia esercitato, tra l’altro, “quando lo richiedono la tutela dell’unità giuridica o dell’unità economica e in particolare la tutela dei livelli essenziali delle prestazioni concernenti i diritti civili e sociali, prescindendo dai confini territoriali dei governi locali”.
La tutela dei LEP, dunque, appare esplicitamente e strettamente collegata alla tutela dell’unità giuridica e dell’unità economica della Repubblica, divenendo essa stessa strumento ed espressione dell’unità medesima.
Unità che si confronta con l’autonomia delle singole Regioni, competenti per quanto attiene all’organizzazione e alla gestione dei servizi inerenti ai diritti civili e sociali. È, dunque, a livello territoriale che i diritti divengono fruibili ed esigibili da parte dei cittadini-pazienti-utenti.
La previsione di cui all’art. 117, comma 2, lett. m) si innesta su un sostrato giuridico ed istituzionale nell’ambito del quale deve essere ricercato un punto di equilibrio. Esso, tuttavia, risulta di non facile realizzazione, soprattutto se si considera che esso implica, tra gli altri:
- la definizione della latitudine dei poteri statali;
- la garanzia delle competenze e dei poteri legislativi regionali, che attengono, nello specifico, alle modalità organizzative e gestionali dell’erogazione delle prestazioni;
- il finanziamento dei servizi e delle prestazioni relativi ai diritti civili e sociali;
- le ricadute dei vincoli c.d. finanziari sulla concreta definizione di tali livelli.
La costituzionalizzazione dei LEP, quindi, da un lato, consente al legislatore statale di individuare quelle prestazioni che si assumono essenziali per garantire un livello nazionale dei medesimi livelli. Dall’altro, essa riconosce implicitamente il potere delle Regioni di attuare, nel rispetto dei LEP medesimi, le proprie scelte organizzative e gestionali nell’erogazione dei servizi interessati dalla norma in questione.
E questo è il punto, a parere di chi scrive, che richiede un’attenzione tutta particolare, anche alla luce delle evidenze emerse nel corso dell’attuale emergenza sanitaria.
Come riconosciuto dalla giurisprudenza costituzionale, la competenza statutale non “é una “materia” in senso stretto, ma […]una competenza del legislatore statale idonea ad investire tutte le materie, rispetto alle quali il legislatore stesso deve poter porre le norme necessarie per assicurare a tutti, sull’intero territorio nazionale, il godimento di prestazioni garantite, come contenuto essenziale di tali diritti, senza che la legislazione regionale possa limitarle o condizionarle” (Corte costituzionale, 26 giugno 2002, n. 282).
Riconosciuta questa competenza in capo allo Stato centrale, tuttavia, la Riforma del Titolo V della Costituzione ha inteso valorizzare ed esaltare il ruolo delle Regioni, nell’ambito delle cui competenze i LEP devono essere effettivamente assicurati e resi esigibili. Infatti, il dato su cui si innesta l’art. 117, comma 2, lett. m), è la presenza di diversi modelli organizzativi e gestionali, che hanno disegnato altrettanto diversi approcci e soluzioni (anche giuridiche) alla domanda di prestazioni e di servizi socio-sanitari.
Collocati nella “terra di mezzo” tra prerogative statali e competenze regionali, i LEP rappresentano invero l’espressione avanzata del moderno sistema di welfare multilivello. Affinché i livelli essenziali delle prestazioni civili e sociali possano trovare una loro effettiva esigibilità e fruibilità da parte dei cittadini-pazienti-utenti è necessario che la regolazione pubblica assolva alla propria funzione moderna, ossia quella di promuovere, orientare, favorire, monitorare l’azione delle strutture pubbliche e private e, laddove necessario, incentivare l’intervento diretto delle agenzie pubbliche.
Una funzione regolatoria, dunque, capace di includere e di aumentare, se possibile, il livello di responsabilizzazione dei diversi attori, in un quadro di procedure e processi chiari e facilmente identificabili sia dalle organizzazioni intermedie sia dai cittadini. In quest’ottica, la programmazione condivisa delle linee di indirizzo può invero contribuire a rendere maggiormente efficace la funzione regolatoria e di coordinamento che le istituzioni pubbliche sono chiamate ad esercitare.
Il coordinamento, in particolare, rappresenta una dimensione essenziale della moderna funzione di regolamentazione pubblica, attesa l’ampia gamma di soggetti, pubblici e privati, coinvolti nell’organizzazione, produzione ed erogazione dei servizi socio-sanitari. L’attività di coordinamento potrebbe essere considerata una deminutio rispetto all’intervento diretto che ha caratterizzato per lungo tempo l’azione delle agenzie pubbliche nel comparto sanitario e socio-sanitario. Si ritiene che, al contrario, l’attività di coordinamento svolga una funzione insostituibile e strategica nell’economia della regolamentazione pubblica. Essa, infatti, garantisce in ordine alla finalizzazione degli interventi rispetto all’obiettivo perseguito e da realizzare e, al contempo, assicura il rispetto delle diverse tipologie organizzative presenti.
Si può affermare che l’attività di coordinamento da parte delle istituzioni pubbliche permetta di definire, in modo equilibrato ed efficace, la rete dei servizi e degli interventi che si ritiene utile, necessario e/o opportuno sviluppare in un dato territorio. E ciò allo scopo fondamentale di assicurare il mantenimento di livelli qualitativi adeguati dei servizi, ma soprattutto un equo accesso agli stessi.
Considerata la complessità che definisce l’odierno sistema di organizzazione e di erogazione dei servizi socio-sanitari, è raccomandabile che la regolamentazione offra strumenti di governo dei processi, attraverso i quali i sistemi locali di welfare siano in grado di rispondere alle diverse istanze che provengono dai territori. In un contesto ordinamentale caratterizzato dal decentramento regionale delle competenze in ambito socio-sanitario, al programmatore regionale è affidata la funzione di definire linee di indirizzo che supportino i diversi snodi del governo dei sistemi locali dei servizi e degli interventi sociosanitari.
È, infatti, a livello locale e territoriale che enti del servizio sanitario ed enti locali si confrontano per definire le strategie da perseguire attraverso l’attività di coordinamento.
La regolamentazione pubblica, in ultima analisi, dovrebbe assicurare l’equità nella distribuzione delle risorse a disposizione e la definizione di assetti regolatori e programmatori funzionali a garantire la fruizione dei livelli essenziali delle prestazioni. In questa prospettiva, la diversità di modelli organizzativi può risultare un contributo nella direzione di sperimentare risposte innovative e capaci di innescare processi virtuosi di imitazione tra i diversi territori regionali, nell’ambito di una cornice unitaria, che non significa univoca.
Compito delle istituzioni pubbliche, in particolare, è quello di uscire dalla “sindrome della fortezza”, all’interno della quale spesso i servizi e le prestazioni vengono immaginate e concepite, per approdare alla costruzione di sistemi locali integrati di servizi e di interventi socio-sanitari. La cooperazione finalizzata alla definizione di strategie comuni e alla conduzione di pratiche organizzative da parte delle autorità pubbliche è vieppiù richiesta e necessaria in un ambito, quale quello dei servizi sociali e socio-sanitari, per i quali il coordinamento tra i diversi livelli istituzionali e l’integrazione rappresentano la raison d’etre stessa dell’agire pubblico.
La sfida è quella di tradurre la nozione di integrazione sociosanitaria, spesso “più detta che fatta”, in sperimentazioni che superino i tanti inconcludenti tavoli di concertazione inter-istituzionale e siano capaci di valorizzare i contributi dei diversi soggetti coinvolti, istituzionali, non lucrativi e imprenditoriali, affinché in forza del vissuto delle esperienze maturate sia possibile individuare quella standardizzazione delle prestazioni e delle relative modalità di erogazione.
In questa prospettiva, il recupero della programmazione zonale capace di realizzare “Distretti di Economia Solidale”. Si tratta di contesti a forte vocazione sociale e territoriale, nel quale enti pubblici, soggetti non profit e organismi della cooperazione cooperano per:
- individuare gli obiettivi da realizzare;
- individuare le risorse disponibili;
- definire un modello di governance chiaro e allargato;
- identificazione delle funzioni programmatica e gestionale.
I distretti di cui sopra si presentano dunque quali luoghi di produzione e di scambio economico sociale, formalizzati da accordi strategici e programmatici, in cui le imprese sociali possono invero trovare la loro naturale collocazione e contribuire conseguentemente a disegnare modelli e sistemi di riferimento utili, soprattutto a livello locale, per affrontare e forse anche per superare la situazione di crisi odierna.
Così come in ragione delle particolari finalità di solidarietà e di coesione sociale sottese alla garanzia dei LEP, è necessaria l’intesa tra le Regioni e lo Stato centrale, forse anche attraverso modalità innovative rispetto al passato, parimenti a livello regionale e territoriale è necessario lavorare nella direzione di individuare meccanismi e istituti giuridici condivisi ed efficaci, che tra l’altro possano anche risultare verificabili e modificabili nel tempo.
L’effettiva garanzia dei LEP richiede tuttavia di allontanarsi da due tentazioni che, specie in epoca Covid-19, sembrano emergere: la prima è quella di evitare di pensare che all’improvviso e drasticamente si possa annullare ogni forma di autonomia; la seconda è quella di abbandonare pulsioni egoistiche e autosufficienti. Come anche su questo sito è stato più volte ribadito, è invece necessario correggere i difetti strutturali, ricercare un continuo e adeguato equilibrio nelle relazioni interistituzionali, favorire una consultazione reciproca e coordinata delle azioni richieste ed avvertite come essenziali, nonché eliminare ogni forma di sovrapposizione e contraddizione tra diversi livelli di governo.
Questi sono i fattori che possono disegnare un approccio sistemico, analitico e riformatore degli attuali assetti, che – oggi – può contare anche sulla disponibilità di istituti giuridici innovativi quali quelli messi a disposizione dal Codice del Terzo settore (si pensi, in quest’ottica, alla definizione del “budget di salute”) e, per la parte più marcatamente mercantilistica, dal Codice dei Contratti pubblici (si pensi, per tutti, alle partnerships pubblico-private).
Buongiorno.
Condivido pienamente i contenuti sopra riportati ma vorrei chiedere quale sia nello specifico il ruolo della Regione in questo processo, così come delineato, affinché possa fungere da soggetto “trainante” all’interno della strategia del cambiamento a cui tutti – enti locali in genere – siamo richiamati a promuovere…oggi più che mai.
Grazie Lucia