Finanziamento e spesa. Elezioni 2018


Laura Pelliccia | 21 Febbraio 2018

A conclusione della legislatura 2013-2018 è utile fare il punto sullo stato del finanziamento del welfare sociale e sociosanitario. Data la complessità della governance di questo settore, è necessario tener conto sia della filiera sanitaria che di quella sociale e, oltretutto, delle manovre che hanno interessato gli interventi gestiti dal sistema centrale e quelli degli enti decentrati. Si propone una rassegna degli interventi che hanno modificato il quadro del finanziamento dei vari livelli di governo, evidenziando i progessi compiuti e le questioni ancora irrisolte a fine legislatura.

 

Il finanziamento del SSN e gli effetti sull’assistenza sociosanitaria

Il quadro generale tracciato dalle manovre finanziarie della legislatura segna una progressiva diminuzione della quota di risorse nazionali dedicate all’assistenza sanitaria (Tav. 1). Il finanziamento del SSN è divenuto quanto mai incerto e si è assistito ad una continua rideterminazione in sede di manovre annuali del fabbisogno finanziario programmato in occasione dei vari Patti per la Salute1. Per di più, nell’ultimo anno, il budget stanziato per il  2017-2019 è stato ulteriormente eroso, per effetto di clausole che hanno scaricato sulla sanità i mancati accordi legati sul concorso delle regioni a Statuto Speciale al risanamento della finanza pubblica. Preoccupante il livello raggiunto dalle compartecipazioni (ticket) che induce i cittadini a ricorrere sempre di più alle proprie risorse e alla sanità privata, oppure a rinunciare all’assistenza (l’ultima legge di bilancio ha introdotto misure per mitigare i superticket, correttivi che, tuttavia, mostrano limiti in termini di efficienza e capienza di risorse, si veda UPB, 2017).

Un quadro che lascia poche speranze della possibilità di rafforzamento dell’assistenza sociosanitaria.

 

Tavola1 – Rapporto tra spesa sanitaria/FSN e Pil, 2013-2020

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Dalle dinamiche di crescita del FSN, fino a qualche tempo fa, ci si poteva aspettare un potenziamento dei servizi territoriali, attraverso una redistribuzione da altre aree (es. acuzie). Invece, negli ultimi anni, gli incrementi al fondo sono stati vincolati a precise finalizzazioni (farmaci innovativi, nuovi vaccini, rinnovi contrattuali, PMA); di fatto, le Regioni non hanno avuto possibilità e stimoli a finanziare servizi alternativi a quelli oggetto delle integrazioni.

Emblematico, a tale proposito, ciò che è accaduto in sede di revisione dei Lea, quando, nell’individuazione dei nuovi bisogni meritevoli di finanziamento, è stata totalmente esclusa l’assistenza sociosanitaria (capo IV del Dpcm 12 gennaio 2017)2, senza risorse aggiuntive per i bisogni di assistenza continuativa di disabili, anziani, disturbi dell’età evolutiva.

Le politiche sanitarie degli ultimi anni hanno cercato di evitare che i servizi sanitari regionali si facessero carico di oneri di competenza sociale, stante la normativa sul riparto degli oneri tra i due settori. In sede di revisione dei Lea, le quote di concorso della sanità sono sostanzialmente rimaste invariate;  per alcune casistiche, di fatto, ci potrebbe essere addirittura il rischio di un ribasso della quota garantita dal SSN3.

In molti territori le tensioni del fondo sanitario hanno comportato un trasferimento degli oneri per i servizi sociosanitari sull’utenza (l’annoso problema delle compartecipazioni), una criticità che compromette l’accessibilità e l’universalismo per questi servizi.

Nel complesso sono mancate vere e proprie politiche di integrazione, stimoli alla ricomposizione delle risorse sociali e sociosanitarie nei territori. Restano ampie le differenze tra i livelli di assistenza sociosanitaria erogata da regione a regione: l’investimento dei vari servizi sanitari regionali nei servizi di assistenza continuativa dipenderà ancora dalla sensibilità delle regioni verso questi bisogni (si veda un articolo dell’autrice pubblicato su questo sito).

 

Le prestazioni assistenziali erogate dal sistema centrale

I tradizionali interventi del sistema centrale per i bisogno assistenziali, in particolare per la non autosufficienza (indennità di accompagnamento)4, non sono stati oggetto di riforme/innovazioni sostanziali nel quinquennio in questione. La relativa spesa in termini nominali ha continuato a mostrare un trend espansivo, sebbene con un rallentamento delle dinamiche di crescita rispetto a qualche anno fa5. Nel complesso, comunque, è diminuito l’assorbimento di risorse nazionali da parte dell’indennità, sia con riferimento al complesso dell’utenza, sia principale target di beneficiari della prestazione, ovvero gli anziani. Anche in assenza di riforme strutturali, sembrerebbe che a fronte della crescita di questo bisogno, le risposte pubbliche in termini di quota di Pil si indeboliscano, con il rischio di inasprimento dell’effettiva possibilità di accesso al principale strumento di sostegno per la non autosufficienza.

 

Tavola 2 – Spesa per l’indennità di accompagnamento rispetto al Pil, 2013-2016

2013 2015 2016
Indennità di accompagnamento su PIL (%) 0,84 0,82 0,81
di cui per anziani 0,65 0,64 0,62

Fonte: RGS, anni vari

 

Tra le novità della spesa assistenziale dell’ultima legislatura va menzionata l’implementazione di alcuni finanziamenti generalisti, senza una finalizzazione e progettazione sul caso e senza coordinamento con le politiche sociali locali. Ad esempio, con la legge di stabilità per il 2015 è stato introdotto l’Assegno di natalità, anche detto Bonus bebè: un assorbimento importante di risorse (1 miliardo per il 2017 incrementato a 1,2 miliardi per il 20186) che sembra incoraggiare il welfare “fai da te” e accentuare uno dei limiti storici del nostro welfare pubblico, ossia l’eccessiva preferenza per i trasferimenti monetari rispetto agli interventi tramite servizi. Altri interventi innovativi sono andati in questa direzione (ad esempio, nel 2017, il cosiddetto “premio alla nascita”).

La legislatura passerà alla storia per l’istituzione del Fondo Povertà, una novità di tipo strutturale con cui si è tentato di colmare uno dei principali ritardi del nostro Paese, ovvero l’assenza di un programma nazionale per il contrasto alla povertà.

La riforma ha assunto dei confini più limitati rispetto all’iniziale oggetto individuato dalla legge di stabilità per il 20157 ma, in ogni caso, ha permesso di fare sistema tra i diversi fondi preesistenti (ASDI, SIA, PON) per costituire il Fondo per la lotta alla povertà. Oltre all’integrazione dello stanziamento 2017 (130 milioni), con la legge di bilancio per il 2018 è stato individuato un significativo percorso di crescita del Fondo per il prossimo triennio8; nell’ottica di coordinare le politiche centrali e quelle locali, si prevede anche un apposito trasferimento ai territori per il rafforzamento dei servizi locali (si veda anche l’articolo di Francesco Bertoni pubblicato su questo sito).

 

Il sostegno dello Stato alle politiche sociali territoriali

I fondi per le politiche sociali hanno subito alterne vicende nel corso della legislatura. La situazione di partenza era di particolare instabilità, dopo il totale azzeramento del sostegno statale al welfare territoriale del Governo 2008-2012 e la tiepida ripartenza del 2013, quando il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali (FNPS) e il Fondo Nazionale per la Non Autosufficienza (FNNA) erano stati ripristinati, senza tuttavia raggiungere i livelli di inizio decennio (Tav. 3).

A fine mandato la situazione di incertezza permane, dal momento che per la maggior parte dei fondi manca una definizione strutturale del livello di finanziamento a regime, con stanziamenti affidati alle manovre annuali e alle relative contingenze. Il 2017 è stato particolarmente critico, poiché in corso d’anno, a seguito di un accordo Stato-regioni per la gestione del concorso degli enti territoriali al risanamento della finanza pubblica, sono stati drasticamente ridimensionati i livelli del FNPS e del FNNA. Dopo mesi di incertezza per i territori (si veda un articolo dell’autrice pubblicato su questo sito), la situazione è stata tamponata con un’integrazione del FNPS a carico del Fondo Povertà, ma mancano ancora soluzioni di tipo strutturale e, come emerge dalla tavola 2, per gli anni successivi non vi è alcuna certezza di finanziamento. Solo per il Fondo Povertà si conoscono i trasferimenti  su cui potranno contare le regioni nel medio-periodo (Tav. 3); il sostegno statale allo sviluppo della rete dei servizi per il contrasto alla povertà non deve comunque significare un definanziamento degli altri tipi di interventi sociali tradizionali.

Tra i nodi ancora irrisolti a fine legislatura c’è la gestione del FNNA (a riprova della situazione di particolare criticità, il fatto che ancora oggi non sia stato completato l’iter del riparto del fondo 2017): il livello di finanziamento non sembra consentire alle regioni di assicurare gli interventi previsti, specialmente quelli per le gravissime disabilità. Le regioni sono arrivate ad invocare la riduzione della quota finalizzata alle gravissime disabilità e l’eliminazione, dalle categorie di beneficiari privilegiati dal Fondo, della SLA e delle gravi demenze9. Le criticità del FNNA 2017 hanno condotto Stato-Regioni a ricercare un accordo che costituisce una novità nella storia del finanziamento delle politiche sociali: Stato e enti territoriali si impegnano a co-finanziare un programma condiviso e comune alle varie regioni. In un settore connotato da mancanza di ruoli tra Stato e Regioni (si veda § successivo), questa vicenda può costituire un esempio di corresponsabilizzazione. In ogni caso, la definizione dei livelli essenziali per la non autosufficienza e del relativo finanziamento, obiettivo a tratti annunciato dall’ultimo Governo, resta una meta ancora lontana da raggiungere.

Un ultimo elemento di rilievo, a proposito dei fondi statali per le politiche sociali, è quello dell’aumento della frammentarietà: negli ultimi anni si è assistito alla costituzione di nuove linee di finanziamento (Fondo Dopo di noi, Fondo Povertà, Fondo Caregiver, fondi per la violenza di genere, fondi per il sostegno scolastico dei disabili fisici e sensoriali ecc).  I territori si ritrovano a gestire tanti fondi con finalizzazioni specifiche in luogo di un finanziamento indistinto da gestire secondo le preferenze e i bisogni locali.

 

 

Tavola 3 – Fondi per le politiche sociali 2010-2020 (milioni di euro)

Anno Tipo quota FNPS FNNA Fondo
Famiglia
Fondo Povertà Fondo Dopo di noi Fondo Caregiver
2010 Totale Fondo 435,3 400 185,3
Quota Regioni 380,2 380 100
2011 Totale Fondo 218 100 50
Quota Regioni 178,5 100 25
2012 Totale Fondo 43,7 55,8
Quota Regioni 10,7 45
2013 Totale Fondo 344,2 275 16,9
Quota Regioni 300 275
2014 Totale Fondo 297,4 350 16,7
Quota Regioni 262,6 340 5
2015 Totale Fondo 313 400 135,3
Quota Regioni 278,2 390 105
2016 Totale Fondo 311,6 400 15,2 1.620 [c] 90
Quota Regioni 277,8 390 7,5
2017 Totale Fondo 289,8 500 2,8 1.530 [c] 38,3
Quota Regioni 65 [a] 448,6 [b] 2,8 212 [a] 38,3
2018 Totale Fondo 276 450 4,5 2.059 [c] 51,1 20
Quota Regioni 297
2019 Totale Fondo incremento 300 20
Quota Regioni 347
2020 Totale Fondo incremento 783 + 117 20
Quota Regioni 470

Ns. elaborazione su dati regioni.it, decreti di riparto, Bilancio Stato 2018; [a] Quote da decreto di riparto FNPS; [b] in aggiunta ai 50 milioni a carico dei bilanci regionali; [c] al lordo delle risorse residue degli esercizi precedenti

 

Altre questioni aperte: il rapporto Stato-Regioni-Comuni

Il destino del finanziamento del welfare locale si intreccia con le vicende del sistema di finanziamento degli enti locali. Da ormai diverso tempo (a partire dalla L. 42/2009) sono in corso lavori per costruire un sistema di finanziamento delle regioni e dei comuni efficiente e responsabilizzante.

Pur avendo le regioni competenza sulle politiche sociali, nel percorso di riforma verso il federalismo è mancata una definizione del sistema di finanziamento degli interventi sociali a carico di questi enti (sinora gli sforzi di costruzione del fabbisogno standard delle regioni si sono concentrati solo sulla sanità). Questa lacuna permane a fine legislatura: a causa della mancata definizione di standard sui livelli di servizio – un minimo comune denominatore delle responsabilità delle regioni in questo settore – non sono stati compiuti progressi nella costruzione di un sistema di finanziamento che incentivi le regioni a rafforzare i propri interventi, che restano affidati alla sensibilità locale e molto squilibrati da territorio a territorio. Il rischio è che i governi locali, in epoca di forti tensioni per i bilanci regionali (le recenti manovre nazionali hanno scaricato su questo livello di governo un pesante contributo al risanamento della finanza pubblica) si aspettino che sia solo lo Stato a dover finanziare le politiche sociali attraverso  i fondi nazionali.

Analoghe considerazioni possono essere fatte per la finanza comunale. Anche per questo comparto da anni è stato avviato un percorso per abbandonare il finanziamento basato sulla spesa storica e progressivamente convergere a un modello di finanziamento basato sulla stima del reale fabbisogno dell’ente, date le sue caratteristiche sociodemografiche e il suo livello di offerta di servizi. Sono state condotte apposite rilevazioni (questionario SOSE) ed effettuate comparazioni. Oltre ai non pochi problemi di ordine metodologico (si veda un articolo dell’autrice pubblicato su Lombardia Sociale) lo scoglio che impedisce l’effettiva attuazione è, ancora una volta, la definizione dei livelli di servizio, ovvero le responsabilità degli enti locali nel sociale. Se un comune non offre un servizio (ad esempio i nidi) significa che non ne ha bisogno e non deve essere finanziato? Come individuare i Comuni che offrono livelli inadeguati di servizi e incentivarli allo sviluppo? Quello del coordinamento tra politiche di finanziamento nazionali e locali resta un nodo critico lasciato ai futuri Governi.

  1. Ad esempio, il Patto 2014-2014 prevedeva un impegno per 115,4 miliardi per il 2016, rideterminato dalla L. 208/2015 in 111 miliardi.
  2. L’unica area di bisogno da potenziare è stata quella del gioco d’azzardo patologico.
  3. Ad esempio nel confronto tra l’articolato del Dpcm 14/2/2001 e quello del Dpcm 12/01/2017, nel caso di assistenza residenziale e semiresidenziali per non autosufficienti, sembra che comuni e utenti siano oggi tenuti a compartecipare anche al costo dei farmaci e dei dispositivi medici.
  4. Si fa riferimento all’indennità in quanto misura più rappresentativa degli interventi dello Stato per la non autosufficienza. Ovviamente l’accompagnamento non esaurisce la spesa centrale assistenziale. Ad esempio, ci sono altre importanti partite quali la spesa per assegni sociali e pensioni sociali che valgono oltre 4,9 miliardi (Fonte: Rapporto Annuale Inps 2017).
  5. Ad esempio, dai dati di contabilità nazionale risultava un incremento annuo del 2,9% della spesa per invalidità civile nel 2013, sceso a 1,6% nel 2016 (nel 2015 solo +0,7%), Fonte RGS (2017). Nello specifico, per gli anziani, la crescita imponente della fine dello scorso decennio si è ridimensionata (tra il 2013 e il 2015 è passata da 10,1 a 10,5 miliardi, Fonte, NNA 2017).
  6. Fonte: Bilanci di previsione Ministero del Lavoro e delle Politiche  Sociali
  7. La L. 208/2015 contemplava uno o più provvedimenti legislativi di riordino della normativa in materia di strumenti e trattamenti, indennità, integrazioni di reddito e assegni di natura assistenziale o comunque sottoposti alla prova dei mezzi, anche rivolti a beneficiari residenti all’estero, finalizzati all’introduzione di un’unica misura nazionale di contrasto alla povertà, correlata alla differenza tra il reddito familiare del beneficiario e la soglia di povertà assoluta
  8. 300 milioni di euro nell’anno 2018, 700 milioni di euro nell’anno 2019,  783 milioni di euro nell’anno 2020, 755 milioni di euro annui a decorrere dall’anno 2021, a cui si aggiungono 117 milioni per il 2020 e 145 per il 2021 per le finalità del Piano (art.1 c. 196 L. 205/2017)
  9. La Conferenza delle Regioni e delle Province a margine dell’intesa di settembre 2017, ha espresso le seguenti raccomandazioni: All’art. 2 (finalità) comma 2, ridurre la quota destinata ai disabili gravissimi dal 50% al 40% e di eliminare il seguente periodo “ivi inclusi quelli a sostegno delle persone affette da sclerosi laterale amiotrofica e delle persone con stato di demenza molto grave, tra cui quelle affette dal morbo di Alzheimer”.