Questo breve contributo si focalizzerà intorno a quattro punti di attenzione: 1) l’origine e il significato della cittadinanza; 2) i criteri che nel mondo e nel nostro Paese vengono usati per attribuire la cittadinanza; 3) lo status del “non cittadino”; 4) il diritto delle migrazioni.
Origine e significato della cittadinanza
Tradizionalmente si dice che lo Stato è costituito da tre elementi: popolo, territorio e governo. È un’entità giuridica che si costituisce in un dato territorio, nel quale vive stabilmente una popolazione, che è assoggettata ad un apparato di comando (“governo”). La “cittadinanza” in senso giuridico indica l’appartenenza giuridica di una persona a un determinato Stato. È, quindi, un rapporto giuridico tra l’individuo e lo Stato, che indica non già il presupposto necessario e il limite della soggezione del primo alla potestà del secondo, ma una forma di “appartenenza” stabile dell’individuo all’ordinamento di uno Stato. Infatti anche i non cittadini che vivono nel territorio dello Stato sono assoggettati in generale alla sua potestà territoriale, e viceversa anche i cittadini che vivono nel territorio di un altro Stato sono soggetti in generale alla potestà di quest’ultimo: da questo punto di vista è piuttosto il territorio che delimita i confini di esercizio della potestà dei diversi Stati.
Questo concetto di cittadinanza, pur antico (si ricordi per esempio la rivendicazione e il riconoscimento della qualità di cittadino romano di S. Paolo – civis romanus sum – attestati ed evocati dagli Atti degli Apostoli), si è consolidato e affermato come criterio fondamentale di individuazione dello statuto politico di una persona solo negli ultimi tre secoli. Prima dell’avvento delle Costituzioni liberali l’individuo si considerava fondamentalmente suddito di colui che era il “sovrano” della terra in cui viveva, e il suo statuto si qualificava piuttosto in relazione ad appartenenze di ceto (nobile, ecclesiastico, borghese, libero o schiavo) o di categoria professionale (le “corporazioni” di arti e mestieri). Negli ultimi secoli si è affermata l’idea che lo Stato non si identifica con un “sovrano”, ma piuttosto con l’intera collettività dei suoi cittadini (il popolo).
Il concetto moderno di cittadinanza nasce dunque in stretto collegamento con l’idea dell’eguaglianza: “tutti i cittadini sono uguali davanti alla legge”. Questa idea può apparire oggi perfino un poco paradossale, se si pensa che uno dei fattori di maggiore disuguaglianza legale è costituito attualmente proprio dalla cittadinanza, dalla differenza tra cittadini e stranieri. Si tratta di una differenza e di una disuguaglianza non genetica o di fatto, ma creata dalla legge dello Stato. La cittadinanza non è nemmeno una scelta dell’individuo, frutto dell’esercizio di una sua libertà, ma è la legge che determina chi è cittadino di uno Stato e chi non lo è, chi può diventarlo o cessare di esserlo e a quali condizioni.
“Cittadini” e “stranieri”: chi è cittadino?
I criteri con cui le leggi dei diversi Stati del mondo attribuiscono la cittadinanza sono diversi. I più utilizzati sono il diritto del sangue (ius sanguinis) e il diritto del territorio (ius soli). Il primo criterio prevede che cittadino sia colui che nasce da genitori o da almeno un genitore cittadino: si tratta di una trasmissione automatica della cittadinanza di padre (o di madre) in figlio. Il secondo criterio prevede invece che cittadino sia colui che nasce nel territorio dello Stato: se una persona nasce nel territorio dello Stato ne acquista automaticamente la cittadinanza. Il criterio dello ius sanguinis è adottato per lo più da paesi – tra cui l’Italia – il cui territorio da sempre è abitato densamente da una popolazione stabile (e in Italia, almeno fino a pochi anni fa, in costante crescita demografica). Le condizioni di vita spingevano fino a poco tempo fa molti a cercare lavoro e una vita migliore emigrando, spesso definitivamente, in altri paesi (l’Italia paese di emigrazione).
La legge italiana non solo attribuisce di diritto la cittadinanza a chiunque nasca – in qualsiasi luogo – da almeno un genitore cittadino italiano, ma prevede che l’interessato conservi la cittadinanza anche se, senza rinunciarvi, lascia definitivamente il territorio dello Stato o rimane stabilmente insediato all’estero dov’è nato. Il “sangue” italiano non si perde: la cittadinanza può essere tolta ad un cittadino per nascita solo in casi estremi come quello in cui l’interessato si metta al servizio di un altro Stato, ostile al nostro, e rifiuti di ottemperare all’ingiunzione di lasciare tale servizio. L’interessato può bensì rinunciarvi, se risiede stabilmente all’estero e acquista volontariamente la cittadinanza di un altro Stato. Ma in caso diverso rimane cittadino.
Al contrario, in altri Stati, come gli Stati Uniti dì America, il cui territorio è abitato in maggioranza da discendenti di immigrati da più o meno tempo da altri Paesi (paese di immigrazione), vale il criterio per cui chiunque nasca nel territorio dello Stato – indipendentemente dalla cittadinanza dei suoi genitori – ne acquista automaticamente la cittadinanza, e la conserva anche se si trasferisce stabilmente nel territorio di un altro Stato, magari quello di cui sono cittadini i suoi genitori. In questi casi è il luogo di nascita che determina la cittadinanza (ius soli).
Per di più, secondo la legge di molti Stati (e anche del nostro) è possibile acquistare una diversa cittadinanza senza perdere quella già posseduta (c.d. doppia cittadinanza). Di qui, ad esempio, il grande numero di cittadini italiani che vivono stabilmente (e magari sono anche nati) all’estero.
Quei “cittadini residenti all’estero” cui la Costituzione (art. 48, come modificato dalla legge costituzionale n. 1 del 2000) attribuisce il diritto di voto per l’elezione di dodici deputati e sei senatori (numero fissato dalla successiva legge costituzionale n. 1 del 2001, e ora ridotto dalla legge costituzionale di recente approvata e in attesa di conferma referendaria), esercitato in una apposita “circoscrizione estero”. In tal modo votano (diritto che loro spetta in quanto cittadini) e concorrono a formare il Parlamento nazionale cittadini italiani che possono anche non avere mai avuto o che hanno abbandonato una stabile residenza nel territorio italiano: mentre nessun diritto di voto (nemmeno per la elezione degli organi del Comune) e nessuna rappresentanza politica spetta a chi sia privo della cittadinanza italiana, anche se risieda stabilmente e da tempo in Italia. La cittadinanza italiana iure sanguinis si trasmette automaticamente, se non rinunciata, di padre (o madre) in figlio anche per generazioni, pure quando venga a mancare in concreto un collegamento effettivo dell’individuo con il territorio italiano e con la popolazione in esso insediata.
Poi c’è la cosiddetta naturalizzazione, ossia l’acquisto volontario della cittadinanza, sulla base però di requisiti stabiliti dalla legge. Può divenire cittadino italiano chi contragga matrimonio con un cittadino (o una cittadina) italiano, purché però risieda da almeno sei mesi in Italia, o, in caso diverso, dopo due anni di residenza. Fuori dal caso di matrimonio, può chiedere di divenire cittadino italiano, al compimento della maggiore età, lo straniero nato in Italia e che qui abbia sempre mantenuto la residenza. Può chiedere, infine, la cittadinanza italiana, per sé e per i propri figli minorenni, lo straniero che abbia risieduto regolarmente in Italia per almeno dieci anni (quattro anni per i soli cittadini dell’Unione europea; per tutti, fino al 1992 bastavano cinque anni). Il principio dello ius sanguinis torna a rilevare anche nel caso di naturalizzazione: bastano, così, solo tre anni di residenza per l’acquisto della cittadinanza da parte dello straniero che abbia un genitore o un nonno che sia stato cittadino italiano per nascita.
La logica che sta alla base di questa legislazione è quella per cui è il “sangue” che conferisce la cittadinanza, e la “naturalizzazione” è non tanto un diritto quanto una concessione dello Stato. Concessione che può essere negata per esempio a chi sia stato condannato per determinati reati. Per di più si tratta di un lungo procedimento, che oggi (in base ad una disposizione del 2018, da giudicarsi incostituzionale in quanto priva di una ragionevole giustificazione in fatto), può durare fino a quattro anni.
La nostra legge sulla cittadinanza è tuttora strettamente ancorata al tradizionale criterio dello ius sanguinis, pur in un mondo in cui i fenomeni migratori divengono sempre più frequenti. Non mancano proposte di riforma, come quella che prevederebbe l’acquisto volontario della cittadinanza da parte dei minori nati in Italia o immigrati in tenera età e che abbiano compiuto in Italia un ciclo di istruzione (c.d. ius culturae). Tuttavia queste proposte faticano ad andare avanti, perché è ancora diffuso un pregiudizio legato all’idea sottostante che sia la stirpe, il sangue, a definire essenzialmente l’appartenenza al popolo del nostro Stato. Un pregiudizio in cui permangono le tracce della sciagurata legislazione razziale del periodo fascista, che considerava il “sangue” la base della nazione, e le leggi per “la difesa della razza” arrivavano a vietare (per i cittadini italiani che ricoprissero funzioni pubbliche) o a sottoporre ad autorizzazione (per gli altri cittadini) il matrimonio con persone “straniere” (“di qualsiasi razza”, si specificava).
Lo statuto del “non cittadino”
La condizione giuridica dello straniero è regolata dalla legge in base alle norme e ai trattati internazionali (articolo 10 della Costituzione). Di per sé la Costituzione non dice altro. Quali sono i diritti che ha il cittadino italiano e non lo straniero? Anzitutto i diritti politici (di votare e di essere eletti) sono tradizionalmente riservati ai cittadini. E già qui si pone un interrogativo: i diritti di partecipazione alla vita delle istituzioni dovrebbero essere legati non solo alla cittadinanza, ma piuttosto all’effettivo inserimento della persona nel vita della comunità, con il godimento dei diritti e l’osservanza dei doveri che ciò comporta. Ha senso che l’italiano residente stabilmente all’estero voti addirittura per eleggere il Parlamento, mentre lo straniero residente da anni in Italia, che qui lavora, partecipa alla vita sociale, adempie ai doveri di solidarietà, paga le tasse, non abbia titolo nemmeno per concorrere ad eleggere il Sindaco del suo Comune?
Per quanto riguarda i diritti civili il nostro codice (anteriore alla Costituzione) prevedeva una discrezionalità del legislatore che addirittura avrebbe potuto conformarsi al principio di reciprocità, cioè condizionare il riconoscimento di diritti allo straniero al fatto che il suo Stato di appartenenza riconoscesse gli stessi diritti ai cittadini italiani: quasi che non si trattasse di diritti da riconoscere alle persone, ma allo Stato straniero. Oggi però, in forza della Costituzione che riconosce i diritti fondamentali della persona umana, e delle convenzioni internazionali che a loro volta affermano la spettanza dei diritti fondamentali a tutti gli esseri umani in condizioni di eguaglianza, lo Stato è obbligato a non introdurre discriminazioni irragionevoli nel godimento delle libertà e dei diritti.
Le fondamentali libertà civili (libertà personale, di comunicazione, di pensiero, di riunione, di agire in giudizio, di difesa, ecc.) spettano in Italia anche agli stranieri. Come pure spettano loro i diritti al lavoro e alle condizioni di lavoro (retribuzione, ferie ecc,), all’istruzione, alla salute. Più sfumata è la situazione per quanto riguarda talune prestazioni sociali da parte dello Stato, al di fuori dei diritti fondamentali che non possono essere negati o limitati per nessuno: qui talora si ammettono delle differenziazioni, purchè non irragionevoli.
C’è un solo diritto che però è espressamente riservato ai cittadini mentre ne è escluso lo straniero: il diritto di entrare o rientrare liberamente nel territorio dello Stato e di restarvi. Il cittadino non può mai essere allontanato dal territorio dello Stato, lo straniero sì. È lo Stato che decide se, quando e a quali condizioni consentire l’ingresso e il soggiorno dello straniero nel territorio nazionale. Lo statuto civile dello straniero è dunque sempre in qualche modo precario.
C’è, è vero, il diritto dello straniero “al quale sia impedito nel suo paese l’effettivo esercizio delle libertà democratiche garantite dalla Costituzione italiana”, di godere del “diritto d’asilo nel territorio della Repubblica, secondo le condizioni stabilite dalla legge” (ancora articolo 10 della Costituzione). Se interpretata e applicata in senso estensivo, una regola di questo genere potrebbe consentire alle persone di mezzo mondo (e forse più) di invocare il diritto di asilo nel nostro Paese. In realtà, normative internazionali, europee e nazionali restringono questo diritto al caso di veri e propri “profughi”, che fuggono dal loro paese per difendersi da minacce gravi e incombenti per la loro vita, incolumità o le loro fondamentali libertà.
Emigrare, immigrare. Cittadini del mondo
C’è poi il grande tema, necessariamente non limitato ai singoli Stati, delle migrazioni tendenzialmente stabili da un territorio ad un altro: quindi il tema della regolazione giuridica delle migrazioni. I singoli Stati si riservano ancora quasi interamente, come ho detto, il diritto di consentire o meno l’ingresso, temporaneo o definitivo, nel proprio territorio dei cittadini di altri Stati. Le migrazioni sono sempre esistite come fenomeno “spontaneo” e di massa nella storia del mondo, e anzi molto spesso la conformazione e lo sviluppo delle comunità territoriali (ma talora anche la minaccia e la crisi per certe comunità “autoctone”) sono stati frutto di fenomeni migratori di massa. Gli Stati, come si è detto, tendono a mantenere il controllo sui propri confini; riconoscono la libertà di emigrare, abbandonando il territorio nazionale (così la nostra Costituzione, che affida inoltre alla Repubblica il compito di tutelare “il lavoro italiano all’estero”, ma anche le convenzioni internazionali), ma mantengono il controllo sulle migrazioni “in ingresso” nel proprio territorio.
Nel mondo sempre più “globalizzato” di oggi e con la crescita delle comunicazioni e degli scambi, ci sarebbe sempre più bisogno di regolare e governare questi fenomeni, non tanto dal punto di vista dei singoli Stati, ma da un punto di vista più ampio. I fenomeni migratori di massa sono collegati non solo a fattori politico-sociali come guerre locali e conflitti, ma anche a fattori naturali (calamità, clima, carestie) o economico-sociali. Il governo degli spostamenti di massa non può essere lasciato solo alla discrezionale volontà dei singoli Stati o agli istinti di diffidenza e difesa e ai pregiudizi che affiorano nelle società, ma richiederebbe di essere guidato con prospettive lungimiranti e in spirito di solidarietà nell’ambito dell’intera famiglia umana. Dovrebbe essere il compito della società internazionale e di istituzioni sovranazionali da costruire e potenziare, a partire dall’ONU, in una prospettiva di “costituzionalismo mondiale”, in cui si dia piena attuazione al principio proclamato nell’articolo 1 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo, per cui “tutti gli esseri umani nascono liberi ed eguali in dignità e diritti. Sono dotati di ragione e di coscienza e devono agire gli uni verso gli altri in spirito di fratellanza”.
Per quanto riguarda i singoli Stati, per noi lo Stato italiano, occorrerebbe, oltre che chiedere che esso assuma, in Europa e nel mondo, sempre più questa prospettiva, promuovendo politiche e accordi ad essa conseguenti, e smettendo di agire nella sola ristretta logica della cosiddetta difesa di “interessi nazionali”, lavorare – a partire dalla costruzione europea, la cui origine e la cui “anima” richiedono una visione lungimirante – nella direzione di un ripensamento della disciplina concreta e dello stesso concetto della “cittadinanza”, e quindi dello “statuto” dello straniero. Essere “cittadino” dovrebbe voler dire sempre più essere componente consapevole, attivo e partecipe della collettività – locale, regionale, nazionale, sovranazionale, mondiale – che esercita diritti e adempie doveri connessi a tutte le diverse dimensioni sociali. Così come l’idea “nazionale” e le conquiste del costituzionalismo “nazionale” hanno significato nella storia un processo di apertura e di solidarietà, che non nega le diverse appartenenze locali, né le diversità culturali, ma le ricomprende in una visione più ampia, così nel mondo globalizzato di oggi la crescita della coscienza di appartenere ad una “comunità di destino” coincidente con l’umanità intera dovrebbe fondare la nascita di un nuovo costituzionalismo “globale”, per i “cittadini del mondo”.