Il ritorno della competizione politica sulla politica dei redditi


Matteo JessoulaPablo Bustinduy | 9 Febbraio 2023

In Spagna, tra il 2008 e il 2016, gli incrementi del salario minimo sono rimasti ben al di sotto dell’inflazione, con un impatto significativo sul potere d’acquisto dei lavoratori a basso reddito, mentre il dialogo sociale veniva stato indebolito dall’azione unilaterale dei governi che hanno imposto severe misure di aggiustamento fiscale. Al contempo, la deregolamentazione del mercato del lavoro – conseguenza di due importanti riforme nel 2010 e nel 2012 – ha portato alla moltiplicazione dei contratti atipici, specialmente quelli temporanei: i redditi da lavoro sono rimasti stagnanti, soprattutto per la classe media e quella operaia, mentre i livelli di disoccupazione (specie tra i giovani), la povertà lavorativa e l’esclusione sociale rimanevano elevati rispetto alla media europea.

Tuttavia, nell’ultimo decennio, il salario minimo ha dunque acquisito una nuova centralità sulla scena politica spagnola. A partire dal 2014, in un quadro caratterizzato da profondo malcontento sociale e ampie trasformazioni del sistema partitico, il salario minimo è divenuto sempre più saliente nel dibattito pubblico ed è aumentata la pressione sugli attori politici affinché riorientassero la politica economica e quella salariale. Le politiche di salario minimo hanno dunque registrato una chiara inversione di tendenza e governi di diverso colore hanno risposto alla pressione sociale licenziando una serie di rilevanti incrementi del salario minimo legale, che è cresciuto di oltre il 45% dal 2017.

Qual è l’assetto istituzionale e di governance in tema di salario minimo in Spagna? Soprattutto, quali dinamiche hanno condotto, negli anni recenti, al sensibile aumento del minimo retributivo nel paese iberico?

Il salario minimo nazionale in Spagna: da Zapatero alla Grande Recessione

Per ragioni storiche e istituzionali, il regime di salario minimo in Spagna è caratterizzato dal ruolo preponderante dello Stato, che assume una funzione di regolamentazione diretta del minimo salariale nazionale, e più in generale dei rapporti di lavoro.

Il salario minimo legale definisce una soglia minima nazionale per tutti i settori economici e le professioni e tale soglia è fissata per decreto del governo su base annuale, previa consultazione coi sindacati e con le associazioni imprenditoriali più rappresentative a livello nazionale.

Benché la legge stabilisca una serie di criteri per la definizione della retribuzione minima, la procedura lascia ampi margini di manovra per decisioni strettamente politiche. Il carattere discrezionale delle norme sul salario minimo consente infatti vibranti confronti e negoziazioni tra gli attori coinvolti, prevedendo un ruolo importante del dialogo sociale, ma può anche tradursi in azioni unilaterali da parte dei governi e nell’imposizione di scelte politiche compiute al di fuori dei processi di concertazione sociale.

In particolare, fino a tempi recenti, il salario minimo non ha rappresentato un tema centrale nella vita politica spagnola. Con pochissime eccezioni, tra il 1978 e il 2004 gli aumenti del salario minimo sono rimasti al di sotto dell’inflazione e l’impatto complessivo sulla distribuzione salariale è stato molto limitato. Nel 2004, il governo di centro-sinistra di Josè Luis Rodríguez Zapatero (PSOE) si è impegnato a rafforzare il salario minimo al fine di compensare la perdita di potere d’acquisto dei beneficiari, con l’obiettivo di raggiungere un livello corrispondente al 60% del salario medio nel 2012. In un contesto di forte crescita economica, il salario minimo è così aumentato da 460€/mese nel 2004 a 624€/mese nel 2009.

Gli effetti della crisi finanziaria ed economica globale hanno però interrotto questa tendenza. Dopo un tentativo fallito di rispondere alla crisi con politiche di stimolo economico di matrice neokeynesiana, la disoccupazione (al 18%) e il deficit pubblico (all’11%) sono esplosi nel 2009. Sotto la pressione dei mercati finanziari e dell’UE, il governo Zapatero ha perciò varato drastiche misure di austerità volte alla riduzione del deficit e alla stabilizzazione fiscale. In questo quadro, il salario minimo venne fissato a 633€/mese nel 2010 e a 641€/mese nel 2011, per una crescita complessiva parti al 2,8% in due anni, molto lontano dalla promessa di raggiungere gli 800€ nel 2012. L’inversione di rotta del governo sulla politica economica e salariale incontrò una forte opposizione nel paese, che si concretizzo anche in uno sciopero generale nel settembre 2010. Successivamente, a maggio 2011, il movimento sociale degli indignados fece irruzione nella politica spagnola, articolando una vibrante protesta contro le misure di austerità e la corruzione politica: “Violencia es cobrar 600 euros”, uno degli slogan più noti del movimento, faceva proprio riferimento al modesto livello del salario minimo legale.  

Dopo le elezioni anticipate del novembre 2011, il centrodestra tornò al governo contando sulla maggioranza assoluta del Partito Popolare (PP) in parlamento. Il primo governo Rajoy avviò un robusto processo di consolidamento fiscale tramite una serie di riforme strutturali orientate all’austerità. La politica del salario minimo diventò un tassello chiave nella strategia generale di rilancio della competitività del paese attraverso un processo di svalutazione interna delle retribuzioni. Per la prima volta nella storia democratica del paese il salario minimo fu congelato a 641,4 €/mese nel 2012, aumentando di solo il 0,6% nel 2013, per poi venire nuovamente congelato nel 2014. Complessivamente, il salario minimo aumentò soltanto del 3,4% tra il 2011 e il 2015, a fronte di un aumento dei prezzi di circa il 7%.

La svolta: ristrutturazione del sistema partitico e risposta alla domanda sociale

La perdita di potere d’acquisto del salario minimo e la subordinazione di questo alla strategia di svalutazione interna causarono un indebolimento senza precedenti della concertazione sociale. I sindacati avviarono quindi un’aggressiva mobilitazione contro la politica socioeconomica del governo, organizzando anche due scioperi generali nel marzo e nel novembre 2012. Nel mentre, a partire dal 2014, la Spagna entrò in un ciclo di instabilità politica la cui espressione più visibile fu la profonda trasformazione del sistema partitico, con l’emergere di due nuovi attori, Podemos e Ciudadanos, in competizione su diversi poli ideologici. Aumento della frammentazione politica e incremento della volatilità elettorale determinarono sia l’accelerazione dei cicli politici, sia la difficoltà nel garantire maggioranze parlamentari, nonché la formazione di governi più deboli. Dal 2015 al 2019, infatti, la Spagna ha registrato quattro elezioni generali: un’anomalia nel funzionamento del sistema politico spagnolo.

Su questo sfondo, sebbene la politica del salario minimo sia rimasta inizialmente inalterata – con la soglia minima che raggiunge soltanto i 655€/mese nel 2016 – due snodi testimoniano la nuova rilevanza del salario minimo già in questo ciclo politico.

Il primo corrisponde al fallito accordo tra PSOE e Ciudadanos per la formazione di un governo di coalizione dopo le elezioni del 2015. L’accordo prevedeva infatti un aumento del salario minimo pari all’1% che suscitò aspre critiche da parte della sinistra. Sia la sinistra che il PP votarono contro la formazione del governo, aprendo così le porte a una seconda tornata elettorale nel 2016 e alla successiva formazione di un governo PP-Ciudadanos. Appena insediatosi il nuovo governo, il gruppo parlamentare di Podemos presentò quindi una proposta di legge che prevedeva un aumento del 45% del salario minimo in tre anni per raggiungere i 950€/mese nel 2020. Dopo essere stata adottata con la sola opposizione del PP e l’astensione di Ciudadanos, la proposta venne però ripetutamente e definitivamente bloccata in Commissione. Quella nuova maggioranza parlamentare, tuttavia, inaugurò una logica competitiva sul salario minimo che si rivelò poi determinante per l’evoluzione futura dell’istituto.

Nel 2017, il miglioramento delle condizioni economiche consentì un rilassamento della politica economica e fiscale già sotto il secondo governo di Mariano Rajoy. Dopo sei anni di stagnazione, il salario minimo aumentò dell’8% nel 2017, raggiungendo i 707€/mese in un contesto di forte crescita della domanda interna e dei consumi. Questa misura fu il risultato di un accordo politico con l’opposizione socialista (PSOE), che aveva minacciato di non sostenere gli obiettivi sul deficit in assenza di un sostanziale aumento della retribuzione minima legale. A questa decisione seguì anche il tentativo di rilanciare la concertazione sociale. Nel dicembre 2017, il governo concluse un accordo con le parti sociali che stabilì un aumento del 4% del salario minimo per l’anno 2018 – raggiungendo così i 736€/mese – nonché ulteriori aumenti del 5% per il 2019 e del 10% per il 2020, portandolo a 850€/mese. Questo calendario era soggetto a due condizioni: che la crescita annuale del PIL fosse rimasta al di sopra del 2,5% e che gli assicurati al sistema di previdenza sociale aumentassero di 450.000 unità all’anno. Tuttavia, a causa dell’instabilità politica l’accordo rimase in vigore solo per pochi mesi e nel maggio 2018, a seguito di una serie di scandali di corruzione, il governo Rajoy fu sostituito da un governo di minoranza del PSOE con il sostegno parlamentare della sinistra e dei partiti baschi e catalani.

Dal consenso al conflitto, la dinamica variabile della competizione politica sul salario minimo

PSOE e Unidas Podemos disegnarono subito una nuova legge di bilancio che comprendeva uno storico aumento del 22% del salario minimo per l’anno 2019, portandolo a 900 €/mese. La misura incontrò l’opposizione del PP, delle associazioni imprenditoriali e della Banca Centrale, ma diventò un simbolo dell’inversione delle politiche incentrate sull’austerità. La base parlamentare del nuovo governo si rivelò però politicamente fragile. Dopo aver perso il sostegno degli indipendentisti catalani, Sanchez convocò nuove elezioni nell’aprile 2019, elezioni che vennero poi ripetute dopo soli tre mesi per l’impossibilità di formare una maggioranza parlamentare. In ottobre venne infine varato il primo governo di coalizione dal ritorno della Spagna alla democrazia: il PSOE si accordò infatti con UP, che ottenne cinque ministeri tra cui quello del Lavoro, responsabile del dialogo sociale e delle negoziazioni salariali. La nuova coalizione di sinistra trasformò il salario minimo in tema centrale dell’agenda politica, decretando ulteriori aumenti di oltre il 10% negli ultimi tre anni fino ai 1000€/mese odierni, in linea con l’obiettivo di raggiungere la soglia del 60% del reddito mediano (stimata tra i 1.011 e i 1.049) entro il 2024.

Le ultime negoziazioni sul salario minimo sono state però molto conflittuali. Nel 2021 e 2022 il governo ha raggiunto un accordo sulla politica salariale con i soli sindacati, interrompendo una serie di undici accordi sociali tripartiti dall’inizio della pandemia. Il PP e Ciudadanos hanno censurato la decisione del governo, mentre la destra nazionalista di Vox, ormai terzo gruppo parlamentare, si è opposta frontalmente e radicalmente.

In conclusione, nell’ultimo quindicennio la traiettoria politica del salario minimo in Spagna è segnata dalla cesura tra due fasi differenti. In seguito all’impatto economico della Grande Recessione, il salario minimo è aumentato soltanto del 3,4% dal 2010 al 2016 e, per la prima volta nella storia democratica recente, è stato persino congelato nel 2012 e 2014. Questo periodo fu caratterizzato da un’intensificazione del ruolo del governo, con frequenti interventi unilaterali, e una crisi acuta delle pratiche di dialogo sociale. Dal 2017, si può tuttavia osservare un netto cambiamento di tendenza. Il miglioramento delle condizioni economiche e la rivitalizzazione del dialogo sociale hanno avviato una curva ascendente per il salario minimo, che è proseguita fino ad oggi. Questa trasformazione ha suscitato un riallineamento dei principali attori politici, ma anche della configurazione degli interessi sociali nonché dei conseguenti incentivi in termini di competizione politica sul salario minimo, che hanno conferito a quest’ultimo una nuova centralità politica. Se la competizione sul tema è stata inizialmente convergente – con i principali partiti che si ricorrevano promettendo incrementi della retribuzione minima legale – a partire dal 2019 e man mano che il salario minimo si avvicina alla soglia simbolica del 60%, il confronto politico è divenuto decisamente più teso e polarizzato. In un contesto nel quale la spirale inflattiva legata alla guerra in Ucraina, la conseguente svalutazione del potere d’acquisto dei lavoratori e l’incertezza economica attribuiscono rinnovata importanza alla questione salariale, resta da vedere fino a che punto, e in che modo, la recente polarizzazione ideologica in materia ne determinerà l’evoluzione futura.