Una crisi annunciata: un sistema di welfare inadeguato a contrastare la non autosufficienza
Nel nostro paese i demografi prima e i sociologi poi avevano previsto da tempo il processo di invecchiamento della società e con esso le numerose problematiche che conseguentemente si sarebbero aperte per le politiche di welfare. I numeri dimostrano come uno degli effetti principali dei processi di longevità sia l’aumento assai rilevante di persone non autosufficienti: come affrontare il lavoro di cura rivolto a tali persone non è però mai entrato seriamente fino ad oggi nell’agenda del legislatore.
Nonostante un lungo ciclo di atti governativi, dall’istituzione del Fondo Nazionale per la Non Autosufficienza (2006) al Piano Nazionale per le Demenze (2014), dal Piano Nazionale per le Cronicità (2016) fino ai nuovi LEA (DPCM 12 gennaio 2017); e nonostante gli atti delle Regioni che hanno istituito fondi regionali per la Non Autosufficienza; l’Italia, come è noto, rimane l’unico grande paese europeo che non ha previsto una policy organica dedicata alla non autosufficienza. Si è invece ribadita nel tempo la scelta, che risale al 1980 (estesa agli anziani nel 1988), di trasferimenti monetari tramite l’Indennità di accompagnamento (Ida), cui tutti possono accedere, senza alcuna differenziazione rispetto alle condizioni economiche e alla gravità dei bisogni.
Agli atti approvati non sono seguiti fino ad oggi investimenti adeguati ed incrementi di spesa coerenti. Nel contempo il legislatore ha cercato a più riprese di ‘favorire’ il mercato privato della cura; quindi, le attività prestate dalle assistenti familiari presso le famiglie (le cosiddette ‘badanti’), tramite azioni volte a facilitarne la regolarizzazione giuridica e lavorativa.
I servizi di tipo domiciliare, volti a consentire il mantenimento della persona non autosufficiente nella propria abitazione, a titolarità del Comune e del SSN, non sono mai veramente decollati. Assolutamente carente, sotto un profilo quantitativo, e spesso anche qualitativo, rimane il ruolo ricoperto dalle Residenze Sanitarie Assistenziali (le ‘famose’ RSA). Domiciliarità e residenzialità trovano poi declinazioni assai diverse spostandosi dal Centro Nord al Mezzogiorno: il divario fra la gran parte delle regioni meridionali e il resto del paese assume aspetti inquietanti. La crisi pandemica ha enfatizzato ulteriormente tutte le criticità di questo comparto del welfare, assolutamente inadeguato ad affrontare le sfide vecchie e nuove poste dalla crescita della non autosufficienza.
Qualcosa si muove: istituzioni governative, parti sociali e Terzo settore
Di fronte a tale scenario, grazie soprattutto al Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (PNRR) che ha inserito la riforma delle politiche per la non autosufficienza tra gli atti da portare avanti obbligatoriamente, il policy making sta finalmente mostrando qualche segnale di reattività.
Si è partiti da una Commissione istituita presso il Ministero della Salute presieduta da Monsignor Paglia che ha elaborato un suo Piano. Il legislatore ha approvato a dicembre una legge delega per affrontare il tema della disabilità e ha inserito nella legge di bilancio per il 2022 la previsione di Livelli essenziali delle prestazioni assistenziali (LEPS) dedicati ai non autosufficienti. Il Ministero delle Politiche Sociali ha istituito nel 2021 una Commissione presieduta da Livia Turco, con il compito di preparare la riforma delle politiche verso la non autosufficienza. Questa seconda Commissione ha elaborato un progetto di legge consegnato nei mesi scorsi alla Presidenza del Consiglio dei Ministri. Da ultimo è stata istituita dalla Presidenza del Consiglio dei ministri una terza Commissione presieduta sempre da Monsignor Paglia con il compito di redigere il testo di una legge delega in materia da sottoporre al Parlamento. Al di fuori dei circuiti governativi e parlamentari occorre inoltre menzionare la proposta presentata a marzo dal “Patto per un nuovo welfare per la non autosufficienza”, elaborata da un largo gruppo di stakeholder che raggruppa gran parte delle organizzazioni della società civile coinvolte nell’assistenza agli anziani non autosufficienti, dalle associazioni che rappresentano gli anziani ed i pensionati, agli ordini professionali ed ai gestori dei servizi.
Al contempo, nel corso dell’ultimo quinquennio, il quadro delle politiche sociali ha conosciuto alcuni cambiamenti significativi. Il nostro sistema di welfare ha visto nascere, sia pure faticosamente, una politica di contrasto della povertà basata essenzialmente su trasferimenti monetari ai ‘poveri’, dal Reddito di Inclusione al Reddito di Cittadinanza. Non appare invece ancora sostanzialmente decollata un’efficace politica attiva del lavoro, incentrata su Centri per l’impiego rinnovati e rifondati, volta a facilitare l’accesso ad un’occupazione dignitosa di quanti ingrossano le fila dei lavoratori poveri, dei disoccupati, degli inoccupati, degli scoraggiati che non cercano più lavoro.
L’erogazione del Reddito di Cittadinanza, pur necessitando di aggiustamenti e ulteriori messe a punto, ha in ogni caso consentito di fornire a milioni di persone e famiglie un reddito minimo sulla base del quale costruire le proprie strategie. Ciò potrebbe aver attenuato per le famiglie in difficoltà o in povertà, che abbiano al loro interno uno o più casi di persone non autosufficienti, la sensazione che l’Indennità di accompagnamento rappresenti l’unico ‘aiuto’ pubblico disponibile, cui appare impossibile rinunciare.
Allo stesso tempo la crisi pandemica, esplosa nel nostro paese nel 2020 e tutt’ora in atto, sembrerebbe aver prodotto una nuova consapevolezza sui limiti, sopra richiamati, delle politiche rivolte alla non autosufficienza: dai servizi territoriali del tutto inadeguati alle vistose lacune nelle pratiche di alcune RSA (ovvero della filiera delle risposte che portano le RSA ad intervenire in condizioni di gravosità quasi sempre estreme, spesso per malati terminali, e con un ruolo di hospice “sotto mentite spoglie”) fino alle difficoltà dei ‘modelli di cura familiare’ basati sulla presenza delle ‘badanti’.
Si è in presenza allora di un rinnovato interesse verso le innovazioni da introdurre nel nostro sistema di welfare sul versante delle politiche per la non autosufficienza e per la disabilità. Le istituzioni governative sembrerebbero impegnate a varare riforme sulla base delle istruttorie e delle proposte messe in campo dalle Commissioni, così come dai network della società civile. Tuttavia il dibattito pubblico stenta a decollare, forse anche perché sovrastatato dai rumori della guerra.
La proposta della Fondazione Easy Care: la Dote di Cura
La Fondazione Easy Care ha rivolto da molto tempo la sua attenzione alla costruzione di una policy e di un modello di intervento per le non autosufficienze, arrivando alcuni anni fa a fissarne anche i principali presupposti, a partire dalla “trasformazione dell’erogazione monetaria dell’indennità di accompagnamento in accesso ad un pacchetto di servizi” (Fondazione Easy Care, 2016:32).
Il modello proposto si basava su:
“un mix fra programmazione pubblica e meccanismi di accreditamento, sussidiarietà , libera scelta dove ognuna delle componenti [avrebbe esaltato] le potenzialità delle altre e contribuito a definirne i confini….Mettere a disposizione servizi a sostegno del nucleo familiare , oltre a quelli direttamente indirizzati alla persona, [avrebbe ampliato] la capacità della famiglia di essere caregiver o le [avrebbe restituito] la possibilità di aumentare le risorse reddituali, liberando del tempo ai portatori di cura familiari in un combinato tra assistenza diretta ed indiretta”(Fondazione Easy Care, 2016:33/36).
Alcuni nodi da sciogliere venivano ben individuati: innanzitutto l’omogeneità dell’accesso, quindi la previsione di un unico metodo di valutazione della non autosufficienza, infine la definizione a livello nazionale dei Livelli Essenziali. Nell’ambito della prima criticità si sottolineava la necessità di riprendere le definizioni di non autosufficienza, invalidità e disabilità, in modo da evitare difficoltà di accesso e privazione di diritti. Affrontare le problematiche che contraddistinguono il metodo di valutazione avrebbe consentito di eliminare differenziazioni territoriali assolutamente inaccettabili. Infine, disporre finalmente di Livelli Essenziali delle Prestazioni da far valere in tutto il paese avrebbe consentito di dare una spinta formidabile all’espansione dei servizi, a partire dai luoghi più svantaggiati.
Recentemente la Fondazione Easy Care ha ritenuto opportuno approfondire la propria progettazione ed ha licenziato a metà marzo una proposta messa a punto dal proprio Comitato Scientifico1, incentrata sulla cosiddetta ‘Dote di Cura’ (DdC). L’idea di fondo è che occorra partire dalla modifica della Indennità di accompagnamento e che questa innovazione possa finalmente condurre ad uno ‘scatto in avanti’ nei servizi sociali, socioassistenziali e sanitari rivolti a contrastare la non autosufficienza. Più che dedicarsi alla costruzione di un nuovo sistema complessivo, senz’altro auspicabile in un prossimo futuro, e immaginare sin da ora la regolazione di un quadro che contenga tutti gli interventi, a titolarità statale, regionale e comunale, dell’INPS e del Servizio Sanitario Nazionale, che coinvolgano soggetti pubblici e privati, si è deciso di concentrare l’attenzione sulla possiblità di scegliere servizi al posto del trasferimento monetario. In questo caso:
- il valore economico dei servizi arriva a raddoppiare rispetto a quello della ‘vecchia’ indennità di accompagnamento;
- l’accesso alla DdC (e alla ‘vecchia’ Indennità di accompagnamento) rimane un diritto universale, senza quindi alcuna selettività basata sulle condizioni economiche della persona e della famiglia;
- si tratta di una ‘opzione’, e non certamente di una ‘scelta imposta’, verso un pacchetto di servizi al posto del sostegno economico;
- tale opzione è pensata come reversibile, nel caso in cui la persona interessata ritenesse opportuno ritornare alla Indennità;
- per la consapevolezza della delicatezza di tale prospettiva, si introduce la necessità di un approccio sperimentale, quindi valutabile, rispetto agli obiettivi proposti.
La DdC si propone quindi come un’opportunità per attivare innovazioni nel disegno, nella governance e nella gestione della offerta di servizi di qualità appropriati rispetto alla molteplicità di problemi da risolvere, attenti alla personalizzazione che necessariamente deve essere garantita, anche con il coinvolgimento attivo dei caregivers.
Sulla base degli studi e delle ricerche disponibili, da cui emergono evidenti le differenze dei ‘modelli di cura’, delle condizione/risorse socioeconomiche e culturali delle persone anziane/disabili, così come delle relative famiglie che se ne prendono carico, la DdC vuole essere uno strumento volto ad alleggerire e supportare il lavoro di cura. Il case management e il caregiving ne trarrebbero un immediato vantaggio e allo stesso tempo ne deriverebbe un rapporto relazionale positivo e una migliore qualità assistenziale per i propri congiunti.
Sulla base dell’esperienza della misura denominata Home Care Premium, si stabilisce che la gestione dell’intera DdC (ammontare dell’Ida più risorse aggiuntive) rimanga in capo all’Inps, in base ad una procedura che preveda:
- il ricevimento da parte dello Stato di una quota dei fondi comunitari a ciò dedicati;
- la costituzione della DdC unificata a favore del beneficiario;
- la gestione dell’Albo fornitori disponibile on line da cui il beneficiario potrà individuare l’operatore accreditato col quale definire il Piano Assistenziale Individualizzato (PAI)e avviare i servizi;
L’adozione della DdC comporterà inizialmente un incremento della spesa sociale, che a regime potrebbe essere controbilanciato dall’incremento delle entrate fiscali derivanti dall’aumento dell’occupazione nei servizi (con conseguenti versamenti di Irpef e dei contributi sociali e previdenziali), così come dalla uscita dall’economia sommersa di molte figure professionali, a partire dalle assistenti familiari (le badanti).
Per un approccio sperimentale al cambiamento
Consapevoli della portata del cambiamento determinato dalla DdC, della necessità di superare forti resistenze culturali, nonché della estrema variabilità dei contesti socioeconomici, viene infine proposta una sperimentazione almeno biennale, da svolgersi in Regioni campione, che coinvolga soggetti pubblici e soggetti privati.
Essa è finalizzata a verificare le condizioni di potenziamento e qualificazione dell’offerta sociosanitaria e socioassistenziale implicate nel modello DdC: servizi sottoposti ai sistemi di accreditamento regionali, di tipo residenziale, semiresidenziale e domiciliare, nonché di supporto ai caregivers formali e informali.
Scopi della sperimentazione2, in particolare, sono:
- verificare la fattibilità della ‘emersione’ di parti consistenti del mercato di lavoro di cura irregolare, trasformandone al contempo le caratteristiche dei soggetti, all’interno dello sviluppo di filiere dell’economia dei servizi di assistenza e cura;
- prevenire l’implosione del welfare familiare a causa del combinato disposto delle transizioni demografica ed epidemiologica, dei cambiamenti nei modelli familiari, della crescente difficoltà di conciliazione tempi di vita tempi di lavoro con pesante penalizzazione delle donne, della depatrimonializzazione di componenti significative della popolazione;
- rafforzare la capacità, l’efficacia e l’appropriatezza dell’intervento pubblico a fronte della crescente domanda di prestazioni, grazie a politiche e incentivi di natura promozionale che incrementino nella popolazione una cultura diffusa dell’investimento sociale, con particolare riferimento a quella più sollecitata ad agire in tal senso (caregiver, giovani anziani, ecc.);
- rafforzare anche la capacità, l’efficacia e l’appropriatezza del sistema di offerta accreditato, secondo standard avanzati per il rispetto della dignità, della autonomia e della relazionalità della persona per quanto concerne l’erogazione di servizi, ma anche guardando ad attività di informazione e sensibilizzazione riguardo all’utilizzo della dota di cura e più in generale alla conversione di risorse monetarie in servizi;
- ottimizzare la spesa effettivamente sostenuta dal sistema (trasferimenti pubblici, tax expenditures, spesa privata intermediata da forme assicurative collettive o private – sanitarie, previdenziali, di welfare aziendale, spesa privata out of pocket, valorizzazione del lavoro di cura informale, ecc.) individuando ‘effetti leva’ rispetto alla loro mobilitazione e forme di garanzia o “derisking” rispetto all’investimento sociale.
Al fine di massimizzarne gli apprendimenti, verrà fatta particolare attenzione sulla scelta dei territori oggetto della sperimentazione, privilegiando alcuni criteri:
- focalizzazione su aree “mediane”, cioè non riconducibili né a casi best in class, né ai territori più deprivati dal punto di vista socio economico;
- presenza di una dinamica positiva nell’offerta di servizi di cura, guardando ai tassi di crescita del numero e delle caratteristiche dei fornitori sia pubblici che privati;
- significativo ruolo del settore pubblico, non solo in termini di offerta ma soprattutto di capacità di governo del sistema di welfare su scala locale;
- consistenza dell’ecosistema dell’innovazione sociale, prendendo inconsiderazione la presenza di Enti del Terzo Settore (ETS), la regolazione dei rapporti fra ETS e pubbliche amministrazioni, le sperimentazioni per risposte a segmenti della domanda parzialmente o totalmente inevasa, ecc., così da favorire la “messa a terra” delle azioni sperimentali e la loro trasferibilità in termini di apprendimento.
Su queste basi si ipotizza che la sperimentazione sia operativamente strutturata su 3-5 regioni all’interno delle quali individuare 3 zone distrettuali diverse per caratteristiche demografiche, epidemiologiche e geomorfologiche, per un totale di 9-15 zone interessate ; sia poi oggetto di valutazione da parte di una Cabina di Regia, composta dai Ministeri della salute e delle politiche sociali, dalla Conferenza delle Regioni, dall’Inps, dall’ISS, dall’Agenas, dalle rappresentanze degli stakeholder (consumatori, erogatori), con il supporto di un Comitato scientifico.
Sulla base dei risultati ottenuti di esito e di impatto sarà infine validata e aggiornata per la messa a regime di una policy rinnovata, integrata del sistema di offerta nazionale e regionale, all’interno della programmazione nazionale e regionale già presente.
Verso un welfare dei servizi?
L’approccio sperimentale appare assolutamente indispensabile nel momento in cui si propone un deciso ‘cambio di passo’: un ulteriore gradino che, accanto alla recente adozione di politiche di reddito minimo volte a contrastare la povertà, (Jessoula-Natali,2020), alla introduzione dell’Assegno Unico Universale per le famiglie con figli, alla legiferazione in tema di disabilità, alla estensione universalistica degli ammortizzatori sociali e, da ultimo, all’approvazione del Family Act, possa contribuire a colmare le maggiori lacune del sistema italiano di protezione sociale.
Consapevoli delle rilevanti differenziazioni territoriali consolidatesi nel tempo, non si nasconde che l’obiettivo risulti particolarmente ambizioso: verificare la possibilità di contribuire, a partire da questo ambito di policy, alla transizione da un modello di welfare basato soprattutto sui trasferimenti ad un modello maggiormente orientato sui servizi.
Tutta la letteratura sociologica e politologica sui sistemi di welfare ha da tempo posto l’accento sulla particolare natura del ‘welfare sud europeo’, pur ravvisando non trascurabili differenziazioni fra i singoli paesi che vi sono compresi. Sicuramente una caratteristica che differenzia il sud Europa rispetto ai sistemi dell’Europa continentale ed a quelli nordici è la insufficente diffusione dei servizi: ciò riguarda l’istruzione come le politiche del lavoro, le politiche socio assistenziali come le politiche familiari.
È noto come il lavoro di cura necessario per affrontare una condizione di non autosufficienza vada ad incidere profondamente sulla qualità della vita del caregiver e dell’intero nucleo familiare coinvolto, con conseguenze assai pesanti soprattutto sulle figure femminili: solo un incremento poderoso di servizi domiciliari, semi residenziali e residenziali qualitativamente appropriati può consentire di conciliare il lavoro di cura con ‘libere’ scelte lavorative, professionali e familiari, evitando quindi forti penalizzazioni del caregiver. In alcuni territori del nostro paese, come è noto, l’offerta di servizi sociali e socioassistenziali risulta particolarmente carente; il welfare dei servizi è semplicemente ‘non pervenuto’.
Qualche timido segnale di cambiamento può essere ravvisato oggi nei capitoli del PNRR dedicati al welfare. In realtà il sentiero di crescita sino ad ora del nostro Welfare ha continuato a basarsi sui trasferimenti (Ascoli-Pavolini, 2015, Giorgi , 2022). In aggiunta a ciò negli ultimi anni abbiamo visto accentuarsi l’enfasi sulle politiche fiscali, sul ‘Welfare fiscale’, come lo aveva definito Richard Titmuss durante i ‘Trenta gloriosi’, con una conseguente ulteriore accentuazione delle disuguaglianze sociali (Pavolini-Jessoula, 2022). La sfida dei servizi rappresenta in molti casi ancora un inedito nel nostro paese (Pavolini, Sabatinelli, Vesan ,2021). Viviamo in un sistema che nella recente manovra di bilancio ha tagliato 7 miliardi di Irpef (soprattutto a favore dei ceti medi):
“i benefici sono massimi per i contribuenti con un reddito imponibile tra i 42.000 e i 54.000 euro (il beneficio non è mai inferiore a 500 euro) e tra i lavoratori dipendenti, il beneficio maggiore è per i dirigenti, seguiti dagli impiegati e dagli operai.” (Granaglia, 2022:150). Contemporaneamente sono stati stanziati appena 115 milioni per la riforma della non autosufficienza: “forse, anche chi è più beneficiato dalla modifica potrebbe preferire un aiuto serio per un genitore malato di Alzheimer piuttosto che alcune centinaia di euro in più all’anno (Granaglia, 2022: 151).
A partire dalla disponibilità dell’Indennità di accompagnamento, portare più famiglie possibili a preferire servizi pubblici e privati accreditati, piuttosto che continuare con ‘il-fai-da-te’ ed offrire, anche nei casi più gravi, un sostegno che sappia conciliare la dignità dell’assistito con la possibilità di non vedere sconvolta la vita quotidiana del caregiver: tutto ciò costituisce una sfida da affrontare con grande lucidità, in uno scenario per altro incerto e problematico, da ripensare in profondità.
Indubbiamente “il momento del rilancio e della resilienza post-pandemico offre nuove occasioni per portare avanti un ripensamento dei servizi di welfare che [tuttavia] ancora manca o che, comunque, è privo di una visione” (Pavolini-Sabatinelli e Vesan, 2021:231).
- Il Comitato Scientifico è composto da Ugo Ascoli, Massimo Campedelli, Fabio Diana e Flaviano Zandonai.
- La sperimentazione, dal punto di vista economico-finanziario, si basa sulle seguenti caratteristiche: a) conversione dell’erogazione monetaria della indennità di accompagnamento in servizi, lasciando naturalmente al soggetto libertà di scelta; b) incremento della quota complessivamente destinata alla persona (trasferimenti monetari e servizi) con risorse pubbliche aggiuntive provenienti da fondi comunitari; c) ulteriore eventuale integrazione con coperture aggiuntive provenienti dalla intermediazione assicurativa, di welfare aziendale/contrattuale e di altre risorse a cofinanziamento, ad esempio di natura filantropica; d) raddoppio del valore del trasferimento monetario convertito in servizi al fine di consentire il riconoscimento dei costi di sistema (fiscalità diretta e indiretta, contributi, ecc.) e riconoscere la rilevanza e complessità del bisogno di cura che si palesa con l’esercizio di tale opzione.
tenuto conto che stiamo parlando di malati cronici o di persone con disabilità da cui deriva la non autosufficienza e la dipendenza da altri per la soddisfazione delle funzioni vitali, in primo luogo credo che prima di “inventare” nuovi sistemi, si facesse funzionare il Servizio sanitario nazionale appieno. Ad esempio con la semplice previsione di una modifica dell’articolo 22 del dpcm del 12 gennaio 2017, inserendo l’obbligo di erogare un contributo/assegno di cura al malato cronico e/o persona con disabilità non autosufficiente per le prestazioni di cui necessita nelle cure quotidiane di lunga durata per 365 giorni all’anno. Un Lea, un diritto esigibile costituzionalmente garantito. Ci sono 2 proposte di legge in Senato e 2 alla CAmera. Cominciamo da lì.
Risponde l’autore:
Concordo senz’altro sulla necessità che il nostro “Servizio Sanitario Nazionale funzioni appieno” e che, conseguentemente, possa assicurare una risposta assai più efficace alle esigenze di quanti sperimentano una condizione di grave disabilità e/o di non autosufficienza. C’è ovviamente anche spazio perché il legislatore nazionale giunga a modificare le attuali normative in tale direzione. La nostra proposta, sommariamente richiamata nella mia nota, ha l’obiettivo di premere per una rivoluzione nel sistema dei servizi dedicati alla non autosufficienza, dalla domiciliarità alla residenzialità, senza richiedere cambiamenti complessivi dell’intero sistema di welfare. Agendo quindi (anche a legislazione invariata) sulla possibilità di scegliere servizi al posto del trasferimento monetario e mettendo a disposizione delle famiglie un pacchetto di risorse dal valore economico maggiore (noi abbiamo ipotizzato un raddoppio), si fornirebbe un grande impulso all’offerta di servizi pubblici e privati accreditati, così come alla loro riorganizzazione. Seppur operativa a legislazione invariata, la sperimentazione proposta servirà inoltre a valutare e adattare la eventuale riforma delle politiche rivolte alla non autosufficienza, promossa nell’ambito degli obiettivi del PNRR:
ciò dovrebbe comportare il rafforzamento del comparto socioassistenziale e di quello sociosanitario, anche rispetto a prestazioni sanitarie riorganizzate ed ampliate.
Il diritto alla cura rimane un diritto universalistico, garantito a tutte le persone che si trovano a vivere una condizione di non autosufficienza. Accanto alla sperimentazione, occorrerà infine promuovere un grande lavoro di informazione e sensibilizzazione della popolazione affinché ogni persona (ed ogni famiglia) possa scegliere il percorso di cura che risponde con maggiore efficacia ai propri bisogni .
BUON ARTICOLO.