In merito alle misure proposte a sostegno dei figli a carico

Parere sulla proposta di legge Del Rio, Lepri ed altri


Chiara Saraceno | 10 Ottobre 2019

L’obiettivo della proposta di legge, razionalizzare il frammentato sistema di trasferimenti legati alla presenza di figli per migliorarne l’efficacia e l’equità, anche al fine di un sostegno alle scelte di fecondità, è totalmente condivisibile. Le criticità e inefficienze dell’attuale situazione, sinteticamente riassunte nella nota di presentazione alla proposta di legge, sono state oggetto da tempo di analisi da parte di studiosi e di associazioni della società civile e vi è un consenso diffuso e trasversale sulla necessità di riforma.

Analogamente condivisibili sono in linea di principio i due strumenti individuati a questo scopo, l’assegno unico e la dote per l’utilizzo di servizi. Con il primo si aiutano le famiglie, tutte, non solo quelle appartenenti a determinate categorie, a fronteggiare il costo dei figli, riducendo il rischio che la scelta di avere un figlio (in più) produca forti squilibri nel bilancio familiare o addirittura causi la caduta in povertà.

È opportuno ricordare a questo proposito che l’Italia è uno dei paesi dell’Unione Europea con più forte incidenza della povertà minorile e dove sono particolarmente a rischio di povertà le famiglie con più figli. Con il secondo, il voucher servizi, si aiutano i genitori nei propri compiti di cura ed educativi, sia favorendo la conciliazione tra lavoro e famiglia, sia offrendo possibilità di confronto e consulenza, sia allargando i contesti e le relazioni educative per i bambini.

 

Le osservazioni e gli appunti critici che seguono vanno quindi collocati all’interno di questa condivisione di principio. Riguardano essenzialmente tre aspetti: a) i criteri di individuazione del reddito in base al quale modulare vuoi l’assegno, vuoi la dote, b) il range di servizi per cui può essere utilizzata la dote, c) la necessità di integrare questi due strumenti – assegno unico e dote – con un sostanzioso investimento in servizi educativi. Altre osservazioni riguardano le età dei figli considerate ai fini della erogazione rispettivamente dell’assegno e della dote.

Criteri di individuazione del reddito

Non entro qui nel dibattito se sia più opportuno avere misure uguali per tutti, a prescindere dal reddito o se, all’interno di una logica universalistica e non categoriale, sia più opportuno graduare il valore della misura (assegno e dote) in base al reddito della famiglia. Ci sono buone ragioni per sostenere sia l’una sia l’altra posizione, anche dal punto di vista dell’universalismo e dell’equità. Accettando la scelta dei proponenti di graduare le due misure in base al reddito familiare, in modo da renderle più corpose per i redditi più bassi accentuandone l’efficacia redistributiva, le mie osservazioni riguardano i criteri. Nello specifico:

  1. Non è chiaro perché si adottano due criteri diversi per le due misure: il reddito per l’assegno unico, l’ISEE per la dote. L’introduzione dell’ISEE per tutte le misure legate ad un test dei mezzi è stato un processo lungo e faticoso e non ancora compiuto. Non mi sembra il caso che in una stessa legge che si propone di razionalizzare l’esistente per arrivare a due sole misure che hanno a che fare con la stessa platea e con bisogni complementari si introduca di muovo una differenziazione nei criteri/strumenti di individuazione delle risorse disponibili.
  2. Ancora meno chiara, e francamente peculiare, è la scelta, nel caso dell’assegno unico, non solo di considerare solo il reddito e non l’ISEE, ma di considerare soltanto il reddito individuale più alto presente in famiglia. Ciò è in palese contrasto con ogni principio di equità. Una famiglia con un unico reddito, ad esempio, sarebbe penalizzata rispetto ad una famiglia con due redditi, entrambi inferiori all’unico reddito della prima, ma con una somma totale più alta. Inoltre, non c’è alcun riferimento all’ampiezza della famiglia, come se non facesse differenza il numero di persone che di quel reddito devono vivere.

 

Alla luce di queste considerazioni, mi sembrerebbe più opportuno fare riferimento all’ISEE per entrambe le misure o, in subordine, nel caso si ritenga per qualche ragione più opportuno considerare il solo reddito per l’erogazione dell’assegno, la parte reddituale dell’ISEE, che considera sia tutti i redditi, sia l’ampiezza della famiglia, con due avvertenze. La prima è che è opportuno considerare l’ISEE (o la sua parte reddituale) corrente e non quello basato su dati – di reddito e ricchezza – relativi ai due anni precedenti, che è uno degli aspetti critici  dell’ISEE più volte segnalato. La seconda è che nel definire la gradualità della diminuzione del beneficio al salire dell’ISEE, si eviti sia di creare scalini troppo ripidi (con aliquote implicite molto alte) sia di erogare agli scaglioni più alti cifre così irrisorie da non essere in alcun modo significative. Sono questioni da tenere presenti quando si tratterà di scrivere i decreti delegati.

 

Servizi per cui può essere usata la dote

All’art. 3, comma 1 , lettera a si dice ” a) istituzione di una dote unica per un ammontare fino a un massimo di 400 euro per dodici mensilità, per ogni figlio fino ai tre anni di età, utilizzabile per il pagamento di servizi per l’infanzia quali asili nido, micronidi, baby parking e personale direttamente incaricato”

A mio parere questa formulazione presenta due problemi.

  1. In primo luogo, ed è la questione più importante, il ventaglio di “servizi” per cui può essere la spesa è troppo ampio e generico, senza alcuna indicazione di criteri di qualità. Se l’obiettivo è il sostegno alla genitorialità e l’ampliamento delle possibilità educative dei bambini, sembra ragionevole indirizzare l’utilizzo di questa dote a questo scopo. Baby parking e babysitter, pur con eccezioni, difficilmente garantiscono sia possibilità di confronto e consulenza ai genitori sui propri compiti e problemi, sia opportunità educative ai bambini. È una questione cruciale alla luce dell’importanza che ormai tutti gli esperti – dai pediatri agli psicologi dell’età evolutiva – riconoscono ai primi tre anni di vita e in particolare ai primi mille giorni per lo sviluppo futuro dei bambini, sottolineando il ruolo cruciale che in questa prospettiva ha sia il lavoro con i genitori, sia la frequenza di un nido di qualità. Lo confermano anche i dati dei test PISA sulle competenze cognitive dei quindicenni: a parità di condizioni economiche famigliari svantaggiate, aver frequentato almeno un anno al nido riduce il rischio di non raggiungere le competenze di base di quell’età. Inoltre, questi studi mostrano che, se i servizi di buona qualità aiutano i bambini a crescere, quelli di non buona qualità non sortiscono tanto un effetto nullo quanto un effetto negativo: in altri termini, è meglio per un bambino rimanere affidato alle sole cure informali familiari piuttosto che frequentare un servizio di scarsa qualità educativa. Sarebbe, quindi, necessario restringere la possibilità di spendere la dote all’utilizzo di servizi per l’infanzia pubblici o privati appartenenti ad una rete di servizi certificati per la loro qualità, accreditati a livello locale ma sulla base di criteri condivisi a livello nazionale. Possono fare parte di questa rete anche i micronidi, i nidi aziendali, o le tagesmutter e simili presenti in alcune zone ove è difficile organizzare un nido, purché siano, appunto, certificate e supervisionate per la loro qualità educativa, e non operino come puri servizi custodialistici. Aggiungo che andrebbe esplicitato che la “dote”, pur subordinata nella sua entità all’ISEE, è indipendente dallo status occupazionale dei genitori, in particolare della madre. Anche una madre casalinga ha diritto a ricevere sostegno alla genitorialità e anche i figli di madre casalinga hanno diritto ad ampliare le proprie opportunità educative.
  2. La nota carenza di servizi per la prima infanzia, unita all’assenza del requisito della certificazione di qualità educativa, presenta il concreto rischio che la disponibilità di una dote, da un lato incentivi l’aumento di un’offerta di servizi di mercato poco o per nulla attenta alla qualità, dall’altro incoraggi l’aumento delle rette.

 

Necessità di integrare l’assegno unico e la dote servizi con l’investimento in servizi

Alla luce delle due osservazioni sopra formulate, mi sembra che, oltre a restringere l’utilizzo della dote a servizi certificati e accreditati, occorra anche prevedere all’interno di questa proposta di legge un investimento per aumentare l’offerta di questi servizi, a partire dall’offerta pubblica.

L’obiettivo di sostenere la genitorialità e le opportunità educative dei bambini, infatti, non può essere affrontato solo dal lato della domanda. Va affrontato anche dal lato dell’offerta. Gli ultimi dati di Save the Children segnalano che in Italia un bambino su dieci ha posto in un nido pubblico, con picchi negativi in alcune regioni, per lo più nel Mezzogiorno, dove solo il 2-3% dei bambini dagli zero ai tre anni ha accesso a un nido pubblico. La situazione è solo in parte compensata dai nidi privati (inclusi quelli aziendali) o convenzionati, stante che, secondo i dati di Openpolis, il livello di copertura complessivo in Italia è del 20%, che sale al 24% se si considerano anche le sezioni primavera nelle scuole per l’infanzia. La stragrande maggioranza dei bambini (e dei loro genitori) quindi, è esclusa da questo servizio, con effetti negativi non solo sulla opportunità delle madri di rimanere nel mercato del lavoro, ma sulle pari opportunità tra bambini. A ciò si aggiungano le enormi disparità regionali. Le regioni del Nord offrono un posto al nido ad un bambino ogni quattro, alcune regioni del Sud (con l’eccezione della Sardegna che si avvicina alle regioni del Nord) non riescono ad offrirlo neppure ad un bambino ogni dieci.

Occorre, quindi, sviluppare e prevedere nella legge un sostegno economico all’ampliamento dell’offerta di servizi di qualità per la prima infanzia.

 

Per quali età?

La questione si pone, ovviamente, diversamente nel caso dell’assegno unico e della dote servizi.

Per quanto riguarda l’assegno unico, si può valutare se limitarlo solo ai figli minorenni, eventualmente rendendolo più corposo, o ai maggiorenni fino a 24 anni, purché siano ancora in formazione. Nel caso dei figli disabili, occorrerebbe specificare “senza limiti di età”.

A margine osservo che la lettera d) comma 1 art 2 – “mantenimento degli importi in vigore per coniuge e altri famigliari a carico” – non è chiaro a quali importi si riferisca, al di fuori delle detrazioni fiscali e che queste ultime presentano il consueto svantaggio per gli incapienti, che non possono fruire di alcuna detrazione.

 

Per quanto riguarda la dote servizi, la sua estensione sino al compimento del quattordicesimo anno di età rivela l’implicita idea che si tratti di una misura “custodialistica”, destinata a baby sitter, visto che dai tre anni in su i bambini sono a scuola. Se l’obiettivo è sostenere la conciliazione lavoro-famiglia, meglio rafforzare il tempo pieno scolastico di qualità, che avrebbe il duplice effetto aggiuntivo di rafforzare le opportunità educative per i bambini e di creare posti di lavoro di qualità nel sistema scolastico. In alternativa, si potrebbe vincolarne l’uso alla partecipazione ad attività sportive, o di apprendimento della musica, o teatro, cioè ad attività extracurriculari la cui importanza per lo sviluppo dei bambini è stata individuata come molto importante e da cui spesso sono esclusi i bambini dei ceti economicamente più modesti. Ma, anche qui, potrebbe esserci un problema di offerta (e di accreditamento). Altrimenti, meglio concentrare le risorse sui bambini sotto i tre anni.


Commenti

Totalmente d’accordo… il problema di equità generato dal riferimento del reddito individuale più alto è stato segnalato anche nella recente audizione dell’Istat sulla proposta di legge…

ottimo articolo, totalmente condivisibile.
Aggiungo solo che “tempo pieno scolastico di qualità” e “attività extrascolastiche” (attività sportive, o di apprendimento della musica, o teatro) potrebbero non essere alternative se la struttura della scuola cambiasse e si aprisse al territorio. A questo punto, i bambini potrebbero sì stare in un’istituzione pubblica fino alle 16.30 ma non seduti per 8 ore dietro ai banchi. Bisognerebbe pensare il tempo-scuola pomeridiano come un contenitore di opportunità, integrato con il territorio, per cui i bambini potrebbero uscire a scuola per andare a basket o a nuoto, e la scuola potrebbe aprirsi alle realtà culturali ospitando corsi di musica e teatro.
Altrimenti costringiamo i bambini a fare tutte queste cose in orari tardi e con costi logistici tutti in capo alla famiglia.