La scuola dentro una stanza

Il diritto all’istruzione nel contesto sanitario


Giulia Maria Cavaletto | 5 Marzo 2024

Il posto della scuola fuori dalla scuola

Nella lista dei diritti dell’infanzia quello all’istruzione o allo studio è ribadito nelle sedi istituzionali nazionali ed internazionali: dalla Carta Costituzionale agli articoli 32 e 34, alla Convenzione sui diritti dell’infanzia e dell’adolescenza delle Nazioni Unite del 1989 (artt. 24, 28 e 29), ratificata dall’Italia nel 1991 con la L. 176. È da più parti sottolineato come un diritto universale di cui devono godere tutti i bambini indipendentemente da un eventuale stato di malattia. Ciò significa che anche durante una condizione di malattia i bambini ricoverati devono poter accedere alla scuola, in modalità, tempi e organizzazioni compatibili con la primaria esigenza della tutela della salute e dell’erogazione di cure. Nel corso del tempo, la nozione di salute è stata oggetto di una progressiva espansione, e dall’originaria accezione di assenza di malattia si è passati all’accezione onnicomprensiva di «stato di completo benessere fisico, mentale e sociale», come enunciato nel preambolo dell’atto costitutivo dell’Organizzazione mondiale della sanità (1948). Nello stesso modo, anche l’istruzione ha assunto via via un significato più ampio. All’interno delle strutture sanitarie, poi, si è gradualmente passati dalla accettazione della scuola come un servizio erogato in un luogo diverso da quello della scuola ordinaria, all’integrazione della scuola all’interno di un processo terapeutico, il cui obiettivo è restituire una condizione di salute al paziente e, con essa, le progettualità e gli orientamenti al futuro. Coerentemente con tali cambiamenti, all’interno degli ospedali pediatrici, non sono mancati importanti contributi a livello normativo: il primo è la “Carta europea dei bambini degenti in ospedale”, voluta dal Parlamento europeo con la Risoluzione n. C148/37 del 1986 e richiamata in Italia dal D.M. Sanità del 2000. Nel 1988 è stata elaborata da parte di un gruppo di associazioni di volontari in ospedale la Carta di Leiden, che a sua volta ha gettato le basi per la Carta dei Diritti dei Bambini in Ospedale, redatta dalla European Association for Children in Hospital (nota come Carta di EACH), diventata un vero e proprio riferimento a livello europeo (Crocetta, 2015). Ispirata da diversi articoli della Convenzione delle Nazioni Unite sui diritti del fanciullo del 1989, questa Carta valorizza e pone l’accento sulla dimensione globale della cura del bambino. Sebbene, quindi, la promozione e la tutela del diritto alla salute e del diritto all’istruzione possano apparire a tutta prima come aree distinte e indipendenti, si sta sempre più rafforzando la consapevolezza che i due ambiti intrattengano interazioni significative e essenziali, in particolar modo in alcune fasi dello sviluppo evolutivo e in particolari momenti di fragilità e vulnerabilità.

La Scuola in Ospedale presente in Italia rappresenta la forma più concreta di questo approccio al bambino in vista di obiettivi molteplici, sia rivolti al suo benessere, sia al recupero di una condizione di salute, sia alla presa in carico globale da parte di équipe multi professionali, di cui sono parte medici, infermieri, insegnanti, psicologi e mediatori culturali. La Scuola in Ospedale è attiva nel Paese fin dalla metà degli anni Ottanta, sebbene sia soltanto degli anni Duemila una sua sistematizzazione, passata attraverso il documento “Il servizio di istruzione domiciliare. Vademecum ad uso delle scuole di ogni ordine e grado”, e il successivo “Linee di Indirizzo Nazionali sulla Scuola in ospedale (SiO) e l’Istruzione domiciliare (ID)”, adottate mediante il Decreto Ministeriale n. 461 del 2019. Non soltanto con questi passaggi normativi si è data piena esecuzione a istruzione e salute come diritti fondamentali tutelati, ma si è riconosciuta la rilevanza di garantire il ben-essere al bambino, in cui convergono dimensioni fisiche, relazionali, cognitive e affettive. In Italia si contano 18 scuole-polo (non esistono scuole-polo in Valle d’Aosta e Trentino-Alto Adige, dove vige una disciplina separata) e 264 Sezioni Ospedaliere, in cui nell’anno scolastico 2022/2023 hanno potuto studiare 61.293 studenti, prevalentemente della Scuola dell’infanzia e primaria, con l’ausilio di 976 docenti.

All’interno del progetto PRIN “La partecipazione e la costruzione dell’identità dei bambini migranti nei sevizi educativo e sanitario1, attraverso un articolato complesso di tecniche, modulate sul tema di ricerca, sulla popolazione bersaglio (costituita da bambini e adolescenti) e sulla eccezionale contingenza determinata dalla pandemia Covid-19, è stata esplorata l’esperienza della Scuola in Ospedale, attraverso il punto di vista di bambini, genitori, personale sanitario, insegnanti, mediatori culturali in quattro grandi ospedali pediatrici italiani (Regina Margherita di Torino; Cesare Arrigo di Alessandria, Giannina Gaslini di Genova; Meyer di Firenze). I bambini in condizione di malattia grave e a cui è associato un ricovero ospedaliero lungo e impegnativo sul piano terapeutico costituiscono un esempio particolarmente calzante rispetto alla esigibilità del diritto all’istruzione. Per questi bambini la salvaguardia dell’accesso all’istruzione e alla relazione con gli insegnanti può segnare la differenza tra essere malato ed essere un malato. La malattia, infatti, rappresenta uno sconvolgimento della quotidianità, fatta di spazi, orari, relazioni. In essa, la garanzia del diritto all’istruzione rappresenta una continuità con il mondo vitale del bambino, e ciò è reso possibile dalla Scuola in Ospedale, che offre ai bambini ricoverati la possibilità di continuare a svolgere tutte quelle attività che sono parte costitutiva della loro identità e consentono il pieno dispiegamento del loro potenziale (Bosisio e Cornali 2021). L’irrompere di una condizione simile nella biografia di una persona di minore età è particolarmente impattante perché, oltre ad immetterla in un percorso sanitario totalizzante, la priva di una delle principali esperienze tipiche dell’età: l’andare a scuola. È noto che la scuola rappresenta per bambini e adolescenti ben più di un obbligo connesso agli apprendimenti, allo sviluppo di conoscenze e competenze. È, infatti, parte integrante dell’esperienza scolastica sviluppare la socialità tra pari, acquisire regole, interagire con figure adulte diverse dai propri genitori, progredire in un processo di definizione identitaria e di crescita, acquisire informazioni e strumenti per decidere in merito al proprio futuro. La scuola riempie porzioni così ampie della vita dei bambini e degli adolescenti, al punto tale che la privazione di essa comporta un disequilibrio significativo nel processo di sviluppo.

Quando la malattia ha caratteri di severità e necessita di lunghi periodi di ricovero o di terapie impattanti, la scuola viene necessariamente sospesa. La categoria del “distacco” è quella che meglio riassume questo delicato momento. Distacco dalla propria famiglia, in particolare da almeno un genitore (in genere ad uno soltanto è consentito restare con il bambino all’interno della struttura sanitaria), e da fratelli e sorelle, nonni, altri componenti della famiglia allargata (Cavaletto, 2021). Ma anche distacco dalla scuola, dalla propria classe, dai propri amici, perfino dai propri oggetti tipici dell’andare a scuola come la cartella e i libri. Questo distacco generalizzato, sia in senso fisico, sia emotivo, acuisce il trauma e la percezione della malattia come un vero turning point nella propria biografia. L’impatto si estende a tutti i componenti della famiglia a diversi livelli: emotivo, in quanto la diagnosi di malattia grave costituisce un evento che scatena spesso la sindrome della “maternità ferita”, con la conseguente idea persistente della responsabilità genitoriale (o di uno dei genitori) per aver generato un figlio malato; organizzativo, in quanto per almeno un genitore si tratta di trasferirsi all’interno della struttura ospedaliera, abbandonando la propria casa ed eventuali altri figli, i fratelli del bambino o adolescente malato, in un alternarsi tra sensi di colpa, esasperazione del senso del dovere, al capezzale del malato, rinunciando momentaneamente o definitivamente ad una occupazione, delegando il proprio ruolo genitoriale ad altre figure all’interno della famiglia estesa; logistico, legato spesso all’esigenza di trasferimento in un ospedale pediatrico specializzato, con un aggravio di costi economici, solo in parte attutiti dalla presenza di associazioni e enti del terzo settore operanti come strutture di sollievo e supporto per l’accoglienza e la lungo degenza.

Fare scuola dentro l’ospedale: esperienze di ricerca sul campo

La scuola ospedaliera prende forma in un ambiente molto diverso da quello in cui tradizionalmente si svolgono le attività educative, si colloca in subordine alle cure sanitarie che costituiscono la priorità per il bambino ricoverato e in un rapporto uno a uno tra docente e allievo-paziente.

La struttura ospedaliera è infatti una organizzazione complessa, nella quale “fare posto” ad altro che non sia strettamente appartenente alla categoria del “sanitario” non è semplice, tanto più quando nel contesto ospedaliero coesistono figure professionali diverse, ognuna delle quali non soltanto assolve ad un compito, ma cerca una interazione e un coordinamento con le altre, non sempre agevolmente. Ogni contesto sanitario pediatrico è poi a sé stante, e di conseguenza può rendere questo complesso di relazioni interprofessionali più o meno efficace, il che genera ricadute significative sia sul riconoscimento della scuola all’interno delle strutture sanitarie, sia sul riconoscimento dell’insegnante come detentore di un sapere esperto autonomo e distinto rispetto a quello del personale medico. La tensione tra ruoli sanitari e i ruoli educativi è legata alla diversa considerazione dell’istituzione della SiO come una inevitabile prescrizione normativa o come un’effettiva risorsa complementare nei percorsi di cura. Nella eterogeneità delle situazioni organizzative, un elemento comune va individuato sempre e comunque, in forme e con contenuti diversi, nella mediazione del personale sanitario che pone i docenti in una condizione di soggezione e limitata autonomia. In tutti i contesti gli insegnanti, pienamente consapevoli di ciò, ribadiscono la necessità di entrare in punta di piedi nelle stanze e nei reparti, con la cautela dovuta alla situazione dei degenti, e nella consapevolezza degli insegnanti di essere “ospiti” all’interno di una struttura sanitaria.

Svolgere quindi il proprio ruolo professionale al di fuori dei luoghi tradizionalmente previsti modifica profondamente i rituali dell’interazione con altri attori sociali e richiede una rimodulazione del proprio agire professionale (Capurso 2014). Il caso della SiO è emblematico: i docenti ospedalieri devono crearsi il proprio posto e farlo riconoscere alle altre figure professionali, in uno spazio che non è stato predisposto per il “fare scuola”. Il docente ospedaliero risulta incardinato in una scuola territoriale, che ha sezioni ospedaliere. In genere questi insegnanti sono a cattedra completa all’interno della struttura ospedaliera. Lo svolgimento della professione all’interno delle sezioni ospedaliere è sempre l’esito di una scelta del docente, o di una proposta formulata dal dirigente e positivamente accolta dal docente. È fondamentale che il docente ospedaliero non si senta “assegnato” a quella sezione ma abbia la spinta motivazionale, le capacità e la sensibilità adeguate per affrontare un modo di fare scuola molto diverso da quello ordinario. Inoltre i docenti ospedalieri non ricevono una formazione ad hoc, entrano semplicemente nelle strutture pediatriche all’interno delle quali ricevono un affiancamento e sostegno dai colleghi senior, secondo un approccio peer to peer. L’eventuale formazione certificata è peraltro anche di difficile realizzazione, in quanto sono poche le iniziative specifiche sul tema. Sono attivi negli anni più recenti alcuni Master attivati presso università italiane su istruzione ospedaliera e domiciliare, la cui frequenza è tuttavia opzionale e demandata all’iniziativa dei singoli docenti.

C’è poi un ampio spazio, nella definizione del ruolo di docente all’interno delle strutture sanitarie, riservato alla relazione con le scuole territoriali, sia quelle a cui gli insegnanti stessi appartengono, sia a quelle degli alunni-pazienti che incontrano. La SiO costruisce quindi il suo posto non solo in relazione alle figure professionali che operano in ospedale, ma anche in relazione ai docenti e dirigenti che si trovano fuori dall’ospedale. La SiO assume infatti i connotati di una sezione specifica di una o più scuole polo presenti sui territori regionali. A loro volta i bambini che vengono ricoverati nelle strutture ospedaliere hanno una scuola di appartenenza: una scuola in cui sono stati fino dell’emergere della necessità di ricovero, ma che non cessa di essere la loro scuola. La scuola ospedaliera non annulla quindi la scuola territoriale, ma la sostituisce temporaneamente, in questa parentesi di scuola fuori da scuola. E questo ruolo, di sfondo, della scuola territoriale, influisce sul docente ospedaliero, che si definisce e rafforza pienamente nel momento in cui ottiene il riconoscimento e la collaborazione da parte dei colleghi della scuola di territorio. Il docente ospedaliero può costruire un legame con la scuola territoriale non solo attraverso il contatto con i colleghi, ma anche attraverso il mantenimento della relazione del bambino ricoverato con i suoi insegnanti e compagni. La scuola con i suoi insegnanti dentro l’ospedale diventa anche una componente fondamentale della vita delle famiglie: restituisce aspetti comuni della vita in condizioni di salute, lascia intravedere momenti di relazione non medicalizzata, scandisce momenti della giornata all’interno della stanza che per molto tempo si trasforma nell’unico spazio consentito.

In questo percorso di definizione identitaria di una “scuola fuori posto” si alternano quindi elementi che rappresentano una risorsa o viceversa un ostacolo in tale processo. La SiO, proprio in quanto è una scuola diversa, si legittima attraverso una fitta trama di relazioni cucite in un doppio movimento: è essa stessa, attraverso i suoi insegnanti, che agisce costruendo la sua identità, e sono gli attori sociali che interagiscono con essa a riconoscerla e garantirle un posto, non soltanto formale ma sostanziale.

  1. Il progetto è stato coordinato presso l’Università di Torino da Roberta Bosisio; hanno fatto parte del team di ricerca, oltre a chi scrive, Federica Cornali, Giulia Storato, Manuela Olagnero.