Le case dei poveri. È ancora possibile pensare un welfare abitativo?

Intervista ad Antonio Tosi


A cura di Costanzo Ranci | 6 Marzo 2018

Un libro magari scomodo, ma che descrive con grande lucidità e chiarezza i limiti delle politiche abitative rivolte ai soggetti più deboli, a chi non ha alloggio ed è spesso escluso dalle politiche che intendono facilitare o promuovere l’accesso alla casa, oppure intendono fornirla direttamente. Si tratta del volume di Antonio Tosi, Le case dei poveri. È ancora possibile pensare un welfare abitativo?, pubblicato da Mimesis. Il volume verrà presentato il prossimo 13 marzo alle 16.30 presso l’Aula Gamma del Politecnico di Milano, in Via Ampère 2. Antonio Tosi è stato docente di Sociologia Urbana al Politecnico di Milano ed è tra i principali esperti nazionali di esclusione abitativa e politiche abitative sociali. Lo abbiamo intervistato per farci raccontare dalla sua viva voce i contenuti fondamentali del suo libro-provocazione.  

Professor Tosi, quale è la tesi fondamentale del suo volume?

Le politiche abitative sociali, sia in Europa che in Italia, sono poco sociali: è un dato che ha accompagnato l’intera storia delle politiche. Con questo termine intendo dire che hanno privilegiato sistematicamente i settori intermedi (medi e medio-bassi) della domanda abitativa ignorando le esigenze dei soggetti più poveri o di quelli in condizioni di marginalità socio-abitativa. In secondo luogo sono poco sociali perché, quando si sono rivolte alla povertà estrema, hanno finito per offrire soluzioni abitative inadeguate e improprie, come i centri di accoglienza o le residenze sociali, oppure l’accesso a rifugi temporanei. Hanno così condannato gli esclusi dalla casa ad una condizione di marginalità cronica, caratterizzata dall’impossibilità di accedere ad una soluzione abitativa permanente. L’approccio “estensivo”, e l’insistenza sulle misure intese a facilitare l’accesso alla casa (spesso in proprietà) per gli strati intermedi, hanno finito per rendere sempre più marginali e povere le politiche rivolte alle situazioni di povertà o di esclusione socio-abitativa. Oggi queste le politiche contribuiscono a creare, rafforzando le dinamiche della marginalizzazione provocate dagli attuali processi di impoverimento, un nucleo duro di marginalità estrema: situazioni di esclusione socio-abitativa di lunga durata o permanenti, che interessano soggetti apparentemente irrecuperabili. Il volume intende sottolineare che queste situazioni non sono irrecuperabili in sé, ma lo diventano a causa del mal-trattamento offerto loro dalle politiche vigenti.  

Esiste secondo lei un approccio diverso?

L’esperienza di un secolo di politiche sociali abitative mostra che per i poveri le politiche generaliste, rivolte ad una pluralità di esigenze abitative (come la defiscalizzazione dei costi abitativi, oppure la concessione di sussidi per l’acquisto della casa, ed oggi il cosiddetto “housing  sociale”), possono non funzionare e finiscono inesorabilmente per discriminare i più deboli. Per i poveri, in particolare per le situazioni di maggiore disagio o di marginalità socio-abitativa, è necessario uno sforzo supplementare, disegnato sulle loro esigenze specifiche. Si tratta da un lato di riadattare le politiche generaliste, indirizzandole verso target sociali più precisi, assegnando una priorità chiara ai soggetti più deboli. Dall’altro si tratta di sviluppare nuove misure ad hoc, rivolte specificamente ai più poveri. Questa ricerca di politiche “più sociali” apre però una serie di problemi. Come nelle vecchie politiche assistenziali, adattamenti e politiche ad hoc sono esposti al rischio di riduttività: rischiano di essere soluzioni minori, prive di adeguato valore abitativo. Occorre allora trovare i criteri perché queste misure siano accettabili. La tesi che sostengo è che misure ad hoc – anche sistemazioni temporanee o che si scostino dalle forme ordinarie – siano accettabili e positivamente integrabili nel welfare abitativo. Le condizioni sono che esse si aggiungano e rafforzino, non sostituiscano, le politiche generali; e consentano di costruire vere esperienze abitative, di realizzare cioè quei principi che nelle nostre società costituiscono l’abitare come valore: un alloggio di qualità adeguata; sicurezza abitativa; forme che consentano di realizzare valori come domesticità, privacy, comfort, socialità.   L’esperienza europea di questi decenni conferma che questo tipo di politiche è possibile, mostrando quali sono le condizioni che le rendono plausibili. Un esempio sono le “strategie integrate contro la homelessness” che diversi paesi europei hanno avviato con l’obiettivo non più semplicemente di gestire la homelessness, quanto di ridurla gradualmente e, sul medio-lungo periodo, eliminarla. Altri esempi: gli approcci in termini di diritti nelle diverse versioni (tra cui l’istituzione di un diritto esigibile, come in Francia dal 2007); la costruzione, per le persone con redditi molto bassi o con difficoltà di integrazione, di un settore abitativo ‘molto sociale’, che componga offerta abitativa e misure di accompagnamento sociale. I risultati parzialmente positivi raggiunti da queste politiche indicano strade nuove da percorrere anche nel nostro paese.  

Quali sono i problemi che ostacolano lo sviluppo di queste politiche?

Innanzitutto il forte deficit di finanziamento pubblico e di legittimazione di cui soffrono. Senza forti investimenti economici e un chiaro impegno politico non sono perseguibili in una misura significativa e con sufficiente continuità. Vi sono tuttavia anche ostacoli che vengono dall’impianto delle politiche. Negli ultimi anni è prevalso un approccio fondato sul principio dell’inserimento attivo, sulla base dell’idea che l’uscita all’esclusione richieda un’attivazione diretta dei soggetti e che l’inserimento sia un problema tecnico relativamente “semplice”. In realtà accade molto spesso che le soluzioni abitative previste siano temporanee, e che l’idea di inserimento graduale di fatto non dia luogo, per i soggetti più fragili, alla possibilità di accedere ad un alloggio adeguato e stabile. Si creano così circuiti cronici della marginalità, costituiti da soluzioni alloggiative sempre temporanee e inadeguate, che in realtà finiscono per negare che una soluzione definitiva sia possibile. Il vizio consiste nel negare di fatto, e spesso anche sul piano legale, che questi soggetti abbiano comunque un diritto alla casa. Oggi le difficoltà di queste politiche mirate derivano da due ragioni: la comparsa di nuove forme, anche estreme, di povertà abitativa; e la natura delle misure sociali adottate. L’‘incontro’ tra la grande povertà abitativa e le politiche sociali neoliberali può dar luogo al formarsi di nuclei particolarmente problematici, che rischiano una esclusione di lunga durata, o anche definitiva. Vale la pena insistere sul ruolo delle politiche. Contrariamente a quanto suppone l’ideologia dell’inserimento, la transizione da una sistemazione temporanea o assistita ad una ‘normale’, è difficile. L’inserimento può non avvenire anche perché le politiche selezionano tra i potenziali destinatari: al punto che le condizioni di svantaggio dure possono sfuggire alle misure previste. Le popolazioni vulnerabili ricevono trattamenti differenti e  hanno differenti probabilità di accedere alle misure propriamente abitative:  la parte più debole può essere programmaticamente abbandonata dalle politiche abitative e consegnata al livello più basso del trattamento socio-assistenziale.  

Quali indicazioni provengono dal suo libro?

Il volume vuole essere innanzitutto un richiamo a sviluppare politiche abitative che siano mirate a risolvere i problemi dei soggetti che sperimentano una condizione di esclusione e disagio estremo. Spesso le scarse risorse aggiuntive vengono oggi investite nel sostenere l’accesso alla casa di soggetti che non versano in condizioni di forte bisogno e finiscono per  privilegiare situazioni critiche intermedie. Il problema è che queste politiche, come ad esempio quelle di housing sociale, finiscono per sottrarre risorse e legittimazione a quelle rivolte agli ultimi. Un ri-orientamento dovrebbe essere ispirato a tre principi:

  • cambiare le priorità all’interno delle misure generali (compresa l’edilizia sociale), rendendole più accessibile ai soggetti della povertà estrema (che sono troppo spesso esclusi da queste politiche);
  • prevedere automatismi e garanzie per il diritto alla casa per gli esclusi, introducendo dei livelli essenziali che consentano a chi è senza alloggio di poter pretendere una soluzione;
  • investire in politiche abitative sociali ad hoc, rivolte specificamente ai soggetti più deboli, convertendo lo sforzo finanziario e politico verso il disegno e la realizzazione di soluzioni abitative permanenti per i più deboli. Naturalmente a questo punto nascono tutti i legittimi (e ovvi) interrogativi circa la plausibilità, la fattibilità, la probabilità di questo ri-orientamento.