Le politiche per la gestione della cronicità e i bisogni delle persone non autosufficienti

È davvero cambiato qualcosa?


Laura Pelliccia | 12 Febbraio 2021

Questo articolo è stato pubblicato anche su LombardiaSociale.it

 

Uno dei più importanti cambiamenti nelle politiche sanitarie degli ultimi anni è consistito nell’orientamento verso modelli per la gestione del paziente cronico.

Dal momento che la cronicità viene universalmente considerata il “bisogno emergente” del nuovo secolo e il principale fattore di assorbimento delle risorse, le istituzioni internazionali hanno raccomandato l’adozione di modelli organizzativi che mettessero al centro delle risposte assistenziali questo fattore, superando gli storici approcci centrati invece sulla gestione degli episodi di acuzie.

Parole quali “population health management”, “stratificazione”, “PAI”, “piramidi della cronicità” sono divenute le best practices delle politiche sanitarie.

Nel nostro Paese questi modelli sono originariamente stati oggetto di sperimentazioni locali1, per poi divenire il cuore di un Piano Nazionale del Ministero della Salute che ne ha promosso la diffusione in tutte le regioni.

Uno studio2 condotto nell’ambito del recente rapporto del Network Non Autosufficienza ha esplorato i processi applicativi implementati dalle regioni in tale ambito, focalizzandosi sugli impatti per le persone non autosufficienti. Proviamo a ripercorrere le tappe di questa analisi.

Va precisato che le valutazioni risalgono all’epoca ante Covid; una rilettura alla luce degli effetti della pandemia non può che rafforzare quanto argomentato.

 

La questione centrale: cronicità è sinonimo di non autosufficienza?

Prima di procedere con la lettura dei risultati è necessaria una premessa. L’interesse per la cronicità viene spesso invocato nel dibattito pubblico quale intervento a favore della Long Term Care, utilizzando, senza precisarne le differenze, termini quali cronici/fragili/anziani/non autosufficienti come sinonimi. Tuttavia, ognuna di queste condizioni ha una differente definizione non esattamente sovrapponibile:

 

Cronici/Chronic Care

(Fonte: OMS, 2015)

“problemi di salute che richiedono un trattamento continuo durante un periodo di tempo da anni a decadi”

“l’assistenza sanitaria dedicata ai bisogni delle persone con malattie preesistenti o di lungo termine”

Long Term Care

(Fonte: OCSE)

insieme di servizi sanitari, sociosanitari e sociali forniti a persone in una condizione di dipendenza di lungo periodo con molteplici scopi, i cui principali sono:

·         ridurre o gestire il deterioramento dello stato di salute e alleviare il dolore;

·         sostenerli nelle attività di base della vita quotidiana (le funzioni ADL);

·         promuovere la possibilità di vivere in modo indipendente (le funzioni IADL)”;

 

 

Le istituzioni internazionali hanno inoltre raccomandato che le politiche “people centred”:

  • consentano l’integrazione tra servizi sanitari e servizi di LTC, che i servizi domiciliari diventino parte del PAI (OMS, 2015);
  • facciano dell’integrazione tra le politiche sanitarie e quelle sociali un pilastro delle nuove strategie, nella prospettiva di considerare i bisogni multidimensionali della persona (King’s Fund, 2019).

La ricerca ha cercato di cogliere queste sfumature: l’avvento dei nuovi modelli per la cronicità è stato considerato il fenomeno di cui sono stati monitorati gli effetti sui bisogni delle persone non autosufficienti.

 

Cosa ha significato l’avvento del Piano Nazionale Cronicità?

Il Piano Nazionale Cronicità di fine 2016 ha inteso incoraggiare le regioni ad adottare le logiche dei modelli di Chronic Care, auspicando la costruzione di alcuni passaggi essenziali, quali:

  • stratificazione e targeting della popolazione
  • interventi di prevenzione sugli stili di vita e interventi per favorire le diagnosi precoci;
  • piano di cura personalizzato e patto di cura
  • valutazione della qualità delle cure erogate (orientamento all’outcome)

impegnandosi a monitorarne l’applicazione attraverso appositi sistemi di indicatori.

Il Piano, nelle intenzioni, sembra promuovere la necessità di rafforzare l’integrazione sociosanitaria, incoraggiando le Regioni a considerare la variabile “disabilità/non autosufficienza” nella costruzione del proprio modello di stratificazione dei bisogni3.

Tuttavia, queste raccomandazioni non sono state accompagnate da veri e propri strumenti operativi, lasciando alla sensibilità delle regioni l’effettiva responsabilità dell’applicazione.

Il cuore del piano è rappresentato da approfondimenti su alcuni Percorsi Diagnostico Terapeutici Assistenziali (PTDA)4, aspetto che sembra riduttivo rispetto alle logiche auspicate dai modelli internazionali di agire, non sulle singole patologie ma, in chiave olistica, sulle esigenze a 360° della persona.

Il Piano ha riservato attenzioni particolari ad alcuni target (es. l’età evolutiva), senza altrettanti riferimenti ad altre situazioni, quali ad esempio quelle degli anziani.

Nei tre successivi anni dal livello centrale non sono seguiti provvedimenti attuativi del Piano e non risultano disponibili ricognizioni istituzionali sull’attività delle regioni. Allo stesso tempo, sono mancati elementi di raccordo tra questo piano e altri processi in corso a livello nazionale (ad esempio il Piano Demenze, Piano Non Autosufficienza, Piano Nazionale Esiti), insomma è rimasto un percorso separato dal resto della programmazione.

 

L’applicazione del Piano nelle regioni

Come anticipato, la responsabilità dell’effettiva applicazione delle raccomandazioni del Piano è stata demandata alla sensibilità delle regioni, per di più, in assenza di banche dati nazionali di raccolta di informazioni omogenee sul tema. Per questo, per verificare il livello di incisività di queste politiche, è stata realizzata un’analisi su questo livello di governo, con degli affondi sulle esigenze delle persone non autosufficienti.

A causa della già citata carenze di sistemi informativi, non è stato possibile effettuare analisi quantitative, bensì solo ricognizioni qualitative dei processi in corso. Nello specifico, sono state effettuate interviste a testimoni privilegiati di un campione di realtà locali, accompagnate da una ricognizione della normativa e delle pubblicazioni istituzionali di fonte regionale.

 

Una breve panoramica sullo stato di generale attuazione può aiutare a inquadrare le questioni più specifiche: diverse regioni a fine 2019 si erano limitate ad un puro recepimento formale del Piano Nazionale (es. Marche) oppure avevano adottato le nuove logiche solo su alcuni progetti pilota locali (Friuli Venezia Giulia); in altre regioni (es. Toscana) la cronicità è stata oggetto di particolari studi epidemiologici, ma non sono ancora state adottate esplicite iniziative di modifica ai modelli organizzativo/gestionali per recepire il Piano Nazionale.

In altri casi sono stati attivati dei processi di recepimento su base regionale che tuttavia sono consistiti nella promozione dei PTDA per alcune patologie, senza ancora arrivare allo stadio di coinvolgimento dell’intera popolazione (es. Liguria e Puglia). In Lombardia, è stato avviato un processo di stratificazione dell’intera popolazione che ha portato a selezionare i livelli di maggiore cronicità ai quali sono stati riservati nuovi percorsi assistenziali specifici; tale processo ha interessato anche gli accordi con i MMG.

A fronte di questi diversi stadi evolutivi del fenomeno “cronicità”, sono state mappate alcune specifiche fasi dei processi assistenziali, per capire, regione per regione, gli effetti del percorso cronicità sulle specifiche esigenze delle persone non autosufficienti. Di seguito si sintetizzano i risultati di tale mappatura.

 

Come è cambiata la capacità di valutare i bisogni assistenziali?

Il pilastro dei nuovi modelli organizzativi dovrebbe essere la stratificazione della popolazione, in modo da individuare gruppi con bisogni omogenei, assegnando loro un livello di intensità relativa rispetto agli altri; la collocazione in un certo gruppo è funzionale a definire il livello di risposte specifiche da assicurare ad ogni soggetto.

Ci si è domandati se questi algoritmi, oltre a considerare le condizioni cliniche, tenessero conto dei diversi livelli di autonomia del soggetto: se, a parità di altre condizioni epidemiologiche, le persone con ridotta autonomia hanno un diverso fabbisogno, gli algoritmi riescono a rappresentarlo?

Al momento – se escludiamo alcuni esperienze regionali che hanno avuto mero rilievo di studio, senza ancora essere recepite in ambito operativo – nessuna regione ha di fatto considerato queste specifiche variabili5. Le previsioni dei fabbisogni dei vari gruppi di popolazione sono state realizzate con algoritmi che hanno tenuto conto dei consumi di servizi sanitari (ricoveri, farmaci, assistenza specialistica ambulatoriale), non considerando altri servizi quali quelli sociosanitari domiciliari, diurni, residenziali.

Le uniche informazioni alimentate per rappresentare il profilo epidemiologico di ogni assistito sono state le patologie tracciate nei sistemi regionali per le esenzioni dei ticket.

 

Com’è cambiato l’accesso ai percorsi?

Ci si aspetterebbe che l’introduzione delle politiche per la cronicità consenta ai cittadini di accedere in modo unitario a tutti i servizi richiesti dalla loro condizione.

La medicina d’iniziativa promossa dal chronic care model riconosce un ruolo centrale ai medici di medicina generale che diventano i promotori dell’arruolamento6 (es. Puglia, Liguria). In alcuni casi la proposta di accesso ai percorsi per i cronici è stata realizzata con campagne comunicative dirette sul paziente (ad esempio in Lombardia sono state inviate dalle Agenzie di Tutela della Salute comunicazioni mirate agli assistiti eleggibili). Prevale comunque la tendenza ad istituire percorsi specifici per i cronici distinti rispetto a quelli per accedere ai servizi per la non autosufficienza, con il rischio della proliferazione degli stessi, invece di una loro convergenza.

Alcune regioni (es. la Toscana) avevano storicamente investito sui Punti unici di accesso e attivato per la gestione di casi complessi/pluripatologici processi assistenziali di continuità ospedale-territorio e altre iniziative di filiera7. Questa ricomposizione è il risultato non tanto dell’avvento delle politiche per la cronicità, quanto di scelte antecedenti.

 

Com’è cambiata la progettazione degli interventi e il case management?

Il Chronic Care Model si fonda sulla progettazione degli interventi: l’erogazione dovrebbe rispondere a un piano il più possibile unitario e integrato (PAI), includendo anche l’assistenza domiciliare.

Dall’analisi è emerso che le Regioni hanno affidato il compito della progettazione a figure esclusivamente sanitarie, ossia ai medici (principalmente quelli di medicina generale incoraggiati a costituirsi in forme aggregative, in alcuni casi anche gli specialisti) coadiuvati da personale infermieristico; il coinvolgimento di altre figure sociali resta al momento un miraggio.

Quali interventi sono previsti nei PAI per i cronici? In rari casi sono previsti anche interventi di carattere sociale, ad esempio in Puglia8, limitatamente alle quattro tipologie di PTDA gestite con modalità chronic care, il care manager (medico) può attivare diverse tipologie di servizi (sanitari, sociosanitari e sociali).

Questo dialogo tra attori e filiere diverse non sembra tanto il risultato delle azioni delle politiche per la cronicità ma, semmai, il frutto delle scelte storiche delle regioni sui percorsi/punti d’accesso.

Invece in Lombardia i PAI si limitano a includere visite specialistiche ambulatoriali, esami e prescrizioni farmacologiche, anche quando il clinical manager/case manager incaricato della formulazione è un attore della rete sociosanitaria9. Eventuali altre esigenze legate alla condizione di non autosufficienza (es. ADI, presidi per incontinenza, ecc.) devono essere richieste “extra PAI” attraverso i tradizionali canali di attivazione. Inoltre, restano escluse dalle possibilità di arruolamento nei percorsi cronicità le persone non autosufficienti inserite in strutture residenziali.

 

Come è cambiata la capacità di valutare gli esiti dei processi assistenziali?

Ci si è domandati se queste nuove politiche regionali sono riuscite a diffondere la valutazione degli esiti anche in ambito sociosanitario, settore ancora lontano dal sapere misurare gli outcome (nel nostro Paese gli sforzi in tale direzioni restano circoscritti all’ambito ospedaliero, ad esempio il Piano Nazionale Esiti); nel caso dei servizi per gli anziani non autosufficienti ci si aspetterebbe che la valutazione degli esiti non consideri i soli progressi clinici, ma anche la capacità di mantenimento dell’autonomia e la capacità di rallentare il decadimento cognitivo.

È risultato che, di fatto, la valutazione degli esiti promossa dai percorsi per i cronici:

  • ha avuto ad oggetto l’aderenza dei pazienti ai piani terapeutici (ad esempio la loro costanza/compliance nell’assumere i farmaci o nel monitorare la glicemia)
  • non ha monitorato le condizioni di autonomia (del resto si trattava di elementi raramente oggetto dei PAI)
  • ha previsto il coinvolgimento di figure professionali meramente di estrazione clinica

Ciò non significa che ancor prima dei piani cronicità, alcune regioni avessero investito su questi aspetti (ad esempio il Friuli-Venezia Giulia, la Liguria e la Toscana) che tuttavia non hanno trovato rafforzamento per effetto dei modelli Chronic Care.

 

Per concludere

Il punto di forza dell’avvento dei modelli organizzativi innovativi sembra risiedere nei progressi di tipo conoscitivo: lo spostamento dell’attenzione dalle acuzie alla cronicità ha senza dubbio incoraggiato le analisi di tipo epidemiologico sui bisogni legati all’invecchiamento, dando maggiore centralità a quelli continuativi e legati alla polimorbilità. Si è trattato di attenzioni limitate alle condizioni cliniche, non accompagnate da adeguato interesse per i bisogni sociali e il livello di autonomia.

Anche le fasi dell’accesso, della progettazione e della valutazione soffrono degli stessi limiti; i servizi sociosanitari non sono stati interessati dai percorsi innovativi e, ancor meno, quelli sociali.

Ciò non significa che le regioni non abbiano nel tempo promosso sforzi in tali direzioni. Se oggi alcune regioni presentano politiche unitarie di accesso e di ricomposizione di risposte multiprofessionali e multidimensionali sull’assistito è il risultato di azioni precedenti, verosimilmente di politiche attivate negli scorsi decenni.

I nuovi modelli per la cronicità non possono dunque essere considerate vere e proprie azioni di riqualificazione/miglioramento degli interventi di LTC, come invece spesso avviene nel dibattito nazionale. Questa promiscuità non è presente negli altri Paesi, dove invece le politiche per la LTC e quelle per la cronicità sono ben distinte.

  1. Si pensi ad esempio all’introduzione dei Creg (Chronic Related Groups) in Lombardia oppure del sistema Acg (Adjusted Clinical Group) in Veneto
  2. Pelliccia L. (2020), Quale dialogo tra le politiche gli anziani non autosufficienti e quelle per la gestione della cronicità?, in “L’assistenza agli anziani non autosufficienti in italia, 7° Rapporto” a cura di Network Non Autosufficienza, Maggioli. Per i dettagli metodologici delle informazioni qui citate si rimanda al testo integrale del capitolo.
  3. “La creazione di strumenti di stratificazione di possibile applicazione non solo nelle coorti di pazienti con singole patologie ma anche applicabili in caso di multimorbidità e soprattutto di disabilità/non autosufficienza” (Fonte: PNC)
  4. Ad esempio, Malattie renali croniche e insufficienza renale; malattie reumatiche croniche: artrite reumatoide e artriti croniche in età evolutiva ecc.
  5. A parità di diagnosi, ad esempio, sono considerate nello stesso modo le persone autonome che possono accedere facilmente ai servizi ambulatoriali e quelle intrasportabili o trasportabili con adeguato sostegno.
  6. L’arruolamento è il processo con cui si individuano i destinatari dei percorsi per la cronicità e si propone loro di aderire all’iniziativa.
  7. Ad esempio, la somministrazione delle scale di valutazione per la non autosufficienza viene già avviata in fase di dimissione dagli ospedali; oppure commissioni interdisciplinari per gestire i casi complessi pluripatologici.
  8. Ipertensione arteriosa, diabete mellito di tipo II, broncopneumopatia cronico-ostruttiva (BPCO), scompenso cardiaco
  9. Gli erogatori di servizi sociosanitari (es. RSA e Centri diurni) possono candidarsi a ricoprire il ruolo di gestore della presa in carico, ossia sono equiparati a svolgere le funzioni di clinical manager/case manager svolte dai gestori sanitari.