Ma la salute di territorio è anche “sociale”


Sergio Pasquinelli | 18 Gennaio 2021

Letizia Moratti, appena insediata come nuovo assessore al Welfare di Regione Lombardia, ospite della trasmissione di Fabio Fazio “Che tempo che fa”, il 10 gennaio auspicava una revisione della sanità lombarda nella direzione di una medicina di territorio “più vicina ai cittadini e ai loro bisogni: questa sarà una mia priorità”. In un passaggio successivo, la stessa Moratti parla di sanità come di uno snodo che deve integrarsi con l’ambiente, le politiche sociali, l’economia.

 

Mi auguro che alle parole seguano i fatti, perché il punto sta proprio qui: una “sanità” di territorio non è sinonimo di una “medicina” di territorio: richiede punti di vista, soggetti, attività diverse. La sanità riguarda la salute, che riguarda a sua volta un benessere che possiamo promuovere con interventi medici, sociali, educativi, psicologici e così via. Il rischio è che la pioggia di miliardi che con il Recovery Plan arriverà sulla sanità (più di 20 in totale, di cui 7,9 per l’assistenza di prossimità e la telemedicina) si risolva in più medicina e tecnologia: è il rischio di una “sanitarizzazione” del sociale. Di una logica che riconduce a trattamenti medico-infermieristici bisogni che richiedono altro, o che seleziona solo ciò che trova risposta in interventi medico-terapeutici.

Una sanità di territorio deve includere il sociale1. Ma che cosa significa esattamente questo? Rispondo facendo tre esempi, che riguardano tre ampi, e cruciali, campi di d’azione.

 

Assistenza domiciliare: la telemedicina non è la panacea

L’assistenza a domicilio delle Asl (l’Adi) consiste in prestazioni infermieristiche di durata limitata, solitamente non più di due o tre mesi, mentre i bisogni delle persone fragili (persone con disabilità, anziani non autosufficienti) sono prevalentemente continuativi nel tempo, non necessariamente infermieristico-sanitari. Ancora più ridotta è l’assistenza domiciliari dei Comuni (Sad), che mediamente viene offerta per tre o quattro ore alla settimana. Dimensioni irrisore quando si parla di long term care, assistenza a lungo termine: pensiamo per esempio alle demenze, in crescita esponenziale.

C’è bisogno di uscire da questi contenitori (Adi, Sad) con un perimetro diverso e un ventaglio ampio di azioni perché i bisogni cruciali delle persone fragili non sono solo sanitari, infermieristici, riabilitativi, ma riguardano sostegni e tutele sociali, legate agli atti della vita quotidiana: vestirsi, mangiare, mantenere una vita di relazione e così via. Non solo. L’aiuto può andare al di là delle mura domestiche, fuori casa (accompagnamenti), e dovrebbe estendersi al nucleo familiare nel suo complesso: non solo la persona fragile ma i parenti, i caregiver tante volte fragili a loro volta. In Lombardia, queste diverse considerazioni hanno portato a un documento sottoscritto da 14 realtà del terzo settore e delle parti sociali lombarde.

Adi e Sad sommati insieme coprono meno del 4 per cento degli anziani ultra 65enni. Come uscire da questa nicchia? Possiamo farlo se concepiamo attività che facilitano, che creano valore nel collegare le risorse di cura dei territori e delle famiglie (enable) e non semplicemente che erogano (provide) prestazioni. Aiutare e facilitare richiedono una forte personalizzazione degli interventi, abilità e competenze nuove. Se oggi la domanda si adatta all’offerta disponibile, qui la logica si ribalta. E questo richiede un lavoro diverso dei servizi: di connessione, alleanza, promozione del territorio e delle sue energie.

Dobbiamo ridurre la distanza tra bisogni della popolazione e servizi domiciliari pubblici. Sono convinto che per farlo occorra lavorare su luoghi fisici concreti e su una governance che faccia sintesi tra Comuni, Asl e Terzo settore, come insegnano Società della salute toscane o le Case della salute emiliano-romagnole. Il Recovery Plan, punta a realizzare 2.564 “Case della Comunità quale punto di riferimento di prossimità e punto di accoglienza e orientamento ai servizi di assistenza primaria di natura sanitaria, sociosanitaria e sociale per i cittadini”. Tutto ancora molto generico.

Per quanto riguarda i sostegni a domicilio, il Piano mira a rafforzarli rimanendo però nell’involucro dell’Adi, solo con più telemedicina e connected care per la presa in carico, le diagnosi, il monitoraggio delle condizioni di salute.

La telemedicina chiama in causa il grande tema dell’accesso alla digitalizzazione, ha grandi potenzialità ma non può diventare la scorciatoia della domiciliarità, perché non sostituisce l’aiuto umano, in presenza, come quello che richiedono milioni di persone fragili, soprattutto se sole: e gli anziani lo saranno sempre più. Serve una rete di cure domiciliari capace “anche” di lavorare a distanza, ma soprattutto che elimini le inefficienze di un doppio binario Asl/Comuni e che anzi costruisca collaborazioni virtuose. Occorre uscire dal format prestazionale dell’Adi con un progetto nuovo, condiviso tra attori diversi e sfruttando al meglio le risorse del Recovery Plan: 1 miliardo per l’assistenza domiciliare, 2 per le cure intermedie2.

 

Assistenza residenziale: evoluzione, non superamento

La strage nelle Rsa ha rivelato realtà strutturalmente esposte al contagio, ma la risposta non può essere quella di volerle, velleitariamente, chiuderle tutte, e nemmeno riconvertirle in servizi di assistenza domiciliare, perché se una persona fragile viene ricoverata è semplicemente e dolorosamente perché non può più essere assistita a casa propria.

Certamente per le residenze occorre stabilire nuove regole di uso e disposizione degli spazi ma anche, e guardando più in là3, vedo almeno tre direzioni di cambiamento:

  1. La Rsa del futuro deve diventare un luogo meno isolato e più aperto, amico del territorio, capace di innescare una osmosi con i suoi abitanti, attraverso un insieme di proposte da progettare insieme alla comunità locale (terzo settore, mondo della cultura, scuole, ecc.): aiuti domiciliari, di varia tipologia e intensità, centri diurni, sostegni ai familiari, supporti al lavoro privato di cura, quello svolto dalle badanti, proposte per l’invecchiamento attivo.
  2. Inoltre, le residenze devono articolarsi per dimensioni e livelli diversi di gravità dei bisogni. Le comunità residenziali, le abitazioni protette, le forme di “abitare leggero” che non superano i 25-30 posti disegnano uno spazio nuovo, su cui si è investito poco, che attira meno i grandi gruppi privati profit propagatisi sul modello dei grandi cronicari, più redditizi. Può essere invece uno spazio rilevante per l’economia civile e il terzo settore, che possono giocarsi qui immaginazione e innovazione organizzativa, coniugando (e rivalutando) le dimensioni della solidarietà, del mutualismo e di un housing collaborativamente gestito.
  3. E poi servono interventi specifici per ridurre la dimensione professionalmente penalizzante delle Rsa nei confronti degli ospedali, che ha provocato quella emorragia di personale documentata da Arlotti e Ranci. Occorre allora adeguare le retribuzioni rispetto a quelle ospedaliere; far diventare le RSA sede di tirocinio per tutta una serie di professioni; mettere in rete strutture diverse creando economie di scopo. Non si tratta soltanto di maggiori finanziamenti, ma di una diversa modalità di organizzazione delle cure e delle attività, da incoraggiare e incentivare.

Peccato che per le Rsa il Recovery Plan, almeno nella sua ultima versione, non preveda alcun intervento, come recentemente denunciato da Uneba Lombardia.

 

Badanti: la grande rimozione

Un esercito silente totalmente scomparso dal dibattito pubblico e dall’agenda di governo: sono le 600.000 assistenti familiari che lavorano irregolarmente nel nostro Paese (nella sola Lombardia se ne stimano almeno novantamila). Senza un contratto, a volte senza un permesso di soggiorno, facilmente ricattabili, esposte a rapporti di lavoro fuori da ogni tutela.

Una sanità di territorio non può far finta che non esistano, perché il loro contributo è precisamente quello di garantire il benessere delle persone fragili, isolate, e spesso di mantenerne un raccordo con i servizi sanitari. E tuttavia, le evidenze disponibili indicano che le azioni regionali a sostegno di famiglie e assistenti familiari intraprese negli ultimi 20 anni hanno ottenuto esiti complessivamente modesti.

Esemplare è il caso della Lombardia. Il “bonus assistenti familiari”, un contributo economico alle famiglie che assumono regolarmente un’assistente familiare, è stato introdotto all’inizio del 2019 (d.G.r. n. 914/2018) con uno stanziamento di tre milioni di euro per i primi due anni. Dopo un anno di operatività, l’esito è tuttavia molto inferiore alle attese: meno di 200 sono state le domande presentate per il bonus, con diverse province lombarde che ne hanno registrate meno di dieci. Questo in una regione che conta mezzo milione di anziani non autosufficienti e circa 160.000 assistenti familiari, tra mercato regolare e non. Diversi i motivi: un valore Isee vincolante, un contributo economico limitato, il vincolo di dover impiegare badanti iscritte ai registri, che però solo metà degli Ambiti distrettuali ha attivato.

La recente delibera 3927 dello scorso 30 novembre di Regione Lombardia sembra allentare i requisiti di accesso al bonus badanti e ai Registri (per esempio per la conoscenza della lingua italiana è ora sufficiente un’autodichiarazione), in un momento in cui diversi ambiti di zona non hanno ancora attivato Registri e Sportelli.

Il caso lombardo ci dice che ci vuole ben altro per agganciare e qualificare il mercato della cura; che le famiglie (e le assistenti familiari) non sono facilmente disposte ad abbandonare i vantaggi dell’irregolarità; che questo mercato, tutto individuale e privato, ha una tenuta ancora solida.

 

Ma anche l’esperienza di altre regioni ci dice che lo sforzo di sostenere e qualificare il lavoro privato di cura rappresenta un’impresa titanica senza azioni intraprese a livello nazionale. I risultati raggiunti rimangono limitati e circoscritti tranne per lodevoli eccezioni4.

Senza interventi nazionali coordinati che vadano ad agire su fattori-chiave per l’emersione e la sua qualificazione, il lavoro di cura continuerà a mantenere una spiccata natura individuale e irregolare. Ne richiamo due in particolare.

Primo, l’apertura di flussi migratori degni di questo nome, che vadano oltre la logica delle sanatorie, i cui effetti vengono riassorbiti in poco tempo e che mostrano evidenti aree di lavoro fittizio, di domande che poco hanno a che fare con il lavoro domestico: è successo nel 2012, si è ripetuto con la regolarizzazione della scorsa estate, le cui domande hanno riguardato, in due terzi dei casi, paesi da dove provengono solo l’11% dei lavoratori: si veda qui.

 

E poi, occorre finalmente intervenire sull’indennità di accompagnamento, troppe volte usata per pagare il mercato irregolare della cura e svincolata da ogni tracciabilità sul suo utilizzo. Una sua diversa configurazione5 potrebbe finalmente dare una svolta a tutto il settore del long term care in Italia.

  1. In tema di rapporti tra sociale e sanità, di relativa integrazione, e di medicina territoriale rinvio al nostro “Il Punto” dello scorso mese di luglio.
  2. Sul rifinanziamento dell’ADI a partire dal decreto Rilancio e su ciò che è successo dopo si vedano le lucide osservazioni di Cristiano Gori in Lavoce.info dell’8 gennaio qui.
  3. Si veda, più estesamente, l’intervento sulle diverse proposte di cambiamento delle RSA scritto assieme a Chiara Ludovisi.
  4. Network Non Autosufficienza (a cura di), L’assistenza agli anziani non autosufficienti in Italia. Settimo Rapporto, Santarcangelo di Romagna, Maggioli, 2021, capitolo 6.
  5. Si veda, in particolare, la proposta presentata su Welforum a cura di Marco Arlotti, Andrea Parma e Costanzo Ranci qui.

Commenti

Sono molto d’accordo sul fatto che sanità del territorio non significa medicina del territorio e sul rischio di sanitarizzazione del sociale che, a mio avviso, è in atto da tempo, ad es. in tutta l’area della sofferenza mentale della quale prevalentemente mi occupo, con pesanti ricadute sulla limitazione delle possibilità di autodeterminazione, produzione di cronicità e proliferazione di strutture fino ad arrivare, come nel Veneto, al ritorno a strutture neomanicomiali. Penso, tuttavia, che questa situazione non si capovolge se non mettendo finalmente in discussione il paradigma fondativo dell’attuale welfare sociale, cosa che non intravedo neanche in questo articolo che, a mio parere, ripropone strade che da non possono trovare sbocchi se non, appunto, in un capovolgimento di approccio sistemico che passi dalla centralità delle istituzioni alla centralità della persona (intesa come soggetto relazionale e non come individuo), dalla salute come Bene Pubblico alla salute come Bene Comune.

Se mi é consentito vorrei fare delle osservazioni sull’ultima parte dell’articolo dove si dice che occorre finalmente cambiare il modo di erogare l’indennità di accompagnamento, facendo anche riferimento allo studio di eminenti studiosi. Ebbene mi pare di capire che andrebbe rivisto il modo di classificazione della disabilità,con nuovi parametri di valutazione, in modo da attribuire IA in base al grado di disabilità riscontrato in sede di visita collegiale da parte della commissione . Non solo si vorrebbe erogare IA anche in base alla situazione economica del benefiario (ISEE). Purtroppo é noto a tutti come l’ISEE non corrisponde ,molto spesso, alla reale situazione economica del richiedente il beneficio, andando così a creare, ancora una volta, discriminazioni non solo sul piano della salute ma anche sul piano retributivo. Secondo il mio modesto parere la persona disabile va presa in carico dal servizio sanitario e sociale nel suo complesso, ma non solo come persona bisogosa di assistenza ma nella sua globalità con la prospettiva ultima di inserimento in un contesto sociale che lo accolga e nel quale lui si senta parte. Grazie per l’attenzione.