P.I.P.P.I. Programma di Intervento Per Prevenire l’Istituzionalizzazione

Sperimentazione nazionale di una pratica di intervento integrata fra istituzioni, servizi e professioni


Paola MilaniSara Colombini | 4 Dicembre 2017

P.I.P.P.I., il cui acronimo si ispira alla resilienza di Pippi Calzelunghe, come metafora della forza dei bambini nell’affrontare le situazioni avverse della vita, è il risultato di una collaborazione tra il Ministero del Lavoro e delle Politiche Sociali e il Laboratorio di Ricerca e Intervento in Educazione Familiare dell’Università di Padova1

 

Il Programma costituisce un esempio di terza missione nelle scienze umane e sociali in quanto considera la ricerca come l’esito di un’intesa inter-istituzionale fra soggetti pubblici (Ministero, Regioni e Università) che condividono la stessa finalità: nel caso di P.I.P.P.I. il sostegno alle famiglie vulnerabili in prospettiva preventiva e la qualificazione dei servizi sociosanitari titolari di questo compito. I tre soggetti si pongono a servizio dello stesso bene comune, garantendo quel complesso di attività formative e di ricerca che può far crescere la statura e la consapevolezza del tessuto sociale, verso il miglioramento della qualità dei servizi offerta ai cittadini, in particolare i più vulnerabili.

 

Obiettivi e modello teorico-operativo di intervento

P.I.P.P.I. persegue la finalità di innovare le pratiche di intervento nei confronti delle famiglie cosiddette negligenti al fine di ridurre il rischio di maltrattamento e il conseguente allontanamento dei bambini dal nucleo familiare, articolando le aree del lavoro sociale, sanitario, educativo-scolastico, della giustizia minorile, tenendo in ampia considerazione la prospettiva dei genitori e dei bambini nel costruire l’analisi e la risposta a questi bisogni. Obiettivo primario è aumentare la sicurezza dei bambini e migliorare la qualità del loro sviluppo. Si inserisce così nell’area di programmi definiti nella letteratura anglosassone di Preservation Families e di Home care intensive intervention.

 

Il Programma riconosce la vulnerabilità socio-familiare come uno spazio di speciale opportunità per mettere in campo interventi orientati alla prevenzione, in particolare ottemperanza alle Leggi 285/1997 (di cui ricordiamo il ventennale in questi giorni), 328/2000 e 149/2001 e si inscrive all’interno della attuale legislazione internazionale (CRC1989, EU2020 Strategy) e delle linee sviluppate dall’Agenda 2030 per lo Sviluppo Sostenibile (Unesco, 2015) per la sperimentazione di azioni in grado di sviluppare una genitorialità positiva (REC 2006/19/UE), così da “rompere il ciclo dello svantaggio sociale” (REC 2013/112/UE).

Il fenomeno della negligenza rappresenta infatti una zona grigia ancora piuttosto misconosciuta: le famiglie negligenti sono sempre più numerose, gli allontanamenti sono in aumento a causa della negligenza, molte problematiche di cui si occupano i servizi e la scuola sono riferibili a tale fenomeno. La letteratura, in particolare neuroscientifica, converge nell’affermare che gli effetti siano seri, profondi e spesso associati a danni cerebrali, difficoltà scolastiche, problemi di salute mentale, comportamenti antisociali in età adolescenziale e giovanile e quindi ne mette in luce i costi umani e anche economici per la società. Da qui, l’urgenza di lavorare con questo target di famiglie al fine di limitare le condizioni di diseguaglianza che sono allo stesso tempo causa ed effetto della negligenza e che, a livello individuale, segnano negativamente, e sin dall’inizio, la traiettoria scolastica di questi bambini e minano globalmente il loro sviluppo e, a livello sociale, sono fra i fattori che più incidono sulla situazione complessiva di disordine, conflitto, violenza e diseguaglianza che segna drammaticamente i nostri giorni.

É dunque prevista l’attivazione di un’équipe multidisciplinare, che opera con il metodo della valutazione partecipativa e trasformativa (VPT) dei bisogni di ogni famiglia (Serbati, Milani, 2013), tramite cui il the team around the child avvia un processo in cui le famiglie sono protagoniste nella costruzione del processo dell’intervento: dalla definizione condivisa della situazione (assessment), alla costruzione delle ipotesi di intervento (progettazione), all’attuazione e al monitoraggio delle stesse (intervento), fino ad arrivare alla valutazione complessiva sul percorso fatto e sui cambiamenti ottenuti. I dispositivi di intervento realizzati a favore delle famiglie si fondano sul presupposto ecologico che nei percorsi di tutela non vada supportato solo il bambino o solo il genitore, ma entrambi e soprattutto la relazione che li unisce all’interno dell’intero sistema familiare e del contesto di appartenenza: servizi integrati, coerenti fra loro e tempestivi sono infatti considerati predittori di efficacia.

 

“Un progetto per ogni bambino” è dunque il punto: un progetto unitario perché intende superare la frammentazione fra i singoli interventi, fra i singoli professionisti e fra assessment e progettazione. Ogni progetto è co-costruito tra famiglia e servizi e garantisce i seguenti dispositivi, calibrati in modo coerente alla specificità dei bisogni e delle risorse rilevati nell’assessment e agli obiettivi da raggiungere: percorsi intensivi di educativa domiciliare; gruppi con i genitori e i bambini; collaborazione tra scuole, famiglie e servizi socio-sanitari; famiglie d’appoggio.

Il framework teorico di riferimento attraverso cui realizzare la valutazione e la progettazione è la teoria ecologica dello sviluppo umano, da cui deriva il ‘Modello Multidimensionale del Mondo del Bambino’ (MdB), adattamento italiano dell’esperienza del Governo inglese avviata negli anni Novanta. Tale framework rappresenta anche uno strumento operativo che consente ad operatori di istituzioni, servizi e professioni diverse di co-costruire, insieme alle famiglie, un unico progetto, facendo riferimento alle tre dimensioni fondamentali che contribuiscono allo sviluppo di un bambino: I bisogni evolutivi; Le risposte delle figure parentali a tali bisogni; I fattori dell’ambiente. Questo strumento operativo ha trovato collocazione in un applicativo informatico definito ‘RPMonline’ (Rilevazione, progettazione e monitoraggio) che è diventato parte integrante delle pratiche professionali nel processo della VPT.

 

Che cosa abbiamo imparato da P.I.P.P.I.?

Nelle prime 4 implementazioni realizzate dal 2011 al 2016, il Ministero ha finanziato il programma in 112 Ambiti Territoriali (AT): 32 del Nord Ovest, 22 del Nord Est, 22 del Centro e 36 del Mezzogiorno. Il grande numero di soggetti che sperimenta il programma per la seconda, terza o addirittura quarta volta (79 tra Città riservatarie della L. 285/1997 e AT) rappresenta un indice del rilevante investimento che, a livello locale, viene realizzato, come anche della consapevolezza che i due anni di lavoro previsti dalla sperimentazione nazionale sono abbastanza per avviare un processo di innovazione, ma non per estenderlo a tutti i soggetti titolari della presa in carico delle famiglie vulnerabili, consolidarlo e soprattutto integrarlo negli assetti istituzionali degli AT.

 

L’insieme dei soggetti che hanno partecipato a P.I.P.P.I.

Anni Famiglie Bambini Città/AT Operatori Referenti* Coach**
P.I.P.P.I.1 2011-12 89 122 10 160 30 20
P.I.P.P.I.2 2013-14 144 198 9 630 41 32
P.I.P.P.I.3 2014-15 453 600 47 1490 168 104
P.I.P.P.I.4 2015-16 434 473 46 1165 194 114
Totale 1120 1393

* Referenti istituzionali territoriali (Regione e AT)

** Referenti dell’implementazione

 

Il piano di valutazione del Programma è organizzato intorno a tre tipologie di risultati attesi: gli outcomes finali (rispetto ai bambini), quelli intermedi (rispetto alle famiglie) e quelli prossimali (rispetto al sistema dei servizi). Il processo di intervento con le famiglie tramite l’utilizzo del metodo della valutazione partecipativa e trasformativa, il fatto che la maggior parte degli AT sia riuscita ad organizzare sia l’attivazione di buona parte dei dispositivi, che a realizzare l’assessment e la progettazione all’interno di equipe multidisciplinari, sembra aver condotto ad esiti finali ed intermedi globalmente positivi su scala nazionale, documentati nei diversi Rapporti di ricerca (Milani et al. 2013; 2015; 2016; 2017). È infatti piuttosto unico in Italia che una comunità di pratiche e di ricerca documenti e renda visibili sia all’interno che all’esterno i dati sui processi e gli esiti del proprio intervento.

In particolare, l’insieme dei dati di esito prodotti sembra dare ragione del grande investimento realizzato sui processi in particolare sui processi formativi e sul rafforzamento del lavoro di governance sia a livello regionale che locale, come è dimostrabile dal fatto che:

  • nella maggior parte degli AT sono stati attivati in forma stabile Gruppi Territoriali responsabili della sperimentazione;
  • molti AT stanno lavorando alla condivisione del modello operativo con i servizi socio-sanitari;
  • otto Regioni hanno approvato Delibere, Accordi di programma o Protocolli di intesa che accolgono i principi di P.I.P.P.I. e li integrano nei propri assetti organizzativi in particolare nei Piani socio-sanitari regionali e nell’implementazione della misura nazionale del SIA e/o del REI (Sostegno per l’Inclusione Attiva / Reddito di Inclusione).

 

D’altro canto, in alcune Regioni e alcuni AT del Centro e del Sud Italia sembra essere poco disponibile l’infrastruttura politica, tecnica e amministrativa necessaria a garantire fedeltà al programma ed efficacia dell’intervento, nonostante il bando ministeriale richieda esplicitamente definiti criteri di readiness per entrare nella sperimentazione. Ciò sembra dovuto a molteplici fattori tra cui sono da segnalare: la difformità dei sistemi di welfare regionali e locali; il diffuso e crescente fenomeno della esternalizzazione dei servizi dal pubblico al privato; le difficoltà nell’attivare i dispositivi e nello spendere il finanziamento, a dimostrazione che le problematiche economiche spesso denunciate sembrano minori di quelle di carattere amministrativo e organizzativo; il poco sostegno e la debole legittimazione dalla parte politico-istituzionale locale come regionale.

 

In breve: la qualità dell’intervento, del metodo e della formazione dei professionisti si possono ritenere gli ingredienti che rendono possibile il cambiamento delle famiglie, ma le competenze organizzativo-gestionali e una buona dose di etica istituzionale rispetto al servire la “cosa pubblica” sembrano essere la fiamma che tiene acceso il motore di tale cambiamento.

 

Si tratta di lavorare sull’interdipendenza dei tre outcomes di P.I.P.P.I. menzionati sopra, ossia sul fatto che gli esiti positivi registrati rispetto al cambiamento delle famiglie potranno mantenersi solo in presenza di un uguale movimento rispetto al cambiamento dei sistemi e delle organizzazioni. Le nuove fasi di implementazione già in atto nel Paese sono finalizzate dunque a rafforzare il processo di costruzione di una solida infrastruttura che permetta il lavoro integrato fra sistemi, istituzioni e servizi secondo una prospettiva che assuma la cultura della valutazione e della progettazione come orizzonte di riferimento. Questo processo, sostenuto anche dalle Linee di Indirizzo Nazionali sull’Intervento con Bambini e Famiglie in situazione di vulnerabilità, attualmente in fase di approvazione, dovrebbe fungere ora da base per favorire l’introduzione di politiche con finalità simili, ma di ben più ampia portata, quale quella del ReI, di imminente attuazione.

  1. Il Gruppo di ricerca responsabile dell’implementazione per l’Università di Padova fa riferimento a LabRIEF (www.labrief.fisppa.unipd.it) ed è composto da: Sara Colombini, Diego Di Masi, Marco Ius, Paola Milani, Verdiana Morandi, Andrea Petrella, Francesca Santello, Sara Serbati, Chiara Sità, Marco Tuggia, Ombretta Zanon.