Quali politiche per le periferie

Le proposte del quinto rapporto di Urban@it


Giovanni Laino | 17 Febbraio 2020

Chi lavora all’Università e si occupa di territorio, spazio e dinamiche sociali, senza un forte rapporto diretto con gli ambiti dell’ideazione, attuazione e verifica delle politiche è come il medico che fa ricerca senza alcuna pratica clinica. Per questo docenti di una quindicina di sedi Universitarie nel 2014 hanno costituito con la Società Italiana degli Urbanisti il Centro nazionale di studi per le politiche urbane, che ha goduto del competente e appassionato coordinamento del Direttore Walter Vitali e del presidente Valentino Castellani.

Proviamo a immaginare percorsi, realizzare studi e fare proposte agli attori implicati nel governo del territorio, con varie iniziative, documentate nel sito www.urbanit.it.

La più duratura è quella di raccogliere decine di studiosi per pubblicare brevi paper e soprattutto un rapporto annuale.

 

Il quinto, pubblicato come gli altri da Il Mulino a gennaio 2020, dal titolo “Politiche urbane per le periferie”, tratta appunto del tema dopo che alcuni di noi avevano già cooperato per la relazione finale dell’apposita Commissione Parlamentare d’Inchiesta.

Nei quattordici capitoli il libro inquadra la questione asserendo che si tratta innanzitutto di discutere ad un livello generale alcune questioni quadro per il Paese: 1) cosa intendiamo oggi per periferia; 2) cosa vogliamo produrre nei cantieri collettivi che animiamo da anni in merito alla qualità della democrazia, della sicurezza sociale, dell’esigibilità effettiva dei diritti (innanzitutto lavoro, studio, casa e mobilità). Perché è di questo che si parla quando si tratta delle condizioni di vita nelle periferie.

 

Già negli anni Novanta, con la prima stagione dei sindaci e alcune successive iniziative comunitarie (p.e. Urban) sono state immaginate e pesate politiche specifiche per le periferie, con esiti alterni. L’approccio integrato è stato da tutti magnificato ma non è diventato né prassi né modalità diffusa nei modi di procedere delle amministrazioni che sono bloccate nel modello a canne d’organo. Quella stagione vide l’invenzione dei progetti speciali del sindaco o modalità più efficaci come il progetto speciale periferie a Torino.

 

Sempre ad un livello più generale, nel rapporto abbiamo ribadito alcune indicazioni di fondo. Riprendendo un assunto di Robert Castel, sosteniamo che “anche se va riconosciuta un’importanza decisiva ai processi di organizzazione socio-spaziale, la questione sociale continua ad avere il proprio epicentro nelle mutate condizioni di riproduzione sociale e nel declino delle forme di socialità proprie della società salariale”. Quindi è tempo di superare la falsa contrapposizione fra gli investimenti (economici, culturali e istituzionali) per alzare significativamente il grado di effettiva esigibilità dei diritti e le politiche tese a migliorare la percezione di insicurezza, l’effettivo controllo da parte dello Stato del confine fra condotte lecite o illecite nei quartieri di maggior concentrazione del disagio. Siamo persuasi che la priorità vada data alla sicurezza sociale ma crediamo sia essenziale da parte dello Stato assicurare l’agibilità e la legalità nei luoghi, ad esempio nel contrasto alla gestione delle case popolari da parte di gruppi criminali, la lotta all’economia illegale, evitando di utilizzare l’informale come demagogica narrazione per giustificare le carenze delle politiche del lavoro e della giusta fiscalità.

 

Occorre una strategia ampia che poi orienti le scelte nella programmazione dei fondi europei, delle leggi nazionali di bilancio di alcuni anni, dei PON nazionali, dei POR, consentendo ai grandi Comuni l’uso diretto di fondi senza passare dalle burocrazie regionali.

In Italia bisogna riformulare il patto sociale fondamentale chiarendo e raccogliendo il necessario consenso in merito ad alcune rilevanti scelte:

  • quali e quante condotte informali e illegali il sistema paese deve e può tollerare?
  • Quale e quanta ineguaglianza possiamo ritenere ammissibile?
  • Cosa dobbiamo intendere per sicurezza sociale e quali livelli effettivi di servizi lo Stato – certo in regime di sussidiarietà – deve seriamente assicurare, in ogni parte del paese?
  • A che punto siamo sull’effettiva garanzia dei livelli essenziali delle prestazioni?

 

Tenendo presente le condizioni in cui si trovano alcune grandi e medie città, ancora sullo sfondo vanno sciolti anche dei nodi con cui conviviamo da anni: come si affronta la crisi profonda e verticale dell’amministrazione pubblica, tenendo conto di:

  1. un pericolo strisciante di dissesto della finanza locale per Comuni anche molto grandi (Napoli e non solo);
  2. le carenze di risorse umane qualificate con sovraccarico illogico di pochi dirigenti;
  3. una sorta di dinamica di decapacitazione cognitiva che ripropone molto spesso fonti di inerzia e trappole di inefficacia nell’agito della PA;
  4. l’abitudine consolidata ad operare per canne d’organo e non secondo un approccio integrato.

 

Si tratta quindi di una articolata strategia giocata al tempo stesso sul piano europeo, nazionale e locale. Certo bisogna coniugare sguardo ampio e visione di medio lungo periodo con inevitabile e giusto approccio enzimatico del qui e ora che pure singoli e gruppi adottano per provare a dare da subito risposte a condizioni insopportabili.

 

Da molti anni gli urbanisti italiani sanno che condizioni preliminari alla riqualificazione delle periferie sono l’elevazione delle dotazioni sociali e dei livelli di accessibilità, lo sviluppo della multifunzionalità e dell’integrazione a scala locale del sistema della residenza con quello della produzione.

Proprio per questo non è dalla grande e onorevole tradizione dell’urbanistica o ancor più da quella dell’architettura che possono venire le buone idee per trattare in modo efficacie il grave disagio umano di chi vive nelle periferie. Si tratta bensì di contrastare, sia con politiche preventive che riparative, la riproduzione delle diseguaglianze sociali, i divari nei sistemi di opportunità. Detto in altro modo e senza sottovalutare la grande qualità dell’insegnamento di un maestro come Renzo Piano, non si tratta di rammendare gli spazi delle periferie, o comunque non è quello un buon inizio.

Certo sono fondamentali le qualità e la cura degli spazi (p.e. l’igiene urbana, la mobilità, la messa in sicurezza e l’intelligenza degli edifici scolastici, la riorganizzazione di quote di alloggi pubblici pensando ai nuovi profili socio demografici), ma il cuore sta nel dotare le periferie sociali di un sistema di opportunità, non legato ai bandi, ai ritmi e alla precarietà dei progetti annuali, ma concentrati in apposite agenzie sociali, stabili negli anni.

Detto con uno slogan si tratta di passare dall’ideazione e predisposizione di contenitori alla messa a disposizione, realizzazione, sostegno, cura e stabilizzazione dei contenuti. A cinquanta anni dall’approvazione della legge sugli standard urbanistici che pure ha avuto un ruolo importante per la mobilità sociale e quindi per la qualità della democrazia italiana, oggi si tratta di garantire, a partire dai territori più fragili, innanzitutto livelli essenziali delle prestazioni.

Per questo il quinto rapporto Urban@it intende sollecitare una strategia per le periferie che veda impegnati diversi governi almeno per i prossimi dieci anni, con politiche capaci di individuare beneficiari, obiettivi, valori soglia e output. Politiche a dote di risorse da usare in modo adattivo e flessibile, per evitare alcune potenti fonti di inerzia che hanno limitato anche molti programmi in corso e anche la meritoria strategia per le aree interne.

 

Tenendo quindi conto di un necessario disegno articolato per livelli e settori, attori e tempi, in questo libro, Urban@it ha inteso essere ancora più concreti e proporre alcuni passi operativi: la costituzione di una regia centrale nazionale che coordini entro una qualificata governance multilivello un lungo nuovo programma pluriennale, collegato a una significativa nuova edizione di politiche abitative (anche con il rilancio della locazione) e un rinnovato sforzo per qualificate politiche sociali di sicurezza urbana che complessivamente rilancino i livelli di opportunità effettivamente esigibili per le popolazioni che vivono in condizioni di maggior disagio nelle periferie sociali del paese.

 

Proponiamo quindi di immaginare un programma pluriennale nazionale che faccia tesoro (mettendole più in coerenza tra loro) delle risorse che sono già in campo e che disponga di altri indispensabili investimenti pubblici.

Deve esserci un effettivo profondo nesso fra politiche di coesione, sicurezza sociale e politiche dell’abitare, immaginando interventi obiettivamente straordinari per consentire un significativo ampliamento delle opportunità di accesso alla casa in locazione, innanzitutto per i nuclei con i redditi più bassi.

La priorità va data alle politiche per il lavoro, l’abitare e l’educazione. Educazione e non solo scuola perché da tante esperienze ben monitorate da Marco Rossi Doria che pure ha dato un contributo al rapporto, non solo le scuole da sole non ce la fanno ma un territorio diventa educante se anche altre agenzie lo animano con diverse modalità e i ragazzi tornano anche in strada.

Come Urban@it insieme ad altri da anni sosteniamo che occorre (anche per le fondazioni) passare dai bandi a una strategia stabilmente finanziata per almeno dieci anni, per rigenerare le città, a partire dalle loro periferie, questo anche con idonei interventi di tipo fiscale già suggeriti da Urban@it e IFEL. (p.e. tassa di scopo per l’ERP e la rigenerazione del patrimonio di alloggi pubblici). In molti quartieri pieni di fragilità sociale, di tutte le città, ci sono le condizioni per rigenerare, stabilizzare e rilanciare alcune organizzazioni di terzo settore, impegnate da anni a offrire un minimo di opportunità (gestendo servizi esternalizzati dagli enti pubblici a basso costo e progetti finanziati dalle fondazioni), che rischiano di diventare agenzie di lavoro interinale precario, uberizzato: una prospettiva di rischio tutt’altro che fantasioso che sommerà problemi di (ex)giovani lavoratori precari a quelli delle fasce di popolazione povera.

 

La svolta immaginata e necessaria è profonda. Si tratta di migliorare – in senso integrato e monitorato anche dal basso – le politiche di lotta alla povertà, senza confonderle (come fa il Reddito di cittadinanza) con quelle per il lavoro. Altra diffusa ambiguità che va considerata attentamente in modo critico è quella che di fatto suggerisce (ad esempio da parte delle fondazioni), che ogni sostegno alla socializzazione e all’ingresso nel mercato del lavoro da parte dei giovani e dei meno giovani deve avere come via maestra la ricerca di occupazione attraverso progetti di autoimpiego, imprenditorialità dal basso e start up. Si tratta di percorsi che possono essere qualificati e significativi per una quota di inoccupati e disoccupati senza mettere in ombra che la maggioranza di chi si trova in tali condizioni, deve necessariamente incontrarsi con domanda di lavoro espressa da imprese, pubbliche o private.

A questo aspetto è legato di nuovo un tema generale: la necessità in Italia, anche per la cultura progressista, di maturare sempre meglio una concezione dell’universalismo selettivo indispensabile per migliorare il grado di efficacia delle politiche. Anche per questo sono indispensabili agenzie che operano nella prossimità, perché nelle periferie bisogna starci conficcati, non di passaggio, non per qualche progetto, facendo incontrare e cooperare persone provenienti da ambienti e percorsi diversi (come meritoriamente stanno facendo alcune università che aprono laboratori nei quartieri).

Si pensa anche ad interventi sulle attrezzature del welfare materiale (ad esempio le scuole, gli spazi che spesso alcuni gruppi già hanno iniziato a rivitalizzare), curando d’altra parte molto la sostenibilità del welfare “immateriale” (che poi ha dimensioni materiali ben rilevanti).

Torna ancora il richiamo per politiche generaliste, concepite entro un nuovo universalismo selettivo: p.e. percorsi di educazione di seconda opportunità per ragazzi a serio rischio di trovarsi in condizioni NEET, trattamento differenziato fra alcune scuole che sono dentro le periferie sociali e le tante altre: i PON che di fatto distribuiscono i fondi a pioggia come pure il famoso PON F3 di qualche anno fa non sono abbastanza efficaci. Anche le politiche per la casa vanno pensate con cura per i diversi segmenti di domanda, tornando ad offrire opportunità per chi é sostanzialmente senza casa (nel rapporto c’è uno specifico capitolo che propone quote ERP come standard).

 

Quindi nelle conclusioni vengono riprese alcune indicazioni che come studiosi avevamo già offerto alla Commissione Parlamentare per le periferie cui abbiamo collaborato: al centro: uno specifico programma di attivazione di Agenzie sociali di quartiere che, razionalizzando, consolidando e rilanciando quello che c’è, entro un approccio molto attento alle potenzialità della sussidiarietà fra soggetti di terzo settore ed enti pubblici, possa consentire una rinnovata stagione di crescita democratica, che con nuovi strumenti di necessaria intermediazione sociale, consenta di trattare in modo integrato alcuni fondamentali bisogni.

Anche il piano per il Sud – in corso di definizione presso il Ministero – potrebbe prevedere per l’avvio di tali agenzie una sperimentazione in almeno un certo numero di quartieri delle note periferie del Sud.

Le politiche per le periferie (al servizio del sociale) devono:

  • essere selettive, affiancando all’orientamento alle persone e alle diverse fragilità e vulnerabilità la capacità di immaginare e offrire risposte diverse a domande differenti;
  • esprimere un approccio radicalmente place-people-based, basato cioè sulla considerazione delle specifiche condizioni locali, mettendo al centro l’effettivo coinvolgimento degli abitanti;
  • tenere conto delle energie sociali presenti e assumere modalità abilitanti nei confronti di quei soggetti che si attivano per intraprendere iniziative di rigenerazione, sviluppo e coesione sociale; promuovere sperimentazioni locali, essendo complementari a ciò che già si muove sul terreno dell’innovazione delle forme del welfare, anche innestando nuove qualificate energie e competenze.

 

Per le caratteristiche delle agenzie che si propongono si possono ricordare e attualizzare quelle già presenti in alcuni modelli noti: dalle Missioni di sviluppo della IG, alle Missioni locali francesi e alcuni Job center di città europee, sino agli ormai vecchi modelli delle Regie di quartiere o dei Club di prevenzione specializzata francesi, ma anche alcune agenzie sociali per la casa, in corso di realizzazione con il PON Metro. Anche una attenta disamina delle centinaia di soggetti consolidati e reti locali che, selezionate e finanziate con i bandi dell’Impresa Sociale con i Bambini della Fondazione con il Sud (come di altre Fondazioni), potrebbe essere moto istruttiva.

Si pensa che queste agenzie debbano essere:

  • organizzazioni plurali, costituite con professionisti distaccati dall’ente pubblico e dal terzo settore;
  • localizzate in sedi dentro ai quartieri bersaglio, aperte alla strada, tipo sportello unico, potendo gestire l’insieme della rete locale;
  • hub fra i centri di servizio sociale dei comuni, le scuole, i centri per l’impiego e diversi servizi già esternalizzati a enti di terzo settore;
  • promotori o soggetti attuatori di interventi di lotta alla povertà educativa, e/o per la socializzazione al lavoro dei giovani NEET e/o di interventi di sostegno dei disoccupati adulti come pure per risposte concrete ad altre domande sociali, dalla casa ad altri servizi sociali.

Pensiamo a strutture leggere che devono occupare decine di agenti di sviluppo, presi da enti già operativi, con buona formazione di base e/o da mettere in formazione ricorrente, anche con ricercatori universitari. Professionisti riflessivi, reticulist, designer dell’interazione, capaci di aggregare e far cooperare gli attori, mobilitare e indirizzare al meglio gli investimenti delle risorse, valorizzando il patrimonio di quello che già c’è, ma anche – se necessario – decostruendo cristallizzazioni (di abitudini e di potere) che non di rado determinano limiti di efficacia (i pionieri dello sviluppo proposti da F. Barca).