Regioni e schemi di reddito minimo: rischi e opportunità di una governance multi-livello


Marcello NatiliMatteo Jessoula | 17 Gennaio 2018

Tradizionalmente ai margini del dibattito politico, negli ultimi tempi gli schemi di reddito minimo hanno trovato uno spazio sempre maggiore nei programmi e nelle proposte dei partiti politici, e sono divenuti oggetto di discussioni sempre più accese.  A questa maggior centralità ha fatto seguito l’approvazione di nuove misure, a livello nazionale come a livello locale.

 

Più nota è l’evoluzione recente a livello nazionale. All’introduzione a livello sperimentale in 12 Comuni della “Nuova Social Card” ha fatto seguito prima, il passaggio al Sostegno all’Inclusione Attiva e la sua estensione sull’intero territorio nazionale, e successivamente l’approvazione del Reddito di Inclusione (REI), che per la prima volta dota l’Italia di uno strumento strutturale di contrasto alla povertà. Ognuno di questi passaggi è stato caratterizzato dall’introduzione di modifiche significative all’impianto normativo, senza che – neppure  con le recenti modifiche contenute nella bozza della legge di bilancio (Art. 25) – siano del tutte risolte le problematiche che hanno indotto a parlare del Rei come di un “reddito… troppo minimo” (Saraceno 2017), caratterizzato da scarsa generosità, bassa copertura, limite massimo di durata e importanti vincoli nella possibilità di scelta dei beneficiari su come utilizzare la componente monetaria del Rei.

In contemporanea all’intervento nazionale – alle volte precedendolo, più spesso in contiguità con l’introduzione del SIA – sono numerose le regioni che hanno introdotto schemi regionali di contrasto alla povertà (Benassi 2016, Natili et al. 2017). Si tratta del Friuli Venezia Giulia (legge regionale 15/2015), dell’Emilia Romagna (legge regionale 24/2016), del Molise (legge regionale 9/2015), della Puglia (legge regionale 3/2016), della Sardegna (legge regionale 7/2014), cui si aggiungono le proposte di legge in discussione nelle Marche e in Toscana e le modifiche introdotte alle esperienze di più lungo corso in Basilicata (legge regionale 26/2014), in Valle d’Aosta (legge regionale 18/2015) e nelle Provincia Autonoma di Trento.

I programmi regionali sono molto diversi, sia tra di loro, che rispetto al programma nazionale, in tutte le dimensioni più importanti: generosità, criteri d’accesso, livelli di spesa, sistema di governance e caratteristiche complessive dei progetti d’inclusione sociale (Natili et al. 2017). Quale ruolo possono avere tali strumenti nel già frammentato sistema di protezione del reddito italiano? Possono contribuire a migliorare la sicurezza sociale dei numerosi cittadini a rischio povertà relativa ed assoluta, o rischiano solamente di disorientare ulteriormente il cittadino di fronte al ginepraio di diverse prestazioni e procedure d’accesso? Tali dubbi emergono perché se da un lato gli interventi regionali possono contribuire a supplire le carenze della misura nazionale, dall’altro emerge il rischio – non nuovo in Italia (Fargion 1997, Madama 2010) – di una duplicazione degli interventi e di un incremento della complessità del sistema a scapito della sua efficienza ed efficacia complessiva.

 

Per rispondere a tali interrogativi è necessario verificare la capacità di tali strumenti di coordinarsi in maniera efficace con la misura nazionale, in primo luogo guardando ai criteri d’accesso e ai metodi per determinare la generosità delle misure. In alcuni casi – spesso, nelle regioni dove gli interventi di contrasto alla povertà sono successivi all’introduzione del SIA – è evidente il tentativo delle misure regionali di “poggiare” sull’infrastruttura nazionale e di coordinarsi con la legislazione nazionale. Semplificando1, le misure introdotte in Emilia Romagna, Puglia e Sardegna “ricalcano” i requisiti economici e patrimoniali d’accesso previsti per il SIA, eliminando però i requisiti categoriali, prevedendo  dunque l’estensione della platea anche ai nuclei unipersonali o ai nuclei in cui sono assenti minori o disabili. Anche le procedure di accesso sono state programmate in modo da facilitare il coordinamento e permettere agli operatori di indirizzare i potenziali beneficiari verso la misura più appropriata (nazionale o regionale). L’introduzione del Rei, che ha caratteristiche simili ma non perfettamente sovrapponibili al SIA, rischia di rendere più complessa l’integrazione verticale in queste regioni. Questo rischio è tuttavia particolarmente elevato negli altri casi regionali, dove le misure sono state costruite in autonomia, con conseguenze differenti nei singoli casi. In Molise, i criteri d’accesso sono differenti rispetto alla misura nazionale, ma poiché l’accesso al SIA, così come ora al Rei, è incompatibile con l’accesso allo strumento regionale, non è possibile che il medesimo nucleo riceva due misure. La prova dei mezzi e le condizioni di eleggibilità sono differenti rispetto al SIA – e anche rispetto al Rei – anche in Basilicata, Friuli Venezia Giulia, Valle d’Aosta e nelle Province Autonome di Trento e Bolzano. In questi casi, è possibile che alcuni gruppi sociali abbiano diritto sia alla misura nazionale che a quella regionale, così come che alcuni gruppi in povertà estrema rimangano esclusi da entrambe le misure. Inoltre, non sono previste modalità di coordinamento fra le due procedure, il che potrebbe creare non poche difficoltà di gestione. Per far fronte a queste difficoltà e prevedere, quantomeno, un coordinamento nelle procedure d’accesso, recentemente è stato siglato un protocollo tra Friuli Venezia Giulia e governo nazionale. Protocolli simili sono in fase di negoziazione tra centro e periferia anche nelle altre regioni.

 

Una differenziazione simile tra le misure introdotte post e pre SIA esiste in merito alla generosità degli strumenti. In Emilia Romagna l’importo è il medesimo del SIA. In Puglia è prevista un’integrazione regionale ulteriore pari a 200 euro per i componenti dei nuclei familiari che partecipano ai “tirocini lavoro”, sebbene l’importo massimo non possa superare i 600 euro. Anche in Sardegna, si è scelto di aumentare la generosità del SIA per i residenti nella regione da più di 60 mesi – si passa da un ammontare di 200 euro per i nuclei monofamiliari fino a un massimo di 500 per i nuclei composti da 5 persone – pur decidendo di poggiare sulla medesima infrastruttura. I cittadini sardi riceveranno perciò una sola carta acquisti simile alla carta SIA, solo più generosa. Negli altri casi l’importo è disegnato in maniera indipendente dalla misura nazionale. In Basilicata l’importo è pari a 450 euro per un individuo solo, e cresce con l’ampliarsi del nucleo familiare fino ad un massimo di 550 euro; anche in  Friuli Venezia Giulia l’ammontare mensile cresce lievemente insieme all’ampiezza della famiglia, da €400 per nuclei monofamiliari a €550 for le famiglie numerose; in Molise è prevista una quota di €300, indipendentemente dalla numerosità familiare; in Valle d’Aosta si parte da €450  per i nuclei uni-familiari fino a €550 per le famiglie numerose; la Provincia Autonoma di Trento prevede  un ammontare base di €540 per gli individui soli, che può crescere fino a un massimo di €950 per le famiglie numerose. Sebbene esistano alcune difficoltà a classificare le misure a somma fissa presente in Molise, si tratta perciò in generale di misure più generose della misura nazionale. Anche a questo riguardo, il passaggio al Rei, che prevede importi lievemente più generosi rispetto al SIA, rischia di render più complessa l’integrazione con le misure regionali introdotte in maniera coordinata con il SIA.

 

Le misure regionali introdotte presentano differenze anche in altre dimensioni, ad esempio rispetto alla presenza di limiti di durata – la misura viene concessa per periodi più brevi rispetto ai 18 mesi del Rei in Valle d’Aosta e nella Provincia Autonoma di Trento, per periodi più lunghi in Sardegna – e per quanto riguarda condizionalità e sanzioni, differenti tra regione e regione. In particolare rispetto all’ultima dimensione, l’assenza di coordinamento tra misure regionali e nazionali rischia di snaturare il carattere dei provvedimenti: la possibilità di accedere ad un’altra misura qualora si incorra in una delle sanzioni previste sembra andare nella direzione opposta alla logica degli incentivi alla base della forte condizionalità delle misure assistenziali introdotte oggi in Italia.

 

Infine, i percorsi di inclusione sociale e/o lavorativa associati agli schemi regionali di reddito minimo sono molto diversi fra loro. Sebbene nelle misure più recenti sia evidente l’influsso della normativa nazionale, soprattutto quando si parla della creazione delle équipe multi-disciplinari, permangono importanti differenze, sia verticali (tra il Rei e le misure regionali), sia orizzontali (tra gli interventi regionali): mentre in alcuni casi si promuovono programmi personalizzati differenziati ed esiste una forte integrazione tra centri per l’impiego e servizi sociali, in altri gli interventi sembrano più standardizzati, l’integrazione orizzontale è minore   e alle volte poggiano soprattutto su misure configurabili come “lavori socialmente utili”, intesi sia come contropartita che come strumento  per facilitare l’integrazione sociale. La differenziazione regionale per quanto concerne i percorsi di “attivazione” contiene un elemento positivo, e sin dalla sperimentazione del Reddito Minimo d’Inserimento è emersa la necessità di creare percorsi differenziati, in grado di poggiare sulle caratteristiche socio-economiche del territorio (Sacchi 2007). Tuttavia, tale differenziazione diviene problematica se la osserviamo in un’ottica d’integrazione multi-livello. Infatti, è difficile pensare come sia possibile introdurre nei medesimi contesti territoriali per una platea molto simile, pratiche e percorsi differenziati a seconda che si acceda allo strumento nazionale o regionale.

 

Per concludere, considerando le debolezze dell’intervento nazionale, sia in termini di copertura che di generosità, l’intervento delle regioni può contribuire a migliorare la capacità protettiva del sistema di protezione del reddito e di contrasto alla povertà aumentando la platea dei beneficiari e/o rafforzando il contributo economico. Sebbene le recenti modifiche proposte in legge di bilancio si propongano di ampliare la platea di beneficiari del Rei a partire dal luglio 2018, le risorse rese disponibili fanno sì che una quota rilevante di persone in povertà rimangono escluse dal sistema di protezione nazionale. Per molte famiglie in povertà, l’intervento regionale potrebbe costituire un aiuto di fondamentale importanza. Perché questo avvenga con successo è necessario, però, che vengano favoriti il coordinamento e l’integrazione verticale tra i vari strumenti. A questo riguardo, una distinzione importante deve essere fatta: i programmi regionali introdotti dopo l’introduzione del SIA sono stati disegnati in cooperazione con il Direttorato Nazionale per le Politiche di Inclusione Sociale del Ministero Politiche Sociali e del Lavoro. Al contrario, i programmi introdotti in precedenza non sono stati realizzati in maniera coordinata con le istituzioni nazionali e presentano più di un problema in termini di coordinamento verticale con le misure nazionali. Per far fronte a questo limite in alcune regioni è in corso una negoziazione con il governo regionale allo scopo di siglare un protocollo che faciliti il coordinamento tra le misure, sul modello di quello siglato in Friuli nel settembre del 2017. Tuttavia, l’introduzione del REI – le cui caratteristiche sono simili, ma non identiche al SIA – potrebbe creare ulteriori problemi di coordinamento e integrazione anche nei confronti degli interventi introdotti dopo il 2015.

 

Allo stesso tempo, l’intervento delle regioni nel settore delle politiche di contrasto alla povertà – in particolare per quanto concerne la componente monetaria e i criteri di eleggibilità – costituisce una violazione del principio dell’equità orizzontale, dato che famiglie con condizioni economiche simili avranno diritti differenti a seconda della regione o della provincia di residenza, ponendo al centro del dibattito il tema della potenziale crescita delle disuguaglianze territoriali. In genere, avere accesso a prestazioni differenti a seconda del contesto territoriale comporta il rischio di avere una protezione più debole proprio dove il bisogno è maggiore, nelle regioni più povere. L’evidenza empirica mostra come tale rischio ad oggi non si è concretizzato nel caso italiano, dove l’intervento regionale dipende da fattori politici piuttosto che socio-economici. Come accaduto anche in passato (Natili 2016) infatti, anche in periodo recente hanno introdotto schemi di reddito minimo regioni più e meno economicamente sviluppate, ma solamente in presenza di giunte regionali governate dal centro-sinistra, mentre le coalizioni di centro destra hanno evitato accuratamente di intervenire nel settore. Sono dunque fattori legati alle dinamiche di competizione politica ad accentuare il rischio della crescita delle disuguaglianze territoriali in Italia, dove il grado di “politicizzazione” delle misure di contrasto alla povertà è maggiore che negli altri paesi europei, e non vi è ancora una forte condivisione tra le forze politiche in merito alla necessità di avere una misura di contrasto alla povertà estrema. Fino a quando il sostegno a tali prestazioni non sarà indipendente dal colore e dall’orientamento politico di chi governa, il ruolo delle regioni nel sostegno al reddito rimarrà poco funzionale per la creazione di un sistema di protezione del reddito equo ed efficace.

  1. Ad esempio, i criteri connessi alla residenza sono differenti nei casi elencati, prevedendo la residenza da almeno 12 mesi in Puglia, 24 in Emilia Romagna e 60 in Sardegna.