2024: meno retorica per il welfare sociale


Sergio Pasquinelli | 9 Gennaio 2024

Meno retorica e più attenzione alla concretezza è il mio augurio per l’anno nuovo. La narrazione delle cose belle e buone inonda molte analisi e impedisce di apprendere i reali meccanismi che aiutano lo sviluppo, l’innovazione, le relative condizioni, i costi. Ci circondano racconti, casi, episodi, e su questi costruiamo generalizzazioni improprie.

Auspico un welfare meno retorico in modo particolare in tre ambiti.

Primo, il welfare di comunità. Tema su cui si sono spesi fiumi di parole e che certo vede molte esperienze virtuose, positive, ispiratrici. Ma se ingessato come qualcosa di “buono a prescindere” il welfare di comunità diventa retorica, rischiando di ricondurre tutto ciò che incontra a una dimensione collettiva, a un approccio forzatamente socializzante, rimuovendo i bisogni individuali di attenzione, di un ascolto riservato, di confidenza, di ritiro.

Il cosiddetto welfare collaborativo declina l’idea di comunità nel senso di un’attivazione dei soggetti che in essa vivono: se sono mamma e lavoro part time posso seguire i figli di altri, e questo poi mi viene ricambiato quando sono io al lavoro. Oppure: un orto urbano diventa virtuoso se innesca processi di aiuto reciproco tra i suoi fruitori. O ancora: se sono portatore di disabilità posso vivere in una comunità indipendente insieme a soggetti che sento vicini e con cui condivido protezione a aiuti. E gli esempi potrebbero continuare a lungo. Su una scala più grande parliamo di mutualismo di nuova generazione, su cui si sono accesi i riflettori e in cui la dimensione digitale occupa un ruolo crescente.

Ma tutti questi processi non nascono magicamente “dal basso” e hanno bisogno di una cornice organizzativa. La badante di condominio racchiude plasticamente i limiti e gli insuccessi di un approccio ingenuo al welfare di comunità. Una figura, infatti, che ha avuto vita breve là dove è stata tentata, scontrandosi con difficoltà legate alla sua organizzazione (e i suoi costi), alla disponibilità (bassa) da parte delle famiglie potenziali clienti, alla diversa tipologia dei bisogni da soddisfare.

Secondo, la coprogettazione, la coprogrammazione e più di recente l’amministrazione condivisa. Sono strumenti su cui stanno crescendo in questi anni molte pratiche che vanno al di là della logica committente-fornitore che, con gli appalti e i bandi, è stata a lungo la modalità mainstream dei rapporti tra pubblico e privato.

La retorica nasce da un’idea di coprogettazione come, anche qui, qualcosa di buono a prescindere, quando diventa valore indiscutibile. Ma il suo effetto netto rispetto a una dinamica competitiva rimane un tema aperto, non scontato. Come affermano Ugo De Ambrogio e Gianfranco Marocchi, il peggior nemico della coprogettazione sono le coprogettazioni fatte male: non basta mettere le persone attorno a un tavolo perché si produca magicamente progettazione di qualità. È necessaria – quantomeno – una funzione di regia, un ruolo terzo che faciliti l’interazione e tuteli gli obiettivi perseguiti1.

Soprattutto, le organizzazioni di terzo settore devono scegliere se rimanere dentro logiche di competizione e di spartizione (la seconda è solitamente la via d’uscita dalla prima), ancora diffuse negli interventi più tradizionali, o viceversa aprirsi a posture organizzative diverse, che richiedono una buona dose di fiducia, allargamento dei confini, atteggiamenti meno autocentrati e più condivisi. Per arrivarci occorre riconoscersi partner alla pari tra soggetti anche molto diversi per storia e dimensioni, e accettare di esporsi a esiti incerti, non garantiti.

Terzo, la sanità di territorio. Dopo la pandemia era diventata la promessa che univa tutti. A che punto siamo? Ancora molto indietro e, con l’avanzare pervasivo di una sanità privata, siamo forse ancora più indietro rispetto al 2020. Un certo senso del pudore ha fatto sì che qui la retorica abbia progressivamente abbassato i toni. Comprensibile, peraltro, quando gli italiani senza un medico di base continuano ad aumentare: alla fine di quest’anno saranno quasi quattro milioni.

Il Decreto del Ministero della Salute pubblicato due anni fa, che doveva riconfigurare la sanità di territorio (DM 77/2022), rimane ad oggi ampiamente inapplicato. Le Case della Comunità, previste inizialmente in 1.350, sono state ridotte a 936 per motivi legati ai costi, sottostimati. Rimangono del tutto aperte questioni fondamentali come il trasferimento dei medici di base dentro queste strutture (i quali rimangono totalmente refrattari a farlo). Le nuove Case della Comunità risultano così, ad oggi, dei poliambulatori a scartamento ridotto, in cronica sofferenza per il deficit di personale che affligge il Servizio sanitario nazionale, gli infermieri in primis. L’organigramma previsto per queste strutture, ambiziosissimo, è inoltre quasi tutto sanitario: l’integrazione con i servizi sociali, e soprattutto con il terzo settore, è un tema lasciato ai margini, alla discrezionalità delle singole Regioni.

Si ricomincia così a discutere di un progetto di rilancio della salute di prossimità, più realistico, sostenibile, credibile, questa volta costruito con la necessaria convergenza dei diversi attori in gioco: le Regioni, i Comuni, le professioni sanitarie, sociosanitarie e sociali, la rappresentanza delle associazioni dei pazienti.

Evitare la retorica di facciata e riportare la riflessione, quanto più possibile, su dati di realtà è l’intenzione che Welforum ha sempre avuto ma su cui vogliamo spenderci ancora di più nell’anno che si apre.

Buon 2024 a tutti i nostri lettori!

  1. U. De Ambrogio, G. Marocchi (a cura di), Coprogrammare e coprogettare, Roma, Carocci, 2023.