Aggressione russa all’Ucraina. Non ci voltiamo dall’altra parte


Emanuele Ranci Ortigosa | 22 Marzo 2022

Quanto accade in Ucraina coinvolge profondamente anche il nostro paese. Lo coinvolge non solo emotivamente e moralmente, ma anche economicamente e politicamente, e potrà avere un impatto significativo sul nostro tenore e stile di vita, sulla nostra vita democratica oltre che sulla presenza e i rapporti internazionali del nostro paese1.

 

Riassumo brevemente i fatti recenti, evidenti e incontestabili: la Russia ha attaccato militarmente l’Ucraina, paese indipendente confinante, membro delle Nazioni Unite. L’ha attaccato anche attraversando il territorio della Bielorussa, consenziente e di fatto cobelligerante. La Russia aveva attaccato l’Ucraina già nel 2014 per impossessarsi della Crimea, senza quasi incontrare resistenza sul terreno, e subendo solo deboli sanzioni economiche dai paesi occidentali. Contestualmente la Russia aveva promosso la costituzione di milizie filorusse nel Donbas, nel bacino del Donec, che combattessero per rivendicare una forte autonomia, se non l’indipendenza o addirittura l’incorporazione alla Russia, di due autoproclamate repubbliche.

L’attuale aggressione, a lungo preparata e ora attuata da Putin, ha creato le situazioni drammatiche che la popolazione soffre e che vediamo ogni giorno in televisione o sui social. Milioni di profughi in fuga verso occidente, prevalentemente donne e bambini, che, malgrado le difficoltà di movimento e i rischi di attacchi, aumentano ogni giorno. Distruzioni e morti che si moltiplicano via via che l’esercito russo tende sempre più per vincere le resistenze a operare distruzioni sistematiche, fare terra bruciata. L’esercito ucraino malgrado lo squilibrio di forze con quello russo non è crollato e combatte coraggiosamente, affiancato da civili in armi o in azioni di supporto. Questa strenua resistenza testimonia cosa vuole il popolo ucraino, e quanto è disposto a lottare anche a fronte di una sproporzione tra le sue forze e quelle russe.

Per insipienza, quieto vivere o perché tutti assorbiti nel combattere il Covid-19, l’Unione Europea gli Stati Uniti e altri Stati hanno a lungo ignorato cosa Putin stesse da anni preparando, anche se non mancavano precedenti di aggressività russa e i servizi segreti descrivevano puntualmente l’ammassarsi delle truppe per finte manovre militari. C’è voluta l’invasione concreta con carri e cannoni per risvegliarli, e farli reagire questa volta prontamente e duramente, condannando l’invasione e attivando pesanti sanzioni economiche e commerciali, che potranno avere efficacia solo nel tempo. I paesi europei, specie quelli confinanti, sono impegnati nell’assistenza ai profughi, donne e bambini perché gli uomini sono rimasti a combattere, e nell’invio di aiuti che, da parecchi paesi, sono anche militari.

 

Le ingiunzioni di Putin e le varie reazioni

Si sono tentati corridoi umanitari e vie diplomatiche per arrivare almeno a ridurre le sofferenze e i lutti, si chiede con insistenza un cessate il fuoco, ma per ora con ben limitato esito per le resistenze russe e anche il timore di deportazioni in Russia della popolazione. Le ingiunzioni che Putin ha posto all’Ucraina sono state fin dall’inizio: riconoscimento della annessione alla Russia della Crimea, riconoscimento delle due repubbliche autoproclamate e riconosciute dalla sola Russia del Donbass, demilitarizzazione e neutralità dell’Ucraina, “denazificazione” dell’Ucraina.

Questa parola è stata inventata da Putin e viene spesso ripresa e utilizzata come giustificazione per l’invasione dell’Ucraina. In Ucraina è presente una numerosa componente etnica russa, e molti ucraini parlano il russo, alcuni si sentono russi. Per Putin queste persone non solo sarebbero state ingiustamente separate dalla loro patria, ma subirebbero anche campagne di pulizia etnica da parte del governo neo-nazista ucraino. Ma parlare russo non vuol dire automaticamente voler essere incorporati nella nazione russa. L’attuale forte resistenza all’invasione si manifesta anche nelle aree con significativa presenza di popolazione russofona e, stando alle cronache dalla guerra, pare che molti cittadini russofoni vi partecipino. La retorica della denazificazione si fonda su un timore presente nell’immaginario politico russo, motivato dall’aggressione hitleriana del 1941. Da allora, il timore nei confronti del nazismo è rimasto vivo e si è riacceso nel 2014, quando nel Donbass si è aperto lo scontro tra i separatisti filorussi, sostenuti anche militarmente dalla Russia, che avevano autoproclamato l’indipendenza dall’Ucraina delle Repubbliche popolari di Donetsk e di Lugansk, e l’esercito e le milizie ucraine. Nel sanguinoso pluriennale conflitto, cui non si è prestata adeguata attenzione, hanno perso la vita 14mila persone, si era distinto per le sue atrocità il Battaglione Azov, un reparto dell’esercito ucraino composto da neofascisti spalleggiati dall’estrema destra europea. Questo Battaglione, a metà tra un corpo di difesa del territorio e un’organizzazione criminale, ha commesso abusi e torture nei confronti dei separatisti filorussi, riconosciuti come crimini di guerra nel 2016 dall’Alto Commissariato dell’Onu per i Diritti Umani. Il presidente Ucraino, Zelensky, non ha mai preso le distanze apertamente da loro, né ne ha disposto lo scioglimento. Simmetricamente Putin si avvale di gruppi armati ceceni, che hanno le stesse “qualità”, se così vogliamo chiamarle, del Battaglione Azov: vengono utilizzati per le operazioni più sporche. Il Battaglione Azov, composto da 2.000 miliziani, principalmente volontari, non rappresenta l’Ucraina, né l’esercito ucraino, ma ha offerto a Putin un pretesto per generalizzare e identificare il governo ucraino e la sua popolazione come neonazisti. E cercare così di giustificare la sua aggressione, di sostenere il consenso all’intervento presso la popolazione russa memore dell’invasione tedesca nella Seconda guerra mondiale, e soprattutto decretare che il presidente Zelensky (eletto con il 70% dei suffragi) e il governo ucraino sono “nazisti” e devono comunque essere sostituiti con interlocutori più graditi e sottomessi a Mosca.

Le richiamate ingiunzioni di Putin sono sostanzialmente la pretesa di una resa incondizionata e l’Ucraina fino ad ora le ha respinte anche se pare che il presidente ucraino Zelenski abbia espresso una disponibilità a ricercare un compromesso sul Donbass e la Crimea e anche a prendere atto che non è possibile che l’Ucraina entri nella Nato. Vedremo.

 

A fronte di questa situazione l’UE, e i vari paesi europei aderenti, hanno finora mostrato una reazione unitaria e solidale nei confronti dell’Ucraina. Anche il governo italiano, malgrado la forte esposizione del nostro paese sul piano energetico e alimentare, ha condiviso le posizioni e le azioni decise a livello europeo, ottenendo su di esse un’approvazione a larghissima maggioranza del Parlamento. Una maggioranza però non del tutto omogenea, ad esempio sulla fermezza della condanna dell’aggressione russa, sulla durezza delle sanzioni e soprattutto sul sostegno all’Ucraina anche con l’invio di armamenti. Si vanno così delineando nel confronto pubblico, e anche nelle manifestazioni popolari, diverse tendenze. Il no alla guerra, il sì alla promozione della pace incentivando le azioni diplomatiche, e anche all’aiuto ai profughi, pur con diverse sfumature, è generalmente condiviso. Ma c’è chi alla decisa condanna contro l’aggressore, e agli sforzi diplomatici da incrementare, aggiunge l’esigenza di dare forte sostegno, con aiuti di ogni genere, umanitari ma anche militari, all’aggredita Ucraina. Altri, più tiepidi, richiamano l’espansione a est della Nato, sofferta come minacciosa dalla Russia per spiegare le sue attuali azioni, e mettono in discussione le sanzioni anche per i loro costi per noi. Pesano su taluni attori passate compromissioni con Putin e preoccupazioni di consenso popolare a fronte dei sacrifici economici che le sanzioni potranno comportare. Altri si pongono su posizioni di radicale dissenso rispetto alle scelte governative ed europee, riproponendo letture tutte ideologiche che appaiono avulse dall’attuale realtà. Ben diversamente da questi, altri ancora esprimono riserve culturali ed etiche degne di rispetto e confronto, e rifiutano l’invio di armamenti perché a loro parere la pace non la si promuove con le armi, ma con la testimonianza non violenta e le trattative diplomatiche ad oltranza. Naturalmente entro le varie posizioni sommariamente richiamate si collocano soggetti e gruppi con culture, storie e atteggiamenti diversi, che meritano di essere specificamente considerati e valutati, senza fare di ogni erba un fascio.

 

Il diritto internazionale condanna l’aggressore e afferma il diritto dell’aggredito a difendersi

Su torto e ragione il primo riferimento è rappresentato dal diritto internazionale. In merito è fondamentale l’art. 2.4 della Carta delle Nazioni Unite che recita: “I Membri devono astenersi nelle loro relazioni internazionali dalla minaccia o dall’uso della forza, sia contro l’integrità territoriale o l’indipendenza politica di qualsiasi Stato, sia in qualunque altra maniera incompatibile con i fini delle Nazioni Unite”. Abbiamo poi le norme di un trattato internazionale che riguarda specificamente l’Ucraina: il Memorandum di Budapest del 1994. Con esso l’Ucraina si impegnava ad aderire al trattato di non proliferazione nucleare, a rinunciare al suo armamento nucleare, 1.800 testate pari a un terzo di quello sovietico, a consegnarlo all’Urss per lo smantellamento in cambio dell’impegno di Russia, Usa e Gran Bretagna (cui si aggiunsero Francia e Cina) a rispettare l’indipendenza, la sovranità e l’integrità territoriale dell’Ucraina entro i confini di allora, ad astenersi da minacce e uso della forza anche nucleare contro l’Ucraina e dall’esercitare pressioni economiche per influenzarne la politica, ad attivare l’azione del Consiglio di sicurezza delle Nazioni Unite per fornire assistenza all’Ucraina in caso di atti di aggressione contro di essa. L’Ucraina ha rispettato il patto, la Russia l’ha violato, a partire almeno dal 2004. Le reazioni degli altri firmatari a queste violazioni sono state sempre ed evidentemente del tutto inadeguate rispetto all’impegno da loro assunto, incoraggiando così Putin a ulteriori iniziative, contando sull’impunità.

 

L’aggressione russa viola palesemente tanto l’art. 2.4 della Carta sopra esposto, che l’impegno specifico scritto nel Memorandum. Dopo che il veto russo ha bloccato una risoluzione del Consiglio di sicurezza, l’Assemblea generale delle Nazioni Unite il 2 marzo scorso ha approvato una risoluzione che condanna l’aggressione russa a grandissima maggioranza (141 voti a favore, 5 contrari, 35 astenuti) e riconosce che l’Ucraina sta esercitando il diritto all’autotutela previsto dall’art. 51 della Carta delle Nazioni Unite, e quindi può ricevere ogni assistenza, anche militare, da parte di paesi terzi. Anche la normativa italiana sull’export di armi vieta l’export a paesi belligeranti solo se il paese beneficiario viola l’art. 51 della Carta. Come fa la Russia, e non certo l’Ucraina aggredita che intende difendersi. Qui non si tratta di due paesi che si fanno reciprocamente la guerra, qui c’è un aggredito, l’Ucraina, e un aggressore, la Russia.

L’aggredito, pur a fronte di un aggressore molto più forte e armato, non si arrende, combatte per difendere la propria indipendenza, libertà, integrità territoriale, proprio quello che avrebbe dovuto essergli garantito dalle Nazioni Unite e dai firmatari del Memorandum di Budapest, e chiede a paesi amici di essere aiutato, con cibo, medicinali, altri soccorsi, e anche con armi. Le norme internazionali autorizzano a farlo.

 

Perché molti paesi ex-sovietici hanno aderito alla Nato

Ma c’è chi si oppone richiamando responsabilità della Nato che giustificherebbero l’intervento russo contro l’Ucraina. In particolare la mancata osservanza dell’impegno a non allargare ad est la Nato con l’inclusione di paesi che facevano parte dell’Urss e della sua rete di alleanze, o sudditanze, che alcuni Stati occidentali hanno assunto con Gorbaciov alla riunificazione della Germania e al disfacimento dell’URSS2. Un impegno non formalizzato in documenti ufficiali ma espresso verbalmente e per vie diplomatiche riservate. L’allargamento negli anni si è effettivamente verificato: Polonia, Ungheria e Repubblica Ceca sono entrate nella Nato nel 1999, poco prima della guerra nella Jugoslavia. Lituania, Lettonia ed Estonia, confinanti con la Russia, lo hanno fatto nel 2004. Hanno fatto seguito Bulgaria, Romania, Slovacchia, Slovenia, Albania, Croazia, Montenegro e Macedonia del Nord. Anche la Georgia e l’Ucraina avrebbero voluto fare altrettanto, ma la Nato ha rinviato al futuro le loro richieste. Tali adesioni sono avvenute sempre su esplicita richiesta di paesi con governi democraticamente eletti, che volevano inserirsi sempre più nel sistema economico, sociale, politico, culturale che l’occidente rappresentava ai loro occhi, e che cercavano di essere anche tutelati da un ritorno di pretese, ingerenze e minacce da parte russa. Timore giustificato, visti gli eventi attuali. Naturalmente tale allargamento rispondeva anche a interessi economici e di influenza degli Stati Uniti e di paesi europei, ma in un sistema di scambi crescenti non nuoceva alla Russia e alla sua crescita economica, e non rappresentava una minaccia militare alla sua sicurezza. Tanto è vero che essa non denunciò tali ingressi quando avvennero, ma più tardi quando Putin ridefinì la sua strategia, abbandonando via via una politica di buoni rapporti nel continente europeo per assumere una logica espansionistica, imperiale, volta a riallargare i confini della Russia (Crimea nel 2014) e a ricostruire attorno a questi una serie di Stati sotto la sua influenza o il suo controllo. Tutti Stati con regimi autoritari, sul modello russo, dove le manifestazioni di dissenso sono sempre duramente represse, anche con l’appoggio di forze russe (Bielorussia docet). Putin teme evidentemente l’appeal che i sistemi liberaldemocratici possono esercitare anche sulla popolazione russa per ragioni sociali, economiche, culturali e politiche, come è avvenuto per i paesi ex sovietici, appeal che l’infittirsi dei contatti e degli scambi internazionali negli ultimi decenni ha accresciuto.

A tale appeal concorre il differenziale nel tenore di vita, determinato anche dalla concentrazione di risorse della Russia sulle spese militari che la politica internazionale di potenza di Putin ha richiesto e continuerà a richiedere. Sul tenore di vita già basso delle popolazioni si verificherà anche l’impatto delle sanzioni economiche introdotte contro la Russia, che potrebbe concorrere ad alimentare il dissenso interno, coraggioso ma finora molto minoritario. Temendo questo il regime si impegna a controllare l’opinione pubblica e a scaricare su altri (i nazisti ucraini, la Nato, gli Stati Uniti) le responsabilità di quanto accade. Da qui il sistematico controllo e la manipolazione delle informazioni sulla guerra all’Ucraina, effettuato addirittura con la prescrizione o la censura delle parole da usare e delle informazioni da offrire, e con la repressione poliziesca dei cittadini russi che osano esprimere pacificamente il proprio dissenso rispetto alla guerra di Putin. Una guerra fra due popoli fra loro molto vicini, con frequenti intrecci e scambi, che la popolazione russa non condividerebbe se correttamente informata. Il carattere autoritario e repressivo del regime russo si evidenzia anche in questo.

 

L’allargamento della Nato è fondamentalmente l’esito di un differenziale fra sistemi fra cui i popoli hanno fatto e fanno, quando possibile, la loro scelta, e non può essere addotto da Putin a giustificazione di una aggressione armata verso un altro paese. Le iniziative militari di Putin in Georgia, Siria (con il criminale bombardamento di Aleppo, 440 morti), Crimea e ora Ucraina rappresentano la proiezione internazionale dell’autoritarismo e della repressione esercitato sullo stesso popolo russo con l’assassinio o la carcerazione di Alexander Litvinenko, Boria Nemtsov, Anna Politkovskaja, Alex Navalny, e ora l’incriminazione e la condanna fino a 15 anni di prigione per chi contesta la “operazione speciale” contro l’Ucraina3.

 

Resistenza armata o non violenta?

Fra le posizioni in campo nel confronto sulla guerra in Ucraina che abbiamo richiamato vi è anche quella di chi rifiuta ogni forma di partecipazione armata al conflitto e quindi anche l’invio di armi di qualsiasi genere. Posizione seria, che merita rispetto e considerazione, se chi la rifiuta verbalmente è anche disposto a praticare con coerenza e impegno il non uso della violenza fra le persone, i gruppi sociali, le nazioni, e accetta di subirne e farne subire tutte le conseguenze. Una tale scelta investe su una profonda trasformazione delle culture e delle pratiche sociali che comunque si propone per affermarsi in un orizzonte non breve, e che richiede però per crescere testimonianze e fedeltà anche nel presente. Personalmente a fronte di un aggredito che richiede un’arma per potersi difendere non mi sentirei di negargliela, perché è ora, nel presente, che lui, la sua famiglia, il suo paese stanno per essere violati, uccisi, massacrati, ed è sua la scelta sul subire o il difendersi. Il popolo ucraino fra il resistere combattendo attivamente, resistere con una resistenza passiva non violenta, l’arrendersi, fra libertà e vita, ha finora fatto le sue scelte di resistere con le armi (sembra vi siano stati episodi di resistenza non violenta in alcune città occupate dai russi), che credo vadano rispettate e sostenute nel modo più efficace e adeguato. Per resistere presto ed efficacemente a un’aggressione armata occorre l’arma, e la solidarietà chiede che io, che potrei o forse dovrei anche impegnarmi a combattere al suo fianco, almeno quella gliela dia. La resistenza italiana ha chiesto e usato armi, come le resistenze di altri popoli contro le aggressioni, anche effettuate purtroppo da noi o da paesi che consideriamo nostri amici, testimoniano quest’esigenza e spiegano nella storia, anche recente, questa scelta.

 

Altro punto di discussione è quello dell’insistente richiesta di Zelensky, formulata anche in tutti gli interventi ai parlamenti dei paesi che sostengono l’Ucraina, di imporre una no fly zone che ridurrebbe la disparità delle forze e dei mezzi in campo. Ad essa viene opposto un costante rifiuto per la ragione che per essere fatto rispettare si avvierebbe uno scontro armato diretto fra la Nato e la Federazione russa, che potrebbe degenerare in guerra nucleare e avviare la terza guerra mondiale. La prudenza politica sostiene questa scelta, offrendo però all’Ucraina strumenti di difesa antiaerea diversi, missili efficaci o droni, ad esempio, ma fa sorgere un altro angoscioso interrogativo. Se la prossima invasione russa fosse contro un paese aderente alla Nato, uno dei paesi baltici ad esempio, come e in che misura si rispetterebbe l’obbligo di difesa reciproca, quindi di intervento militare diretto e armato della Alleanza? Nell’ipotizzata situazione Putin giocherebbe lo stesso minaccioso ricatto che esercita oggi in Ucraina, e si porrebbero gli stessi rischi che ora fanno escludere la no fly zone. Che fare? C’è solo da sperare nell’effetto dissuasivo preventivo della formale copertura Nato e dell’attuale compatta reazione e in un qualche senso del limite del governo russo. A meno che, speranza somma ma non si sa quanto fondata, la guerra ucraina e i suoi effetti finiscano per ribaltarsi contro chi l’ha voluta e attuata con azioni indiscriminate e criminali, mettendo a rischio il suo ruolo e il suo potere.

 

Quando e come finirà…

Come finirà questa guerra nessuno oggi lo può dire, forse neppure entrando nella testa di Putin che potrebbe darci informazioni cruciali ma non essere molto chiara in merito. I terreni di gioco, mi si passi il termine improprio, sono tre: quello militare, quello delle sanzioni, quello diplomatico. I primi due sono di scontro, il terzo dovrebbe essere di confronto alla ricerca di una soluzione e dipende dall’andamento e dagli sviluppi che si determinano sugli altri due terreni, ma può anche a sua volta condizionarli. Aggiungerei un quarto terreno, quello della solidarietà umana, espressa con l’assistenza più generosa ai profughi.

Sul terreno militare si registra uno squilibrio di forze a netto vantaggio della Russia che contava però su successi rapidi che non si sono registrati nell’insieme e che ricorre quindi ad azioni sempre più devastanti contro le città che resistono. Una piena e totale vittoria della Russia ad oggi non pare probabile, sia per le difficoltà incontrate sia perché queste si moltiplicherebbero se volesse occupare l’intera ucraina (40 milioni di abitanti, estensione quasi doppia della Francia) dove probabilmente dovrebbe fare i conti con il diffondersi della guerriglia sostenuta ancora da aiuti esterni, e quindi di lunga durata. Le sanzioni a loro volta sono state assunte, alcune con effetti immediati, altre a più lungo periodo. Il loro impatto interno alla Russia è, ad oggi, solo iniziale e occorre attendere via via che si manifesti sul terreno finanziario e del tenore di vita, soprattutto della Russia, ma purtroppo per noi anche su quello dei paesi sanzionanti e sull’economia mondiale. Ambedue questi terreni non pare portino a previsioni chiare e attendibili e tanto meno a soluzioni prossime. La via maestra da percorrere è ancora e sempre quella diplomatica, alla ricerca di un compromesso, che non premi l’aggressore, salvaguardi naturalmente l’indipendenza e la libertà e la sicurezza futura della Ucraina e sostenga la sua ricostruzione, ma che offra a Putin perché l’accetti qualche via di uscita dalla crisi insensatamente da lui innestata, che non gli faccia perdere del tutto la faccia, con conseguenze che si protrarranno nel futuro, all’interno e nell’arena mondiale. Non dimentichiamo che la Russia nella versione imperiale putiniana è impegnata anche con presenza militare diretta o indiretta (Brigata Wagner) su tanti fronti esterni, dalla Siria, alla Libia, al Mali e al Centro Africa, con cui occorrerà fare i conti.

 

Sulla soluzione diplomatica è cruciale che investano con il massimo impegno, che non deve comportare nessuna riduzione del sostegno di ogni natura all’Ucraina, la UE e gli Stati Uniti, che con la Cina sono le due maggiori potenze mondiali, in grado di esercitare quindi influenti pressioni internazionali. La posizione della Cina è tuttora poco chiara e pare affiancare la Russia, pur con prudenza e preoccupazione per il futuro dell’economia mondiale. Anche la Turchia non ha assunto una chiara posizione e anche per la sua posizione geografica pare impegnata alla ricerca di una via di uscita dallo scontro militare. Le dichiarazioni di Putin, raggiungeremo tutti i nostri obiettivi, il suo uso spregiudicato delle citazioni evangeliche e del sostegno servile della chiesa ortodossa, le crescenti forze messe in campo, la distruzione devastante delle città, generano paura più che speranza. Ma ogni spiraglio diplomatico va comunque esplorato e percorso, perché tregua delle armi e pace sono beni supremi.

 

Come va continuato e moltiplicato l’impegno al sostegno dei profughi, immediato e per tutta il tempo in cui sarà loro precluso il ritorno alle loro terre e alle loro case. Un impegno che l’esodo dall’Ucraina ha fatto recepire a molti europei, ma che deve divenire più generale, verso tutte le vittime delle guerre e di altri disastri, senza badare al colore della loro pelle o alla lingua che parlano. Welforum.it continuerà a dedicare al tema dell’accoglienza costante attenzione.

  1. Abbiamo pubblicato la lettera aperta dei medici russi (circolano prese di posizione analoghe di altri gruppi professionali, come scienziati e insegnanti) e gli articoli di Maurizio Ambrosini sull’impatto di questa tragedia sulle politiche migratorie europee e sull’accoglienza in Italia. Segnaliamo anche ampi stralci del discorso di Draghi al Parlamento, che definisce la posizione e gli intendimenti del nostro paese.
  2. Che storia c’è dietro a questa mappa sulla NATO Il Post, 01/03/2022; P. Smolar P. Una guerra che cova da vent’anni, Le Monde, riproposto da Internazionale, 11/17 marzo 2022;
  3. Una tale affermazione ovviamente non assolve Stati Uniti, Stati europei e Nato dalle loro gravi responsabilità nella loro presenza internazionale, che vanno denunciate e criticate, ma non possono essere usate strumentalmente per coprire l’aggressione violenta della Russia all’Ucraina.

Commenti

Grazie di questa analisi chiara e interessantissima.
Leggerò l’articolo ai miei figli adolescenti perché è quanto di più ben scritto abbia letto in questo periodo.

Complimenti! Una lettura dei fatti chiara, precisa, pienamente aderente alla realtà storica e politica.
Solo gli sprovveduti o peggio i “Putiniani” potevano definire un uomo al comando di una potenza da ben 25 anni, eletto “democraticamente?” dopo che ha fatto uccidere e annientare qualsiasi forma di opposizione alle sue idee imperialiste, un grande statista democratico. Ai Paesi democratici la storia ha insegnato il valore della libertà, del rispetto, della collaborazione, del disarmo e della diplomazia, mentre tutti i Paesi governati da autocrati non hanno questa scala di valori e non sono queste le loro priorità. Consentire alla Russia di vincere questa guerra significherebbe che nessuno stato democratico potrà sentirsi al sicuro!