Non si è mai è parlato così tanto di crisi demografica e denatalità. Tutti si proclamano paladini della fecondità, si moltiplicano forum e convegni con una girandola di ricette, agende, priorità. Ma intanto dominano misure temporanee, rivolte a platee molto ristrette. E il Family Act, salutato due anni fa come il provvedimento che avrebbe cambiato tutto, naufraga nel silenzio generale. La legge 32/2022 delegava il governo a varare decreti attuativi per rendere strutturale la promozione di interventi a favore delle famiglie, dei giovani, delle donne.

Ecco: la delega all’esecutivo per attuare il piano è scaduta, senza l’emanazione di alcun decreto, e quindi addio a una fiscalità agevolata per le famiglie, al rimborso delle spese scolastiche, agli incentivi al lavoro femminile, alla riforma dei congedi parentali, alle agevolazioni per i giovani under 35. Rimane solo l’Assegno unico, da molti considerato insufficiente, inadeguato. La stessa ministra Eugenia Roccella ha bollato il Family Act come qualcosa di superato, forse perché promosso dalla sua predecessora, Elena Bonetti, e approvato poco prima del suo insediamento.

Ci rimangono le misure una tantum stabilite in legge di bilancio, l’ultima in modo particolare che ha introdotto l’aumento del bonus asilo nido, esistente dal 2017, e la riduzione dei contributi previdenziali per le madri lavoratrici, una new entry. In entrambi i casi ci si rivolge solo a chi ha già due o più figli. Nel caso del bonus nido, inoltre, l’Isee familiare non deve superare i 40.000 euro e, naturalmente, per essere utilizzato occorre che esista effettivamente un asilo nido nelle vicinanze: succede solo in un caso su quattro.

Nel recente Documento di Economia e Finanza (Def) il governo prevede che del taglio dei contributi beneficeranno 811.000 donne, mentre dell’aumento del bonus asilo nido possiamo stimare circa 200.000 beneficiari. Un milione di famiglie in tutto, in un Paese dove se ne contano 11 milioni con figli. Stiamo parlando di misure che toccano una famiglia con figli su undici. Pensare che così si possa rialzare il numero delle nascite significa essere molto ingenui, o molto demagogici.

Per incidere sulla natalità occorrono interventi stabili, strutturali, universalistici. Esiste già, peraltro, uno strumento strutturale a favore delle famiglie con figli, soprattutto se meno abbienti: l’Assegno unico. Perché non si è potenziato questo? Aggiungere, frammentare le misure disorienta le persone e non favorisce messaggi chiari e univoci verso la ripresa delle nascite.

Ma soprattutto, perché spingere verso il secondo e il terzo figlio? In Italia l’ostacolo vero sta nella creazione di nuovi nuclei desiderosi di diventare genitori. La vera priorità è favorire il primo figlio. Il secondo e il terzogenito appartengono a un orizzonte troppo remoto, in un paese con tassi di fecondità particolarmente bassi prima dei 30 anni e con un continuo rinvio delle nascite lungo l’arco di vita della donna. Ancora prima, occorre favorire i processi di autonomia delle giovani coppie, di transizione alla vita adulta, con tutto ciò che questo comporta, sul piano delle condizioni economiche e lavorative che permettono di uscire di casa e farsi una nuova vita.

Istat ha da poco pubblicato i risultati dell’indagine sui giovanissimi (11-19 anni) chiamata “Indagine bambini e ragazzi – 2023”, dove emerge che più di due su tre, il 69% di loro, vorrebbe avere figli. Per l’età interpellata si tratta più di una fantasia che di un progetto concreto, da realizzarsi a breve. Il tempo porterà questa aspirazione a un destino di incompiutezza, o di parziale compiutezza, per le condizioni in cui una parte di loro si troverà a vivere.

Condizioni che riducono la fiducia nel futuro, in una prospettiva di crescita, di cambiamento. Si insiste molto sulle condizioni di vita delle giovani generazioni, che ritardano e scoraggiano la genitorialità: lavori precari e sottopagati, il sempre più difficile accesso a una casa, il disequilibrio tra tempi di vita e di lavoro. Ma c’è anche un altro elemento, non meno importante, funzionale a una dimensione di progetto: l’appartenenza a soggetti collettivi, ai cosiddetti corpi intermedi, un’appartenenza che si è rarefatta. Realtà in cui ci si identificava, che ti facevano crescere e diventare adulti. Per chi scrive è stata l’Agesci. Gli anni della pandemia poi sono stati nefasti per molti giovani, deprimendo lo sguardo sul futuro, a favore di un presente infinito, molto individualizzato, che diventa la prigione dei sogni e delle fantasie di genitorialità immaginate nell’adolescenza.