Le Case della Comunità: tra il dire e il fare


Sergio Pasquinelli | 22 Novembre 2022

A che punto siamo con le Case della Comunità? Sono la grande promessa della sanità di territorio di domani, o meglio di dopodomani. La loro gestazione, infatti, sarà lunga: se ne prevedono 1.350 entro la metà del 2026. Ancora tre anni e mezzo per vedere compiuta questa ampia riconfigurazione della sanità di prossimità. Per dare un’idea, parliamo di 60 strutture nel solo Comune di Roma, 24 nella città di Milano.

 

È certamente prematuro trarne un bilancio, ma alcuni aspetti di attenzione vanno detti chiaramente, in mezzo al diluvio di dichiarazioni e di retorica che le circonda, mentre le prime Case della Comunità (CdC) stanno nascendo, il documento che ne regola l’organizzazione è stato emanato (il decreto del Ministero della Salute DM 77/2022) e le Regioni hanno individuato i luoghi in cui sorgeranno. In Lombardia è già stato tagliato il nastro a una ventina di strutture (anche se inaugurazione non è sinonimo di operatività), molte delle quali sono collocate entro plessi ospedalieri.

Dunque, almeno quattro punti di attenzione.

 

Primo. C’è una distanza abissale tra il dichiarato e l’effettivo. A parole tutti si pronunciano a favore dell’integrazione sociosanitaria, dell’inclusione delle risorse della comunità locale, della valorizzazione del lavoro multiprofessionale, della coprogettazione delle attività. Ma basta scavare poco per scoprire una realtà ben diversa, spesso arretrata, su cui peraltro vige una certa reticenza ad essere rivelata. Il tema qui è che manca e andrebbe coltivata una sensibilità e una domanda di valutazione. Una valutazione di merito delle attività, dell’organizzazione, dell’impatto generato sulla salute delle comunità. C’è un grande bisogno di lavorare in questo senso, per uscire dalla narrazione di facciata e capire cosa funziona e a quali condizioni.

 

Secondo. Il DM 77 parla di CdC “Hub” e “Spoke”. La versione Hub deve essere presente ogni 40/50.000 abitanti con una dotazione articolata di servizi e personale e a cui sono dedicati i finanziamenti del PNRR: 1,6 milioni di euro per ogni struttura. La versione Spoke è più snella e più diffusa, ma anche più incerta. Non ci sono risorse dedicate a questa seconda fattispecie, che dipende nei fatti dalle singole disponibilità regionali, dalla presenza per esempio di Case della Salute già esistenti – ce ne sono oltre 500 in Italia – che potrebbero essere riconvertite nella modalità Spoke. Questo sarà un elemento di forte differenziazione regionale. Questa versione infatti può incentivare maggiormente il coinvolgimento della medicina di base, che trova in essa un luogo più ravvicinato di dislocazione operativa. Difficilmente invece i medici di medicina generale lasceranno – anche solo parzialmente – i propri studi diffusi capillarmente a favore di una Casa Hub, soprattutto nelle aree meno urbanizzate dove l’estensione geografica è maggiore.

 

Terzo. Il personale operante nella CdC solleva diversi problemi. Primo fra tutti quello del suo finanziamento. I soldi del PNRR non vanno in questa direzione, ci vanno provvedimenti più recenti (decreto legge 34/2020 e legge di bilancio 2022), coprendo tuttavia circa la metà del fabbisogno complessivo per gli standard di personale previsti dal DM 771. C’è poi un problema di carenza di risorse umane, soprattutto infermieri di famiglia (ne servono oltre diecimila), che mancano e che difficilmente si riuscirà a formare in numero sufficiente nei prossimi anni. Ancora, c’è un tema riguardante il personale medico, riluttante a essere ricollocato in un luogo diverso da quello abituale, anche per poche ore alla settimana e, per i medici di base, inquadrato contrattualmente entro regole poco inclini all’integrazione con altre professioni e competenze2.

 

Quarto. Sull’integrazione sociosanitaria si è partiti col piede sbagliato. Se il PNRR prevedeva in più passaggi CdC con una forte integrazione tra interventi sanitari e sociali, con una stabile presenza di servizi sociali, il DM 77 parla di una generica “integrazione con i servizi sociali” senza indicare quali e con quale modalità. Tutto fa pensare che essa avverrà con i servizi che stanno fuori, nel territorio: anche perché lo standard di personale per la Casa della comunità Hub prevede solamente 1 (un) assistente sociale. Un assistente sociale per un bacino di 50.000 persone significa che questa figura si limiterà a fare da tramite tra i servizi sanitari interni e quelli sociali presenti sul territorio. Una situazione che porta verso un modello a vocazione sanitaria3, con un sociale totalmente ancillare. È qui che si materializza il rischio di diventare qualcosa di molto vicino a dei poliambulatori.

Oltretutto, si nomina il Punto unico di accesso (PUA) che le Case delle comunità devono assicurare, ma solo in relazione ai servizi sanitari. Lo sforzo di una integrazione con i servizi sociali è lasciato alla discrezionalità delle singole Regioni o dei singoli Distretti.

 

Sopra tutto ciò aleggia la “comunità”, ossia l’insieme delle risorse individuali e organizzate che il territorio esprime e che dovrebbe entrare nelle CdC come attore a pieno titolo, in fase di programmazione come in quello di realizzazione delle attività. Dimensioni che semplicemente non vengono considerate nel decreto ministeriale.

  1. Come mostra F. Pesarersi in: Le Case della Comunità. Come saranno, in “I luoghi della cura online” n. 3, 2022.
  2. Si veda su quest’ultimo punto: A. Barbato, A. Nobili, L. Garattini, Case di Comunità nel DM 77: tanti mattoni e poco personale?, in “Sanità 24 – Il Sole 24 Ore”, 12 luglio 2022.
  3. Francesco Longo e Angelica Zazzera individuano tre modelli di Case: della salute, sociosanitaria e della comunità, ciascuna a sua volta può assumere declinazioni diverse, si veda: Dalle Case della Salute alle Case della Comunità: quale vocazione?, in LombardiaSociale, 28 febbraio 2022.