Servizi, personale, costi: uscire dal gorgo


Sergio Pasquinelli | 28 Giugno 2022

Secondo la retorica mainstream il welfare sociale ha oggi bisogno di valorizzare le risorse umane per contrastare la carenza di figure professionali, il deficit di capitale sociale e lavorativo, la grande disaffezione e le ripetute dimissioni che stanno affliggendo il settore. E così tutti d’accordo con espressioni tanto generiche quanto compiacenti come “rimettere al centro la persona”, e con buoni propositi come quello di puntare sulla qualità del lavoro, la motivazione del personale, sul Terzo settore da “valorizzare”, perno di una prossimità dal basso.

 

Peccato che ci troviamo davanti a dinamiche che vanno in direzione totalmente opposta. Col paradosso che, talvolta, chi esprime i suddetti auspici poi alimenta queste stesse dinamiche: precariato, salari che non crescono ma che anzi tendono a contrarsi, enti gestori che aumentano i costi a carico dell’utenza, amministrazioni che riducono le rette riconosciute agli enti accreditati, chiusura di servizi e crescenti difficoltà, da parte del Terzo settore, a tenere in equilibrio i bilanci.

Fattori trasversali, ma che si esprimono in maniera più evidente nelle comunità per minori, che faticano a reggere i costi di gestione, con convenzioni non più in linea con gli attuali livelli di spesa. È in atto un ridimensionamento delle rette nelle comunità mamma/bambino e nei servizi per i disabili. Il tutto nel calo di reputazione di questi servizi e un disimpegno degli educatori, sempre meno disposti a lavorarci: si veda qui il video del CNCA.

 

Una congiuntura economica molto complicata è andata a sbattere anche sul welfare sociale. Un’inflazione al 7%, l’impennata del costo della vita e una probabile recessione alle porte stanno mettendo a dura prova i servizi sul territorio, la loro sostenibilità. E messi alla prova sono, in primis, gli enti del Terzo settore, soprattutto quelli più dipendenti dai finanziamenti pubblici, la maggior parte.

Come uscirne? Quello di abbassare l’asticella dei titoli di studio richiesti (così l’Oss diventa un “vice infermiere”, l’educatore professionale viene sostituito con chi ha un semplice diploma e così via) è un espediente al ribasso con il fiato corto e il rischio di dequalificare i servizi. Serve una rimodulazione dei sistemi formativi, evidentemente non in grado di rispondere all’attuale domanda di lavoro.

Sul lato delle rette, occorre che il governo della spesa pubblica prenda atto di uno scenario in evoluzione, dei mutati costi di gestione dei servizi, adeguandoli tempestivamente, quantomeno per mantenere la rete attuale, se non per svilupparla là dove possibile e necessario. Il fattore tempo è qui cruciale, e purtroppo i tempi della pubblica amministrazione non aiutano. Perché questa presa d’atto va fatta ora, hic et nunc, non l’anno prossimo, perché l’anno prossimo potrebbe essere tardi per molti servizi.

Perché questo accada vanno fatte pressioni, azioni di lobby, e qui sono cruciali delle alleanze di scopo, delle azioni collettive, in un momento in cui ciò che avviene propende per l’esatto opposto: tende ad allontanare, a far sì che ognuno giochi il suo gioco, alimenta competizione e non collaborazione. Creare viceversa delle intese che uniscono forze diverse può fare la differenza. Le rappresentanze del Terzo settore e della cooperazione sociale sono state finora piuttosto assenti su questo terreno, ancor più le parti sociali.

Inoltre, nei servizi per cui sono previste rette a carico dell’utenza, tipicamente le RSA, si apre un trade off tra la tutela dei lavoratori, con i loro diritti, necessità, attenzioni, e la tutela degli ospiti: con i loro diritti, necessità, attenzioni. Nel contesto di un aumento dei costi generali di struttura. Mantenere, se non aumentare, i salari, tenendo ferme le tariffe a carico dell’utenza diventa una missione quasi impossibile. Da fronteggiare in diversi modi: diversificando e ampliando l’offerta di servizi, pensando a una nuova organizzazione del lavoro, intercettando nuove possibili linee di finanziamento.

 

Uscire dall’angolo, dal circolo vizioso aumento-dei-costi/disaffezione-del-personale è, per il welfare territoriale, e per il Terzo settore in particolare, la sfida di oggi. Per vincerla non si può rimanere da soli, occorre una strategia di alleanze, collaborazioni tra simili e tra diversi. Con l’idea che il “sociale” venga riconsiderato, rivalutato, ricollocato, smettendo di subire la posizione di un settore a sé stante: deve intrecciarsi con un’idea ampia di welfare, che include l’ambiente e la transizione ecologica, la salute, la cultura, l’abitare. C’è già una moltitudine di progetti che lavorano su queste connessioni: vanno moltiplicati, coltivati, consolidati. Perché così si alimenta anche un senso di identità professionale, di appartenenza ad un campo più ampio, interconnesso, che fa della diversità un valore.

Questo significa uscire da un sociale autoreferenziale, considerato un “costo”, e ribaltare la prospettiva: diventa investimento perché può prevenire il disagio, può intercettare il bisogno prima che si trasformi in sofferenza conclamata. Le azioni che promuove riguardano la cura, la salute, l’educazione non solo dei più fragili ma di tutti. Un welfare per tutti.