Il lavoro povero: radici strutturali e rimedi


Tiziano Treu | 15 Novembre 2019

Le criticità del nostro mercato del lavoro

Le tendenze e le criticità del lavoro sono oggetto di molte indagini, fra cui quelle contenute nel rapporto sul mercato del lavoro elaborati di recente dal CNEL. I vari contributi esaminano e approfondiscono con dovizia di dati e di argomenti le diverse criticità presenti nel nostro Paese: dalla persistente bassa intensità e qualità del lavoro, alla diffusione del part time involontario, alla polarizzazione dell’occupazione, alla drammatica persistenza della disoccupazione giovanile, fino in particolare alle crescita del fenomeno del lavoro povero1.

Un punto comune delle analisi del CNEL, peraltro condiviso dagli osservatori più attenti e imparziali, è che tutte le criticità rilevate non sono una conseguenza contingente della crisi degli anni passati. Questa le ha solo aggravate. Esse riflettono caratteri strutturali dell’economia italiana che ormai da parecchi anni non vede crescere quei settori e quelle attività ad elevata produttività e alto valore aggiunto che soli sarebbero in grado di offrire posti di lavoro molto qualificati e a tempo pieno.

D’altronde questo è l’inevitabile risultato di venti anni in cui secondo le statistiche OCSE la percentuale di investimenti in ricerca e sviluppo sul prodotto interno lordo supera di poco la metà della media dei paesi occidentali.

È significativo a tale proposito che la debolezza della nostra occupazione è dovuta in larga misura alla carenza di occupati a tempo pieno e indeterminato, soprattutto con qualificazione medio alta. Per questo il ricorso a incentivi diretti a sostenere l’occupazione a tempo pieno e indeterminato è di per sé insufficiente.

Servono invece interventi strutturali, a cominciare da maggiori investimenti pubblici e privati soprattutto nei settori innovativi dell’economia e per altro verso nella formazione di qualità dei lavoratori e degli imprenditori.

Le conclusioni di queste analisi dovrebbero essere attentamente considerate dai policy makers, perché confermano la necessità di evitare soluzioni frettolose di breve periodo e dovrebbero invece sollecitare misure economiche e sociali di medio periodo.

Il fenomeno del lavoro povero dà una prova particolarmente eloquente di questi caratteri e dell’urgenza di adottare soluzioni all’altezza della gravità dei problemi.

 

Fattori e caratteri del lavoro povero

La crescente gravità e diffusione della povertà fra i lavoratori e fra le loro famiglie sono da ricondursi a vari fattori: non solo alla crisi economica, ma anche al minor numero di ore lavorate, alla precarietà dell’occupazione, all’impiego di manodopera poco qualificata specie nelle piccole imprese e d’altra parte alle scelte di aziende dotate di forte potere di mercato che decidono di scaricare il contenimento dei costi soprattutto sui salari dei lavoratori.

Inoltre il lavoro povero si concentra maggiormente in alcuni settori caratterizzati da minore valore aggiunto, minore produttività e quindi livelli retributivi mediamente più bassi. Il fenomeno riflette più in generale l’asimmetria del progresso tecnico, che ha favorito la domanda di lavoratori qualificati.

In particolare, come specifica C. Lucifora, in un saggio pubblicato nel volume Arel a cura di C. Dell’Aringa e P. Guerrieri2, un fattore rilevante è la terziarizzazione dell’economia che sposta l’economia dalla manifattura verso i servizi. E proprio molti settori dei servizi, alberghi, ristorazione, logistica, servizi alla persona, sono caratterizzati da lavoro poco qualificato e da bassa produttività.

Alcuni di questi servizi spesso non riescono a stare sul mercato e quindi vengono autoprodotti all’interno delle mura domestiche, oppure trovano rifugio nel sommerso. In molti paesi alcuni di questi servizi sono direttamente, o indirettamente, sussidiati attraverso trasferimenti ai lavoratori a basso reddito o alle famiglie in povertà.

In vari Stati europei i dati riportati da Lucifora mostrano che proprio in questi settori è più elevata la quota di occupazione povera, e che senza interventi specifici – anche in forma di sussidio – l’occupazione si rifugia nella produzione domestica e nel sommerso. Infatti il lavoro povero si alimenta anche attraverso un diffuso ricorso all’irregolarità occupazionale.

Tutti gli indicatori mostrano che il lavoro povero e le diseguaglianze di condizioni fra gruppi di individui sono maggiori in Italia rispetto alla media dei paesi OCSE. La nostra si caratterizza come una economia low cost, con bassa qualità del lavoro, e con livelli retributivi inferiori alla media sia dell’Eurozona sia dell’Europa a 28.

Se quando si parla di lavoro povero ci si riferisce per lo più all’occupazione dipendente, è necessario sottolineare che il fenomeno è diffuso anche fra i lavoratori autonomi, specie fra quelli che lavorano per un solo committente e spesso svolgono lavori etero organizzati.

Le stime riportate da Lucifora indicano che nel 2015 si trovano in condizioni di povertà relativa (con redditi inferiori ai 2/3 delle mediane per i dipendenti) circa 582.000 lavoratori pari al 20% degli autonomi senza dipendenti (altre stime indicano un numero di 700.000). E tale presenza è segnalata anche in molte aree delle professioni intellettuali3.

 

Il tentativo operato dalle normative recenti, dal 2012 al Jobs Act del 2015, di frenare il ricorso a forme di lavoro pseudo autonomo, a copertura di occupazione subordinata, rischia di essere vanificato dalle disposizioni fiscali del Governo attuale4. Infatti il favore introdotto col regime fiscale forfettario per i lavoratori autonomi crea un grave squilibrio rispetto all’imposizione sul lavoro dipendente e costituisce così un incentivo a una rinnovata ricerca di forme elusive sotto forma di lavori solo formalmente autonomi.

Un altro fattore strutturale, quello delle nuove tecnologie, ha aumentato la domanda di lavoro qualificato e ben pagato, ma ha per altro verso ridotto la quota di lavoratori con competenze e redditi medi, e invece accresciuto la domanda di lavoro flessibile a bassa qualifica e basso reddito, spesso occupato con contratti di lavoro non standard5.

 

L’effetto è particolarmente grave in Italia dove la polarizzazione del mercato del lavoro, che è comune ad altri paesi, si è rilevata in modo asimmetrico, cioè con una crescita accentuata dei lavori poco qualificati e un aumento ridotto di quelli ad alta qualificazione.

In questo contesto il lavoro femminile si conferma come il più minacciato, da fenomeni di precarietà, di bassa intensità occupazionale e bassi salari, quindi più esposto al rischio di povertà. Le donne presentano quote maggiori di quelle dei maschi sia nei lavori a termine (la loro percentuale è del 14,8, contro il 12,8% degli uomini), sia soprattutto nel part time (18,4% involontario, contro il 6% degli uomini).

Per di più negli altri anni si è assistito alla crescita del part time involontario, che contribuisce a ridurre pesantemente il reddito dei lavoratori e delle famiglie; anche perché i salari di questi lavoratori non sono proporzionali come vorrebbe la legge, ma sono più bassi di quelli dei lavoratori a pieno tempo. Più in generale non si può dimenticare che circa 1/3 del lavoro povero si concentra nel Sud Italia, nonostante gli occupati di tali aree siano meno del 20% dell’occupazione dipendente totale.

 

Lavoro ed economia sommersa

Altrettanto significativa è la difficoltà di contrastare le varie forme di irregolarità del lavoro sommerso. Questo rappresenta in molti paesi emergenti e in via di sviluppo una parte maggioritaria del mondo del lavoro6, ma è consistente anche in quelli sviluppati (da noi si stima ad oltre il 15%). E risulta molto difficile farlo emergere. Significativamente l’India che ha fatto grandi progressi nella crescita economica e tecnologica non è riuscita a ridurlo neppure in piccola parte.

Anche i nostri tentativi degli anni ’90, specie nel settore tessile, di intervenire con i cosiddetti contratti collettivi di emersione hanno avuto poco seguito.

 

Non a caso l’OIL indica che per perseguire con successo questo obiettivo serve un approccio integrato di policies, cioè interventi che vanno oltre le misure e le regole del lavoro, ma che riguardano il contesto economico e sociale in cui matura l’economia informale, relativo non solo ad aree arretrate ma anche settori moderni investiti dalle nuove tecnologie come la logistica.

Si tratta di interventi per lo sviluppo sia economico sia istituzionale e sociale di azioni per il sostegno alla legalità, alla formazione di capitale e al rafforzamento delle reti sociali. Iniziative specifiche sono raccomandate dall’OIL per rimuovere gli ostacoli che si frappongono alla formalizzazione e alla crescita delle attività in questione. Fra queste si menzionano in particolare la semplificazione degli adempimenti burocratici per la costituzione e lo svolgimento delle attività e per la gestione dei lavoratori, nonché le misure per favorire l’accesso agli strumenti necessari a tal fine: servizi finanziari, informazioni e consulenze sulle opportunità di business e di lavoro, possibilità di competere per gli appalti pubblici, sostegno alla formazione manageriale.

Nelle materie direttamente attinenti al lavoro è sottolineata l’importanza di rafforzare i servizi ispettivi che sono quasi dovunque sottodimensionati rispetto alle necessità, qualificandone il personale per adeguarlo al difficile compito di prevenzione e controllo dell’illegalità. Peraltro si riconosce che questo tipo di interventi non è sufficiente e va integrato con un insieme di misure preventive e di incentivi alla regolarità.

Un intervento più diretto può configurarsi nei confronti di quel lavoro informale o irregolare che si manifesta nei processi di decentramento produttivo (catene di appalti e subappalti) diffusi anche in settori avanzati dell’economia.

Molti ordinamenti giuridici hanno introdotto forme di corresponsabilità variamente estesa in capo alle imprese capofila del decentramento per l’inosservanza dei trattamenti standard lavoristici e di sicurezza sociale da parte degli appaltatori e subappaltatori.

 

Interventi legislativi e contrattuali: il salario minimo

Le indicazioni fin qui fornite confermano la necessità di intervenire nel fenomeno del lavoro povero con un complesso di politiche che riguardano insieme l’offerta di lavoro (migliore istruzione e qualificazione dei lavoratori) e più produttività e più qualità della domanda.

L’obiettivo primo, ricordato anche all’OCSE, è di creare “more and better jobs” cioè più posti di lavoro e lavori più qualificati in grado di fornire opportunità di reddito ai lavoratori dei vari tipi.

Altrettanto necessario è dare priorità a politiche economiche finalizzate alla buona occupazione, anche favorendo la transizione al mercato di molti lavori di cura, ora in Italia confinati alla produzione domestica; e combinarle con politiche attive dirette a migliorare il funzionamento del mercato del lavoro, riducendo il mismatch, che è particolarmente alto in Italia, e a favorire la transizione fra diversi lavori in un mercato altamente mobile.

Un compito importante può essere svolto dalla contrattazione collettiva nazionale che, come rilevano anche gli osservatori internazionali, è decisiva per sostenere i redditi e per ridurre le diseguaglianze.

Molte ricerche, comprese quelle del Cnel, mostrano come uno degli strumenti di contrasto al lavoro povero, adottato in quasi tutti i paesi europei, sia il salario minimo legale7.

A fronte delle perplessità delle parti sociali, sia datori di lavoro sia sindacati dei lavoratori, Lucifora rileva come gli studi economici siano concordi nel ritenere che le ricadute dell’introduzione di questa misura sulla disoccupazione siano nulle e quelle sull’occupazione siano assai modeste.

Inoltre, nei paesi che hanno da tempo introdotto forme di salario minimo, queste coesistono con la contrattazione collettiva senza alterarne il funzionamento.

Molto dipende dalle modalità con cui si definiscono i minimi legali e i livelli cui sono fissati.

Non a caso gran parte dei paesi europei hanno coinvolto le parti sociali, anche con commissioni tripartite stabili, nel processo di introduzione e di adeguamento periodico del salario minimo. È una strada da seguire anche in Italia, come ha suggerito il Cnel, per evitare la fissazione di livelli insostenibili al nostra economia. In alcune simulazioni e ipotesi svolte dal Cnel si è indicato8 che una scelta prudente in materia potrebbe prendere come riferimento un livello salariale compreso fra 7 e 8 Euro, non troppo distante dalla soglia di povertà retributiva pari a 7,80 euro, (in termini di retribuzione lorda oraria 2015)9.

Il salario minimo non è l’unica misura che può contrastare il lavoro povero, ma potrebbe garantire – in virtù di una maggiore forza prescrittiva – una protezione più efficace nei confronti dei bassi salari, riducendo la discrezionalità e gli abusi nella determinazione dei livelli retributivi. Nei confronti di alcuni gruppi di lavoratori, come ad esempio i giovani (che spesso alternano studio e lavoro) e gli apprendisti (per i quali il contenuto formativo costituisce un costo aggiuntivo per le imprese) dovrebbe essere utilizzata particolare cautela eventualmente introducendo deroghe rispetto ai minimi generali come già avviene in molti paesi europei.

 

Servono in ogni caso misure ulteriori. Come suggerisce la strategia europea e come il CNEL ha di recente raccomandato al Parlamento e al governo, è necessaria una riduzione significativa e stabile del cuneo fiscale sui salari, con particolare riguardo a quelli dei lavoratori con basso salario. Tale misura è da combinare con politiche dirette a favorire la partecipazione dei lavoratori a buone occasioni di lavoro e ad accrescere l’intensità occupazionale.

Inoltre in questa direzione gli interventi sul salario minimo possono essere concepiti come integrativi e non solo come sostitutivi dell’occupazione. Indicazioni in tal senso sono venute anche in questo dibattito, e sono presenti nelle esperienze di altri paesi, riportate da Lucifora. Un particolare rilievo è dato al caso della Svezia che sussidia con misure specifiche i lavori di cura e sociali di mercato, anche attraverso trasferimenti alle famiglie ove l’iniziativa del lavoro povero è maggiore, così da elevare l’intensità occupazionale in tali settori10.

 

Regole per le relazioni industriali: efficacia generale dei contratti collettivi

L’esperienza dei paesi vicini suggerisce l’importanza anche per questo aspetto di un sistema di relazioni industriali ben regolato e sostenuto dalla legge. Condizioni che sono storicamente mancate nel nostro ordinamento per motivi ben noti. Oggi risulta sempre più critica l’anomalia dell’ordinamento italiano di essere privo di regole certe sui punti essenziali del sistema di Relazioni Industriali, la rappresentatività delle parti sociali e l’efficacia dei contratti collettivi.

 

La legislazione di gran parte dei paesi europei ha rafforzato la contrattazione collettiva riconoscendo ai contratti nazionali efficacia giuridica non solo fra le parti, come è oggi in Italia, ma anche erga omnes.

Tale legislazione di estensione dei contratti è intervenuta con priorità rispetto alle misure di salario minimo e ha contribuito a circoscrivere l’intervento di queste a settori e aree marginali.

L’estensione e il riconoscimento per legge è un intervento urgente anche in Italia dove lo status meramente privato dei contratti collettivi aumenta la loro difficoltà di garantire retribuzioni adeguate alla generalità dei lavoratori e favorisce l’evasione di quelle contrattualmente fissate.

Le dimensioni del fenomeno sono variamente stimate dalle diverse fonti; ma la maggior parte di queste indicano che circa il 20% dei lavoratori dipendenti con contratto a tempo determinato e a orario pieno sono pagati meno dei minimi contrattuali, con consistenti distanze da questi livelli, in particolare nei settori dei servizi: esse sono stimate al 35,1% nel settore mobiliare, al 24% nel commercio; al 21,4% nel settore alberghiero e ristorazione e turismo11.

Tale intervento legislativo è tanto più necessario a fronte della proliferazione dei contratti collettivi nazionali rilevata anche dal Cnel. Il numero dei contratti collettivi nazionali di lavoro si è accresciuto negli ultimi anni del 58%, e segnala un eccesso di frammentazione delle sigle stipulanti, sia da parte sindacale sia da parte datoriale12.

La pluralità delle sigle dei contratti collettivi rientra sicuramente nel principio costituzionale di libertà sindacale; e così è anche per la possibilità di una coesistenza di più contratti nello stesso ambito di riferimento, perché non esiste nel nostro ordinamento una categoria legale. Ma la proliferazione contrattuale assume aspetti preoccupanti quando genera fenomeni di dumping contrattuale che organizzazioni poco rappresentative sostengono allo scopo di ottenere trattamenti al ribasso rispetto a quelli concordati fra le organizzazioni più rappresentative.

Questa contrattazione al ribasso influisce negativamente non solo sui trattamenti e sulle condizioni attuali dei lavoratori contribuendo al fenomeno dei lavoratori poveri, ma anche sulle loro prospettive pensionistiche, perché viola la normativa (legge 712/ 1989, n. 389) secondo cui la retribuzione da prendere a riferimento per il calcolo dei contributi di previdenza e di assistenza sociale non può essere inferiore ai minimi retributivi stabiliti dai contratti collettivi stipulati fra le organizzazioni nazionali comparativamente più rappresentative delle parti.

 

Estensione della parte salariale dei contratti collettivi e salario minimo legale

È proprio la crescente erosione delle tutele contrattuali che ha convinto gran parte degli esperti della necessità di rafforzare per legge anzitutto i meccanismi della contrattazione e ove necessario di intervenire con una legislazione sui minimi.

Le confederazioni sindacali, mentre hanno confermato la loro contrarietà a un salario minimo legale, hanno avanzato una proposta alternativa che la distingue dalle precedenti richieste di erga omnes. Essa non propone infatti di estendere per legge l’efficacia dell’intero contenuto dei contratti collettivi, ma di operare solo sulla parte salariale, o meglio sui livelli salariali di base fissati dai contratti di categoria, prendendoli a riferimento come garanzia salariale minima per le vari categorie e qualifiche di lavoratori. Tale operazione potrebbe giustificarsi come attuazione del principio di retribuzione proporzionale e sufficiente sancito dall’art. 36 Cost. E così potrebbe evitare le tradizionali obiezioni ex art. 39 Cost13.

 

Se si volesse dare seguito alla proposta confederale occorrerebbe peraltro definire gli elementi che compongono i salari di base e da estendere erga omnes.

Tale questione è risolta nei diversi contratti nazionali in modo tutt’altro che uniforme. Essa si connette con il tema del ruolo salariale del contratto collettivo, che è oggi al centro delle controversie fra le parti a proposito della struttura contrattuale.

È evidente che tale proposta è diversa da una legislazione sui salari minimi, quale configurato nella maggior parte dei paesi. In tali paesi il salario minimo legale è di norma fissato in una unica misura standard, cioè non differenziata per settore né tanto meno per qualifiche.

Viceversa l’estensione erga omnes della parte salariale dei contratti collettivi nazionali comporterebbe salari legali differenziati per i diversi settori e per le diverse qualifiche/categorie. La differenza fra i due approcci è evidente non solo sul piano normativo, ma anche quanto agli effetti economici sulle dinamiche salariali e sugli equilibri della struttura contrattuale.

I due meccanismi di tutela – estensione della parte salariale dei contratti e salario minimo legale – non sono incompatibili. La loro coesistenza è testimoniata dalle esperienze straniere e si giustifica anche in base all’art. 36 della nostra Costituzione, riconoscendo ai minimi legali la funzione di specificare il principio di sufficienza retributiva, e alla contrattazione collettiva erga omnes, di attuare il principio della proporzionalità del salario alla qualità e quantità del lavoro.

Ma la decisione di attribuire (finalmente) efficacia generale ai contratti collettivi nazionali almeno per la parte salariale presuppone che esistano regole certe per identificare gli attori rappresentativi che operano nella contrattazione. Ma anche per questo aspetto cruciale per il sistema, il nostro ordinamento è carente. L’esigenza di provvedere è avvertita nei ddl già citati a firma Catalfo e Nannicini, ma il cui esito non è certo.

 

Criteri di rappresentatività delle parti sociali

I criteri di rappresentatività delle parti sindacali, nonostante siano stati concordati da tempo dalle maggiori confederazioni, sono oggi contrastati da vari sindacati autonomi, compresi alcuni che avevano sottoscritto gli accordi interconfederali in materia.

Per altro verso, data la natura privatistica della fonte confederale, non vincolano i non firmatari e neppure le autorità pubbliche vigilanti, (Ispettorato e Ministero del Lavoro). Tanto è vero che questi spesso adottano non i criteri confederali, ma quelli tradizionalmente utilizzati dalla giurisprudenza per accertare la rappresentatività sindacale, che non si riferiscono solo alla consistenza oggettiva delle organizzazioni ma sono di varia natura, anzianità di attività, storia contrattuale, presenza sul territorio, ecc. Solo di recente le parti hanno affrontato il problema di definire criteri di rappresentatività delle associazioni datoriali, perché la questione ha avuto rilievo pratico solo negli ultimi anni, quando si sono costituite non poche associazioni datoriali diverse da quelle storiche, di varia natura e consistenza.

Il che ha contribuito a una grande frammentazione associativa specie nei settori dei servizi, con la proliferazione di contratti collettivi, spesso conclusi “al ribasso” rispetto agli standard dei contratti maggiormente rappresentativi.

 

L’adozione di criteri di rappresentatività anche per le organizzazioni datoriali, servirebbe a razionalizzare sia il panorama associativo sia le forme e i contenuti contrattuali14. L’esempio più recente di intervento legislativo su questo argomento è quello della legge francese del 17 agosto 2016 (ora art. 2151 del Codice del lavoro); che definisce la rappresentatività dei datori in base a vari criteri sia qualitativi (rispetto dei valori repubblicani, indipendenza, trasparenza finanziaria, anzianità di almeno due anni, influenza delle attività), sia quantitativi (presenza equilibrata nel settore di competenza e numero di imprese aderenti pari ad almeno l’8% delle aziende del settore).

 

Come si è già detto, il contrasto al lavoro povero richiede una pluralità di strumenti di varia natura.

Quelli da ultimo ricordati che riguardano l’efficacia erga omnes dei contratti collettivi nazionali e la rappresentatività delle parti sociali, ne rappresentano un parte specifica, ma importante. Infatti essi sono rilevanti per sostenere un sistema di relazioni Industriali che è indebolito da pressioni delle nuove tecnologie della globalizzazione, ma che deve ancora svolgere un ruolo importante per assicurare condizioni di lavoro e di vita decorose a tutti i lavoratori per ridurre le diseguaglianze e per combattere la povertà nel lavoro.

  1. Cnel, XX Rapporto Mercato del lavoro e contrattazione collettiva, 2017-2018, spec. sez. I, pg. 27 – 95.
  2. C. Lucifora, “Working poor e politiche dell’impiego”, in C. Dell’Aringa, P. Guerrieri (a cura), Inclusione, produttività, crescita, Arel, Il Mulino, 2019, p. 427 ss.
  3. C. Lucifora, Working poor, in Inclusione, produttività, crescita, cit., p. 427 ss.
  4. n.d.r. L’autore si riferisce al primo Governo Conte
  5. S. Scarpetta, The future of work, Conference INAPP- ANPAL- CNEL, 9 nov. 2017, www.CNEL.it.; M. Arntz, T. Gregory, U. Zierahn, “The Risk of automation for Jobs in OECD Countries”, OECD Social, Employment and Migration, WP, n. 189, 2016; Eurofound, Automation, Digitalization and Platform: Implications for work and Employment, 2018.
  6. V. ILO, Transitioning from the Informal to the Formal Economy, International Labour Conference, 2014, Recomandation, 2015; T. Treu, Trasformazioni del lavoro: sfide per I sistemi nazionali di Diritto del lavoro e di sicurezza sociale, Relazione al Congresso ISLSSL, Torino, 4-9 sett. 2018, ora in W.P. C.S.D.L.E., IT, 371/2018, n. 7.
  7. n.d.r. Segnaliamo che su questo tema Welforum.it ha recentemente pubblicato un Punto di Welforum
  8. Audizione CNEL davanti alla Commissione Lavoro del Senato, 13 marzo 2019.
  9. C. Lucifora, Working poor, cit., p. 451 ss.
  10. C. Lucifora, Working poor, cit., p. 454 ss.
  11. C. Lucifora, Working poor e politiche per l’occupazione, cit., p. 440 ss.
  12. Cnel, Archivio dei contratti.
  13. Cfr. argomenti e ulteriori analisi in T. Treu, “Contrattazione e rappresentanza”, in C. Dell’Aringa, C. Lucifora, T. Treu (a cura), Salari, produttività, diseguaglianze, Arel, il Mulino, Bologna, 2017, p. 350 ss.
  14. Cfr. M. Forlivesi, La rappresentatività datoriale: funzioni, modelli, indici di accertamento, in Lavoro e Diritto, 3, 2018, p. 521 ss.