RdC, redistribuzione dei redditi, lavoro


Massimo Baldini | 15 Novembre 2019

La prima parte di questo intervento è dedicata a una sintesi dei principali punti critici della spesa sociale contro la povertà in Italia; la seconda si concentrerà su alcune caratteristiche del Reddito di cittadinanza (Rdc), in particolare sulla sua relazione con le condizioni lavorative dei beneficiari.

 

La spesa sociale contro la povertà

Affinché un trasferimento monetario abbia efficacia nel redistribuire risorse, sono necessarie due condizioni. La prima è che l’importo destinato a questo trasferimento (o insieme di trasferimenti con target simile) sia significativo: se le risorse sono scarse, i risultati non potranno che essere mediocri. La seconda condizione è che il targeting della misura sia efficace, cioè che le risorse non vadano disperse anche a favore di soggetti diversi dal gruppo che si intende raggiungere.

Quanto alla prima condizione, è noto che la spesa sociale italiana è squilibrata a favore delle pensioni, quindi dedica un budget ridotto, rispetto agli altri principali paesi europei, al sostegno della famiglia e al contrasto della povertà.

Secondo le statistiche della protezione sociale elaborate dalla Commissione europea, ad esempio, nel 2017 le voci Old age e Survivors rappresentano assieme il 58% della spesa sociale italiana, contro una media del 47% circa nell’area dell’euro (inclusa la stessa Italia, che incrementa questa media). Viceversa, la voce Family/children occupa il 6,3% della spesa sociale, contro l’8,2% dell’area euro, mentre per la categoria Social exclusion i corrispondenti valori sono 1,1% e 2%. Va comunque sottolineato che il peso di entrambe queste voci è in significativa crescita in Italia negli ultimi anni, almeno a partire dal 2012. Rimane una differenza importante rispetto agli altri paesi europei.

La spesa in denaro per i trasferimenti diversi dalle pensioni, inoltre, non è solo modesta, ma è anche scarsamente concentrata a favore dei redditi bassi, come ad esempio mostrato in Ranci Ortigosa e Mesini (2016). La figura 1 mostra, per decili di reddito disponibile familiare, quante famiglie in ogni decile ricevono almeno un trasferimento monetario diverso dalle pensioni nel 2015. In Italia solo il 35% dei nuclei che compongono il 10% più povero sono raggiunti dai trasferimenti monetari, la quota più bassa tra i grandi paesi europei che la figura considera.

 

Figura 1 – Quota di famiglie che ricevono almeno un trasferimento monetario diverso dalle pensioni, per decili di reddito

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Fonte: Elaborazioni dell’autore su dati Eu-Silc 2016

 

La combinazione tra spesa modesta e scarsa concentrazione a favore dei più poveri produce un effetto dei trasferimenti monetari poco redistributivo, nel senso che riduce poco la diseguaglianza del reddito disponibile rispetto a quella del reddito di mercato. L’introduzione del Rdc è quindi opportuna, sia per l’aumento delle risorse, sia perché esse sono concentrate sulla parte inferiore della distribuzione.

Mentre il riequilibrio della spesa sociale verso famiglia e povertà è un tema principalmente italiano, tutti i paesi europei stanno affrontando tre grandi problemi:

  1. Raccordo tra schemi diversi che si rivolgono a platee simili o alle stesse persone. È spesso avvertita l’esigenza di semplificare e generalizzare istituti inizialmente pensati per un piccolo numero di soggetti o per una fase ristretta del percorso lavorativo e di vita individuale.
  2. Cambiamenti del mercato del lavoro. Fenomeni come la globalizzazione e il cambiamento tecnologico si traducono, per molti, in lavori precari e poco pagati. Il sistema di welfare dovrebbe adattarsi a questo nuovo contesto, innovando strumenti e regole.
  3. Accesso al welfare di autoctoni e stranieri. La crescente diseguaglianza interna a molti paesi è spesso, a ben vedere, un aumento della distanza tra i vecchi residenti e gli ultimi arrivati, spesso confinati nelle occupazioni meno retribuite e con rilevanti carichi familiari. Il conseguente massiccio accesso al welfare da parte degli immigrati è una delle maggiori cause di tensione sociale, con evidenti ripercussioni anche sul fronte politico. E’ un tema centrale che però non tratteremo in questa sede.

 

A proposito del primo problema va sottolineato che in tutti i paesi europei la povertà economica non è contrastata solo con uno strumento di reddito minimo garantito, ma con un’ampia gamma di trasferimenti che riguardano famiglia, casa, disoccupazione, invalidità, minori. Tutti devono essere considerati per valutare l’efficacia dei sistemi di welfare nel contrasto alla povertà. La presenza di una molteplicità di schemi che si rivolgono a platee spesso coincidenti e sempre confinanti presenta molti rischi: di non volute sovrapposizioni, di basso take up per scarsa conoscenza del singolo strumento, del formarsi di una burocrazia pesante, di un’alta incidenza dei costi amministrativi rispetto agli importi trasferiti, di difficoltà di coordinamento tra istituti gestiti da enti diversi che non si scambiano informazioni, di una lunga permanenza in alcuni schemi, ed infine di alte aliquote marginali effettive, che possono portare a trappole della povertà.

Un’alta aliquota marginale effettiva si manifesta, ad esempio, con la rapida riduzione del totale dei trasferimenti nel caso in cui il beneficiario inizi a lavorare, se i sussidi dipendono negativamente dal reddito familiare. In questo caso, il vantaggio economico derivato da un’occupazione potrebbe essere basso, perché quando la si intraprende si perde o si ridimensiona il sussidio. E in più si devono affrontare i costi associati al lavoro (ad esempio il trasporto o la cura dei bambini).

 

Di fronte al proliferare delle forme di intervento, alcuni paesi europei stanno tentando la strada della semplificazione, creando nuovi schemi che accorpano e sostituiscono molti di quelli preesistenti.

In Germania la riforma Hartz ha ridotto da 3 a 2 gli schemi contro la povertà derivante da lavoro insufficiente, nel Regno Unito lo Universal credit sta rimpiazzando, tra molte difficoltà amministrative, ben sei schemi diversi.

In Francia il piano di lotta alla povertà, che Macron ha lanciato nel 2018 nell’ambito delle misure per reagire alle proteste dei Gilet Gialli, prevede che il nuovo Reddito di assistenza universale dal 2020 unifichi il sussidio contro la povertà, una misura di integrazione del reddito da lavoro, il sussidio per la casa e forse altri trasferimenti minori.

In Italia il Rdc ha sostituito il Reddito di Inclusione, ma rimangono moltissimi altri schemi poco o per nulla coordinati tra loro: la Carta acquisti, che molti ignorano sia ancora in vita, i bonus acqua, energia e gas, l’assegno di maternità, l’assegno alle famiglie con 3 figli, le tante forme di pensioni di invalidità, il bonus bebè, il fondo affitto, i trasferimenti dedicati dei Comuni, gli sconti comunali sulle tariffe, l’assegno sociale e sicuramente altri ancora. Il Rdc potrebbe essere l’occasione giusta per procedere verso una semplificazione.

Anche grazie al coordinamento delle istituzioni comunitarie, è in corso in Europa una convergenza tra sistemi di reddito minimo che riguarda regole di accesso, importo dei trasferimenti, condizionalità (Baldini et al. 2018). I punti in comune tra i vari paesi sono l’importanza dei servizi di riqualificazione e inserimento e dell’attivazione, la semplificazione, e soprattutto la centralità del lavoro, posto esplicitamente come obiettivo chiave per tutti o quasi tutti i beneficiari degli interventi.

 

Nel dibattito politico, che riflette le opinioni e i sentimenti prevalenti nella popolazione, grande enfasi continua quindi ad essere posta sull’inserimento lavorativo. Il basic income incondizionato pare ancora lontano, e non solo per motivi di budget. Il lavoro conferisce autonomia, autostima, riconoscimento sociale, dignità. Eppure, a causa di fenomeni come la globalizzazione, il progresso tecnologico e la crisi economica iniziata nel 2008, il mercato del lavoro è in questi anni sottoposto a cambiamenti radicali.

Secondo il recente Employment Outlook dell’Ocse (Oecd, 2019), solo il 14% dei posti di lavoro sono ad alto rischio di automazione nei prossimi anni. Però tantissimi cambieranno, e la qualità di molti potrebbe peggiorare. Le diseguaglianze nel mercato del lavoro stanno inoltre aumentando e aumenteranno in futuro. Cresce in particolare la quota di lavoratori con redditi bassi. Anche in Italia il mercato del lavoro si sta polarizzando: tra 1995 e 2015 sono aumentate le quote di lavoratori in occupazioni high-skilled e low-skilled, mentre diminuisce la percentuale occupata in posti middle-skilled. Aumentano insicurezza e precarietà. Non è più scontato che occupazioni middle-skilled permettano stili di vita da classe media. Sta aumentando l’incidenza dei working poor: persone che lavorano ma che vivono in famiglie povere. Anche il lavoro non standard si sta diffondendo: riguarda autonomi, lavoratori a termine, il part-time involontario. Tra 2006 e 2017 in Italia è molto cresciuta (decisamente più della media europea) la quota di lavoratori sotto-occupati, che cioè lavorano meno di 30 ore a settimana ma vorrebbero lavorare di più. Se il mondo del lavoro diventa più rischioso, è efficiente, oltre che equo, aumentare il grado di assicurazione che può essere fornito dalle politiche sociali.

 

Reddito di cittadinanza e mercato del lavoro

Visti questi cambiamenti strutturali del mercato del lavoro, è necessario pensare ad un sussidio che non sia alternativo al lavoro, ma per molti soggetti «deboli» sia complementare ad esso, nel senso che non dovrebbe solo compensare la mancanza temporanea di reddito, ma sia anche in grado di integrare i bassi redditi da lavoro, non produca effetti di trappola della povertà, soprattutto sul secondo percettore, e possa essere percepito anche per lunghi periodi, se il reddito da lavoro rimane basso.

Il Rdc può assolvere tutti questi compiti? La sua versione iniziale assumeva che lavoro e povertà fossero situazioni con scarsa sovrapposizione. L’ipotesi implicita era che il Rdc avrebbe dovuto compensare la mancanza di reddito nei momenti di disoccupazione, durante i quali i Centri per l’impiego avrebbero aiutato il disoccupato a cercare un nuovo lavoro. Trovato quest’ultimo, la condizione di povertà sarebbe stata superata e con essa il bisogno del sussidio. La relazione tra povertà e lavoro è però molto più complessa: gran parte delle famiglie povere non ha disoccupati, e gran parte delle famiglie con disoccupati non è povera (tabella 1).

 

Tabella 1 – Composizione delle famiglie povere e delle famiglie con disoccupati in Italia

Famiglie povere Famiglie con disoccupati
Con disoccupati 0,7 mln. Famiglie povere 0,7 mln.
Senza disoccupati e
con almeno 1 lavoratore
1,0 mln. Famiglie non povere 1,8 mln.
Senza disoccupati né lavoratori 0,9 mln.
Totale 2,6 mln. Totale 2,5 mln.

La povertà è definita come reddito familiare disponibile inferiore al 40% del reddito mediano
Fonte: elaborazioni dell’autore su dati Eu-Silc.

 

L’aumento del numero dei lavoratori nei nuclei in povertà è una via d’uscita possibile solo per una loro parte. Per gli altri, bisogna tenere conto del fatto che in molti casi non vi sono membri adulti occupabili, e che quando vi sono, la loro “occupabilità” può essere bassa a causa di caratteristiche personali (età, condizioni di salute, capitale umano) o della presenza di obblighi di cura verso altri membri della famiglia. Sempre assumendo, ovviamente, che vi siano posti di lavoro disponibili.

Queste evidenze, assieme ai cambiamenti in corso nel mercato del lavoro, verso una maggiore precarietà e una sempre più diffusa presenza di occupati a basso reddito e con un numero di ore inferiori a quelle desiderate, ci dicono che sussidio e lavoro, più che alternativi, dovrebbero spesso essere immaginati come complementari. Per molte famiglie un sussidio economico non può essere considerato solo come una integrazione temporanea del reddito familiare nell’attesa di un nuovo posto di lavoro, ma potrebbe essere necessario anche per un lungo periodo se si vuole consentire loro di superare la condizione di povertà economica. Si pone quindi un problema centrale: come rendere tra loro compatibili sussidio e lavoro? In altre parole, se il sussidio è in molti casi necessario per evitare la povertà, perché i posti di lavoro ragionevolmente disponibili per molte persone in grave povertà possono produrre redditi bassi, come si può fare in modo che il sussidio non spinga i beneficiari verso una trappola della povertà?

 

Il Rdc è molto cambiato rispetto alle sue prime versioni per quanto riguarda i percorsi di inclusione, perché al canale dei Centri per l’impiego si è affiancato quello dei servizi sociali, riconoscendo che la povertà spesso si presenta in forme complesse. Non è però mutato il disegno del trasferimento monetario, che è rimasto coerente con uno schema che vede Rdc e lavoro come alternativi, non complementari. Molti aspetti tecnici del sussidio rendono infatti difficoltosa la sua integrazione con la presenza di un lavoro. L’importo piuttosto alto per il single scoraggia la ricerca di un lavoro, soprattutto al Sud dove i salari sono più bassi.

L’Inps ha calcolato che quasi il 45% dei dipendenti privati del Mezzogiorno ha redditi da lavoro inferiori all’importo del Rdc per una persona che dichiari reddito nullo (Boeri 2019). Anche la possibilità di rifiutare fino a tre offerte di lavoro significa che Rdc e lavoro sono pensati come alternativi, così come quella di rifiutare senza conseguenze occupazioni con reddito mensile inferiore a 858 euro. Le elevate aliquote marginali effettive scoraggiano il lavoro: se un beneficiario del Rdc inizia a lavorare, il sussidio diminuisce di 80 centesimi per ogni euro guadagnato, quindi l’aliquota marginale effettiva per un’ora di lavoro in più è dell’80%, in più essa passa da 80% a 100% dopo che si è aggiornata la dichiarazione Isee aggiungendo in essa il reddito da lavoro, quindi nel medio termine l’aliquota marginale effettiva rilevante è del 100%. Ciò non fornisce inoltre alcun incentivo non solo ad iniziare un’attività lavorativa, ma anche ad uscire dall’economia sommersa, perché l’emersione di un qualunque reddito si traduce in un’eguale riduzione del sussidio, mentre chi rimane nel sommerso può teoricamente cumulare reddito e trasferimento.

 

È possibile rendere il Rdc più compatibile con il lavoro, soprattutto nei confronti di occupazioni poco qualificate o con basso numero di ore? Una semplice modifica potrebbe consistere nella riduzione dell’importo base del trasferimento nella sua componente reddituale, ad esempio passando da 500 a 400 euro al mese per una persona sola, aumentando di altrettanto la componente affitto, meno dipendente dal reddito da lavoro. L’importo massimo non cambierebbe. Si potrebbe anche ridurre l’aliquota marginale effettiva, ad esempio al 60%. In questo modo al crescere del reddito da lavoro seguirebbe un aumento significativo del reddito disponibile della famiglia, incentivando sia il lavoro che l’emersione dal sommerso.

Gli effetti di incentivo al lavoro e di emersione possono essere realizzati anche da un sussidio che si affianchi al Rdc e sia destinato solo a chi lavora: uno schema del genere è noto come in-work benefit. Sussidi di questo tipo, presenti in molti paesi, combinano due caratteristiche interessanti: incentivano il lavoro regolare e riducono il rischio di povertà delle famiglie dei lavoratori. Il trasferimento può essere commisurato o al reddito famigliare o al solo reddito individuale. Lo scopo è quello di integrare i bassi redditi di lavoro, che sono proprio quelli più a rischio di essere spiazzati da un trasferimento basato negativamente sul reddito familiare.

Negli Usa (Eitc, Earned income tax credit) e in Francia (Prime d’activité) questo sussidio dipende dal reddito familiare, ma in Italia, a causa della bassa occupazione femminile, potrebbe essere conveniente renderlo dipendente dal solo reddito individuale da lavoro, perché se dipendesse da quello familiare ridurrebbe l’offerta di lavoro, soprattutto delle donne. Il bonus di 80 euro al mese introdotto nel 2014 si avvicina ad uno schema del genere, ma dovrebbe essere modificato in molte direzioni. Andrebbe esteso anche agli autonomi e dovrebbe iniziare ad essere erogato a partire dalla prima ora di lavoro, mentre oggi spetta solo ai dipendenti con almeno 8.000 euro. Esclude insomma proprio chi avrebbe più bisogno di una integrazione salariale. Sui redditi bassi potrebbe avere un’aliquota marginale negativa, nel senso che se si inizia a lavorare o si aumentano le ore di lavoro, non solo non si applica un’imposta sul reddito guadagnato, ma quest’ultimo viene integrato dal sussidio, che è tanto maggiore quanto più si lavora. Vi sarebbe così un incremento per via fiscale del reddito ottenuto sul mercato; poi, come l’attuale bonus di 80 euro, rimarrebbe costante fino ad un certo livello di reddito, ed infine diminuirebbe, ma più lentamente rispetto ad ora. Un trasferimento basato sul reddito individuale è meno redistributivo, perché va anche ai percettori di reddito basso che vivono in famiglie benestanti, ma ci pare che oggi sia più urgente incentivare il lavoro femminile. Inoltre la sua disponibilità anche per i redditi molto bassi ne accentuerebbe decisamente l’effetto redistributivo rispetto al bonus attuale.

 

La combinazione di un Rdc familiare con bassa aliquota marginale effettiva e di un in-work benefit individuale potrebbe determinare un andamento del reddito netto familiare – dopo questi sussidi – sempre crescente rispetto al reddito di mercato (prima dei sussidi), in modo da rendere le politiche di trasferimento monetario contro la povertà più incentivanti al lavoro e all’emersione dal sommerso.