Welfare e lavoro povero


Claudio Lucifora | 15 Novembre 2019

Dopo la crisi economica la povertà è aumentata e, con questa, anche il lavoro povero1. La crisi ha però messo in evidenza come la crescita del lavoro povero non sia semplicemente legata a fattori ciclici, ma anche a fenomeni di natura strutturale legati alla globalizzazione dei mercati e alla delocalizzazione dei processi manifatturieri, alla diffusione di tecnologie digitali, alla crescente terziarizzazione dei sistemi economici e, non ultimo, alla progressiva erosione del potere del sindacato nella contrattazione collettiva. Sebbene la povertà e l’esclusione sociale siano state tradizionalmente associate alla disoccupazione di lunga durata e alla diffusa inattività di alcune fasce della popolazione, oggi anche alcune forme di lavoro sono spesso associate a situazioni di povertà, a testimoniare come il lavoro non sia più sufficiente a garantire un reddito dignitoso ai lavoratori e ai nuclei familiari a cui appartengono. Considerando la distribuzione dei salari orari lordi, il numero di lavoratori (dipendenti) a bassa retribuzione (oraria) nel 2015 risultava pari a oltre 3 milioni, un’incidenza del 17,9 per cento sull’occupazione (indagine Eurostat EU-SILC). Nel periodo 2007-2015 il numero di lavoratori “poveri” è aumentato, sia in termini assoluti sia in percentuale sul totale dell’occupazione (dipendente), segno di un generale deterioramento delle condizioni del mercato del lavoro. Utilizzando il reddito mensile è possibile cogliere anche la dimensione del lavoro povero che dipende dall’orario ridotto (involontario), e in questo caso la diffusione risulta più elevata, pari a circa 4,1 milioni di lavoratori (il 24,1 per cento dell’occupazione dipendente). La diffusione del lavoro povero affonda le sue radici in contesti alquanto diversi. Da un lato, imprese che aumentano i propri margini di profitto scaricando il contenimento dei costi principalmente sui salari. Dall’altro lato, imprese che operano con margini esigui e sopravvivono impiegando manodopera poco qualificata e pagando basse retribuzioni, e che sono pronte a rifugiarsi nel sommerso non appena i margini di flessibilità salariali si riducono. Sebbene l’esistenza di questa polarizzazione nella struttura del lavoro povero non sia affatto una novità, i cambiamenti del mercato del lavoro hanno di fatto accelerato queste dinamiche concentrando buona parte della crescita occupazionale nel lavoro povero. Negli ultimi anni alcuni tipi di occupazione sono divenuti sinonimo di povertà, ad indicare come oltre ai ‘lavoratori poveri’ crescano anche i ‘lavori poveri’. In altre parole, pur in presenza di salari orari dignitosi, con la progressiva riduzione degli orari di lavoro (anche dovuta all’aumento nella diffusione del part-time involontario) i redditi dei lavoratori sono progressivamente esposti al rischio povertà.

 

Questo nuovo assetto ha anche messo in crisi la tradizionale equazione che stava alla base delle misure di contrasto alla diffusione dei working poors e cioè “maggiori salari” uguale “minori diseguaglianze e lavoro povero”. Infatti, interventi sui minimi salariali o sulla generosità degli ammortizzatori sociali possono accrescere la disoccupazione o aumentare la tassazione, e in ultima analisi non è chiaro quale sia l’effetto complessivo sulle diseguaglianze o sul benessere sociale. Molte delle politiche che si sono rivelate più efficaci nel contrasto alla povertà hanno cercato di bilanciare la salvaguardia dei minimi retributivi con la creazione di posti di lavoro anche se a basso salario. La creazione di lavoro deve essere il primo passo per il contrasto alla povertà, a patto che le basse retribuzioni rappresentino solo un ingresso agevolato nel mondo del lavoro verso la stabilità occupazionale e retributiva e non una trappola della povertà. L’esistenza diffusa di lavoro povero solleva problematiche legate alle disuguaglianze nei redditi di lavoro e al disegno complessivo del sistema di tassazione e dei trasferimenti alle famiglie in povertà. L’esperienza internazionale in merito al disegno delle politiche di sostegno al reddito delle famiglie ha messo in evidenza come l’erogazione di sussidi diversi – ad esempio, sostegno agli affitti, ai figli in famiglie monoparentali o ai nuclei familiari numerosi, ecc. – possa generare trappole della povertà, in cui la partecipazione al lavoro risulta fortemente disincentivata dalla perdita di uno o più sussidi. A causa delle perdite di efficienza associate alle semplici misure di sostegno al reddito, la Strategia europea ha privilegiato misure dirette a ridurre il cuneo fiscale sotto forma di “crediti d’imposta” diretti principalmente a favore dei lavoratori dipendenti a basso salario, sviluppando al contempo politiche di workfare orientate a favorire la partecipazione dei lavoratori al mercato del lavoro e ad accrescere l’intensità occupazionale. Scopo di queste politiche è quindi l’attivazione degli individui, condizionando gli incrementi di reddito allo status di occupazione. A scanso di equivoci, tuttavia, vale la pena ricordare che la povertà origina spesso da problematiche e da contesti che sono radicati in un diffuso disagio sociale spesso difficilmente compatibile con il lavoro e per il quale le politiche di attivazione al lavoro, come quelle qui discusse, sono poco efficaci. L’obiettivo di questa nota è quindi circoscritto alle azioni di contrasto al lavoro povero.

 

In questo contesto, l’articolazione delle politiche deve rispondere alle caratteristiche del lavoro povero finalizzando gli interventi ad alleviare il disagio associato alle condizioni di precarietà occupazionale e a prevenire il rischio che individui, anche quando occupati, si trovino in condizioni di povertà. I fattori che più frequentemente sono associati al lavoro povero e alla sua persistenza nel tempo sono essenzialmente legati al livello d’istruzione del lavoratore, al tipo di contratto e all’orario di lavoro, al settore di attività. Da notare come questi fattori non siano indipendenti tra loro: un lavoratore con una bassa qualifica, occupato in un settore soggetto a forte stagionalità e variabilità della domanda, concorrono ad aumentare sensibilmente la probabilità di essere a rischio povertà.

 

La questione centrale per le politiche di welfare è quindi come intervenire per evitare che ai bassi salari corrispondano bassi redditi e rischio di povertà delle famiglie. È infatti proprio l’esposizione al rischio di povertà che rende il fenomeno complesso, di fatto associando la condizione di povertà anche quando il lavoro c’è, ma per ragioni diverse è spesso: fragile, precario e poco intenso. In particolar modo, questo è vero per i nuclei familiari con un solo percettore di reddito a basso salario. Proprio dalla scarsa intensità di lavoro all’interno delle famiglie – bassa partecipazione (e occupazione) femminile e orari di lavoro ridotti (spesso involontari) – discende una delle principali fragilità del mercato del lavoro italiano. A questo si aggiunge una scarsa efficacia dei meccanismi di protezione sociale di ridurre il rischio di povertà attraverso politiche di sostegno ai redditi e di attivazione al lavoro. In quest’ottica, le politiche di contrasto alla povertà devono quindi perseguire obiettivi sia di lungo, sia di breve periodo.

Politiche di offerta orientate a migliorare i livelli di istruzione, la formazione continua dei lavoratori e la spendibilità delle competenze sul mercato del lavoro, che intervengono sulla capacità potenziale dell’individuo di essere occupato e di percepire redditi e politiche della domanda per aumentare la produttività dei lavori meno qualificati restano gli interventi da perseguire nel lungo periodo per migliorare la qualità del lavoro e le retribuzioni.

 

Tuttavia, in un contesto economico in rapida evoluzione e soggetto a forti turbolenze è necessario intervenire anche con politiche di breve periodo orientate ad arginare la diffusione del lavoro povero garantendo contestualmente la sostenibilità economica dell’occupazione, soprattutto nei settori che impiegano lavoratori meno qualificati.

Si possono individuare alcune direttrici per gli interventi finalizzati al contrasto del lavoro povero. In primo luogo puntare sulla crescita occupazionale nei settori che presentano un elevato moltiplicatore occupazionale e che favoriscono la transizione al mercato di attività spesso relegate alla produzione domestica. Molti di questi lavori che caratterizzano la green economy e i settori di healthcare, sono spesso a basso salario. In particolare, focalizzando l’attenzione su quei servizi che hanno una controparte nella produzione domestica – come sanità, servizi di cura e assistenza sociale – alcuni recenti studi ipotizzano un forte potenziale occupazionale riconducibile all’esistenza di sussidi e trasferimenti diretti ai lavori a basso salario che, di fatto, rendono sostenibili tali lavori. In altre parole, il sistema di tassazione e i trasferimenti ai lavoratori poveri intervengono modificando le decisioni di consumo e occupazione degli individui a beneficio dei posti di lavoro sussidiati. Tuttavia, mentre l’elasticità di sostituzione tra diverse tipologie di beni e servizi è generalmente modesta, la sostituibilità tra “beni e servizi di mercato” e “servizi domestici” è molto elevata, tanto da spiegare la maggiore creazione di occupazione in quei servizi. Alcuni paesi, come la Svezia, proprio in quest’ottica sussidiano proporzionalmente di più i servizi di cura e sociali di mercato rispetto ad altri paesi, come l’Italia (o il Giappone), che invece relegano alla produzione domestica o al sommerso tali servizi. Esiste pertanto una potenzialità occupazionale che per potersi realizzare nel mercato necessita di essere sussidiata attraverso trasferimenti alle famiglie in cui l’incidenza di lavoro povero è maggiore, o in cui l’intensità di lavoro è minore.

Da questo punto di vista, il reddito di cittadinanza rappresenta una grande opportunità per incrementare la partecipazione al mercato del lavoro e ridurre la produzione domestica. Anche in questo caso l’esperienza dei paesi che da lungo tempo adottano politiche passive soggette a verifica dei mezzi, può rivelarsi utile per evitare alcune ben note inefficienze come: la dipendenza dai sussidi e l’esistenza di trappole della povertà che disincentivano il lavoro. Ne discende che il successo di tali misure dipende in modo cruciale dall’efficacia delle politiche di attivazione per l’avviamento al lavoro dei membri inattivi o sotto-occupati. L’attivazione alla ricerca del lavoro e la ricollocazione dei lavoratori, attraverso una rete efficiente di centri per l’impiego e di agenzie del lavoro, costituiscono comunque la chiave del successo di tutte le politiche di contrasto al lavoro povero e quella più difficile da far funzionare. I lavoratori a basso reddito, infatti, si trovano più spesso nella condizione di cambiare posto di lavoro o transitare dalla disoccupazione, seguendo percorsi di bassi redditi e assenza di redditi da lavoro (low-pay no-pay) che li rende particolarmente fragili. Infine, per evitare comportamenti opportunistici da parte delle imprese è necessario uno stretto coordinamento tra le politiche di attivazione e dei minimi salariali inderogabili (legali o contrattuali) per impedire il trasferimento dell’imposta (negativa) su salari più bassi – a parità di redditi netti per i lavoratori – a beneficio dei profitti delle imprese. In conclusione, la migliore strategia di contrasto alla povertà sta proprio nella complementarietà e nella combinazione ottimale delle politiche piuttosto che nella singola politica.

  1. Alcune delle riflessioni contenute nella presente nota sono più ampiamente trattate nel volume “Inclusione,  produttività, crescita” a cura di Carlo Dell’Aringa e Paolo Guerrieri, pubblicato nella collana Arel del Mulino. Si rimanda a quel testo per i dettagli e l’analisi empirica.