La Corte di giustizia europea sentenzia sul velo islamico


Emanuele Ranci Ortigosa | 19 Aprile 2017

Una donna di fede musulmana lavora in Belgio come receptionist presso un’azienda privata. Nel 2006 comunica al suo datore di lavoro che intende indossare il velo islamico durante l’orario di lavoro, e così fa. La direzione aziendale reagisce formalizzando nel regolamento interno il divieto, perché l’indossare segni che evidenzino un’appartenenza religiosa è in contrasto con la neutralità cui l’impresa impronta il rapporto con i propri clienti. La donna non desiste e viene licenziata. Si apre un percorso giudiziario che arriva fino alla Corte di cassazione belga, per finire poi alla Corte di giustizia europea.   Un’altra donna, ingegnere progettista in Francia, viene informata dall’azienda privata che l’assume che indossare il velo islamico durante il lavoro potrebbe creare problemi con i clienti. In effetti un cliente con cui lei lavora esprime una lamentela in merito. L’azienda invita l’ingegnere a non indossare più il velo, lei risponde negativamente e viene licenziata. Anche questo caso dalla giustizia francese passa alla Corte di giustizia europea.   La Corte europea tratta ambedue i casi ed emette due sentenze. La più rilevante e discussa è la sentenza 14/3/2017 n° C-157/150, il cui contenuto può essere così sintetizzato:

  • se la norma espressa dall’imprenditore che vieta di indossare il velo islamico ha carattere generale e fa divieto di indossare nel luogo di lavoro segni visibili che manifestino convinzioni politiche, filosofiche o religiose, e viene applicata omogeneamente a tutti i dipendenti, essa non configura una discriminazione diretta e rientra nella autonomia dell’imprenditore;
  • potrebbe configurare però una discriminazione indiretta, che si determina quando un criterio apparentemente oggettivo determina di fatto un particolare svantaggio per persone che appartengono a una specifica religione o ideologia. La Corte ritiene però che nel caso specifico non si configuri neppure una discriminazione indiretta perchè la finalità perseguita di adottare nei rapporti con i clienti una politica di neutralità politica, filosofica, e religiosa è in linea di principio legittima, a condizione che venga gestita in modo coerente e sistematico e sia applicata a personale che lavori a diretto contatto con i clienti;
  • la Corte demanda poi al giudice nazionale di verificare se, nel caso concreto, l’azienda, invece di licenziare la dipendente, avrebbe potuto senza oneri aggiuntivi offrirle una diversa attività lavorativa, non a diretto contato con la clientela.

  La sentenza della Corte riguarda solo le aziende private e non legittima alcun divieto specifico di indossare il velo islamico. Legittima solo un divieto generale di indossare segni manifesti di una appartenenza politica, ideologica o religiosa, in particolare per personale a diretto contatto con la clientela, ove ciò risulti giustificato da una finalità aziendale legittima, si configuri come mezzo appropriato a conseguirla, venga applicato in modo indiscriminato. Molte generalizzazioni uscite sulla stampa sono dunque inappropriate e fuorvianti. E forse lo sono anche alcune delle critiche. E’ però difficile sostenere che nell’attuale contesto divieti di portare qualsiasi segno di appartenenza politica, ideologica o religiosa, anche se in astratto non discriminatori, di fatto non colpiscano essenzialmente donne di fede musulmana. Come scrive l’ambasciatore Roberto Toscano su la Repubblica (15.3, pag.29): “Non risulta infatti che dipendenti sikh abbiano avuto problemi nell’andare al lavoro con il turbante, e nemmeno che dipendenti ebrei si siano visti contestare il fatto di indossate la kippah, poco frequenti anche i casi di signore cattoliche allontanate dal posto di lavoro perchè portavano al collo vistose croci”.   Le sentenze richiamate concorrono ad alimentare un dibattito rilevante, anche se purtroppo spesso confuso o strumentale. Nel quale spesso viene ignorata anche la fondamentale distinzione fra il velo integrale (niquab o burqa), che impedisce il riconoscimento e ostacola una piena relazione umana, e il semplice velo che avvolge la testa lasciando scoperto il viso, e non comporta quindi gli impedimenti ora richiamati. Le normative nazionali sono assai differenziate, e spesso silenti. Divieti espliciti in Francia, Austria, Belgio, Paesi Bassi, riguardano solo il velo integrale nei luoghi pubblici, luoghi che vengono però differentemente individuati.  Altri paesi europei, come l’Italia, non hanno normative specifiche, ma la questione diviene comunque oggetto di dibattito culturale e politico e di propaganda elettorale su terrorismo, immigrazione, religione islamica. Un dibattito che spesso rinuncia a approfondire nel merito tali questioni, e finisce per avvitarsi con superficialità e settarismo su oggetti simbolo, quali appunto il velo genericamente assunto.   Senza addentrarmi ora nel merito delle gravi questioni che stanno a monte delle posizioni che vengono espresse sul velo, mi limito a riproporre alcune ulteriori sagge considerazioni di Toscano: “Contrari come siamo all’imposizione del velo, dovremmo sentirci quanto meno a disagio di fronte al suo divieto (…) Non sarebbe legittimo imporre ai musulmani (anzi alle musulmane) restrizioni che non imponiamo ai fedeli di altre religioni. Dobbiamo invece impedire con tutta la forza della legge la pretesa degli islamici radicali di imporre limitazioni nella libertà di abbigliamento o di comportamento (…) Lo scandalo inammissibile non è che le donne di religione musulmana circolino o lavorino con la testa coperta, ma che la libertà delle donne, di tutte le donne, possa essere minacciata o anche insultata da chi crede di essere autorizzato dalla propria religione ad imporre, spesso con la violenza, limitazioni al comportamento altrui”.