Legge 328/2000 e politiche per le persone con disabilità

A che punto siamo?


Roberto Speziale | 17 Novembre 2020

Una legge fondamentale e innovativa, in parte ancora da attuare

L’8 novembre di 20 anni fa il Parlamento Italiano approvava la Legge 328 intitolata “Legge quadro per la realizzazione del sistema integrato di interventi e servizi sociali”1.

 

Nelle cronache di quei giorni la conclusione del lunghissimo iter della Legge venne salutata come l’avvento di una nuova concezione dell’assistenza sociale che ribaltava i concetti definiti dalla precedente Legge sull’assistenza sociale, risalente addirittura al secolo scorso:

  • concepire l’intervento socialenon come intervento riparatore di un “danno” ma come strategia integrata finalizzata al Bene Essere della Persona, definendo i livelli essenziali delle prestazioni sociali, da finanziare anche attraverso il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali e la realizzazione del Piano Sociale Nazionale;
  • concepire le diverse competenze istituzionali non come confini burocratici e amministrativi entro cui difendere le proprie autonomie, ma come condizione di chiarezza sulle responsabilità dei diversi soggetti del sistema integrato;
  • concepire il ruolo dei soggetti di Terzo Settore non come supplente o più conveniente rispetto ai ruoli e ai costi della Pubblica Amministrazione, ma come portatori di interessi diffusi, a partire dal ruolo di advocacy e tutela dei diritti, delle istanze e dei bisogni dei cittadini, e quindi da intendere con ruoli attivi nella co-progettazione e nella ideazione degli interventi e dei servizi alla persona.

 

All’interno di questo corposo disegno c’è soprattutto un articolo che per le persone con disabilità riveste una importanza assoluta: si tratta dell’articolo 14 (Progetti individuali per le persone disabili) che prevede il diritto di ogni persona con disabilità – e di chi lo rappresenta – di chiedere al Comune di scrivere il proprio progetto personalizzato di vita, d’intesa con la ASL e dei diversi soggetti sociali e istituzionali che devono agire per realizzare la piena integrazione sociale.

Un altro articolo di fondamentale importanza, rimasto del tutto disatteso, è l’articolo 24 (Delega al Governo per il riordino degli emolumenti derivanti da invalidità civile, cecità e sordomutismo) che prevede la revisione dei sistemi di accertamento di invalidità civile e stato di handicap e delle provvidenze economiche collegate con il fine di meglio orientare l’obiettivo di tali misure verso il contrasto alla povertà e la promozione di incentivi alla rimozione delle limitazioni e valorizzazione delle capacità ed autonomie delle persone con disabilità, nonché lo snellimento delle procedure connesse.

 

Tuttavia, nonostante l’importanza di quanto previsto da questa Legge per migliorare la qualità di vita delle persone con disabilità e dei loro genitori e familiari, a distanza di ben 20 anni :

  • i livelli essenziali di assistenza non sono stati definiti, il Fondo Nazionale per le Politiche Sociali è stato più volte tagliato, il Piano Sociale Nazionale (approvato nel 2001) è rimasto lettera morta;
  • le competenze attribuite alle Regioni, alle Province e ai Comuni sono state sì chiarite e definite, ma siamo ancora molto lontani dal vedere le politiche integrate tra loro, e siamo ancora distanti dalla tanto attesa e agognata integrazione socio-sanitaria ;
  • il ruolo dei soggetti di terzo settore è ancora troppo spesso inteso in modo sbagliato o come supplenti delle difficoltà e delle inerzie della Pubblica Amministrazione , o come soggetti che, al massimo, devono essere sentiti e ascoltati, ma senza creare le condizioni di partecipazione e negoziazione auspicate dalla Legge 328;
  • l’art. 14 rimane largamente disatteso, inapplicato, ignorato;
  • l’art. 24 non è stato applicato ed i sistemi di accertamento sono basati su paradigmi superati e svolti con modalità che spesso creano iniquità e discriminazioni a danno delle persone con disabilità!

 

Perché è importante definire e adottare i LEP?

Sono trascorsi 20 anni dall’approvazione della legge 328/2000 che ha introdotto nel settore dei servizi sociali la nozione di livelli essenziali. E sono passati diciannove anni dalla riforma del Titolo V della Costituzione che ha innalzato a rango costituzionale il riferimento ai Livelli Essenziali delle Prestazioni sociali (LEP). Eppure, nel nostro Paese, perdura l’assenza di una normativa nazionale di determinazione dei LEP. Le motivazioni di tale ormai “storico” ritardo sono le più disparate e vanno da aspetti di sistema a quelle più prettamente organizzative. E’ del tutto probabile che tra le varie cause della mancata definizione dei LEP, tra le principali, se ne possano indicare almeno due: la prima è data indubbiamente dalla mancata costituzione di un capiente ed idoneo fondo nazionale; la seconda la difficoltà di procedere ad una standardizzazione delle prestazioni sociali sulla falsa riga di quanto già avviene, invece, nel settore sanitario e socio sanitario con i LEA.

Ma corrisponde al vero che nel settore dell’assistenza sociale, risulta troppo complicato procedere a tale standardizzazione? Da più parti si ritiene che, pur nella sua complessità, è possibile individuare un catalogo di interventi e prestazione sociali che possano assumere, appunto, la connotazione di interventi e prestazioni sociali da garantire in modo omogeneo sull’intero territorio nazionale. La seconda domanda che occorre porsi è se ancor oggi permane l’esigenza di realizzare un sistema di livelli essenziali di interventi e prestazioni sociali. Per rispondere a tale quesito basta prendere a riferimento i dati inseriti nel Piano per la non autosufficienza 2019-2021 che così recita:

“Il carattere più sorprendente della spesa sociale è la sua sperequazione territoriale: si va da 21 euro pro capite della Calabria ai 342 della Provincia Autonoma di Bolzano. A fronte di una spesa media pro capite nazionale di poco meno di 100 euro, nel Nord si spendono più di 120 euro e nel Mezzogiorno poco più della metà. Nell’area disabilità e anziani, a fronte di 50 euro di media nazionale, si va dai 10 euro pro capite della Calabria ai 170 della Val d’Aosta e di Bolzano. E la sperequazione è ancora più accentuata se si osservano i dati a livello infra regionale e cioè di Ambito territoriale, la realtà associativa di comuni responsabile della programmazione sociale”.

 

Appare evidente, pertanto, che lo Stato, non avendo provveduto ad esercitare le sue prerogative legislative in materia e non costituendo un adeguato e capiente fondo nazionale, ha finito anche con il deresponsabilizzare le Regioni che, nel migliore dei casi hanno posto in essere propri interventi nelle forme e modalità più disparate, ma che, in molti casi tali interventi sono risultati del tutto inidonei o quasi inesistenti. La penalizzazioni per milioni di cittadini è stata ed è quindi evidente. Tanto che negli ultimi decenni si è assistito ad un progressivo peggioramento delle condizioni sociali e socio economiche di una consistente parte della popolazione. La mancanza di un adeguato sistema di welfare che garantisca, in modo omogeno sull’intero territorio nazionale, adeguati sostegni e parità di diritti ed opportunità per tutti, ha finito con esporre tale popolazione a maggiori rischi di emarginazione ed esclusione sociale, acuendone le differenze, anche territoriali e non solo nella “storica” accezione Nord-Sud.

 

Cosa rimane da fare?

Anche alla luce delle nuove emergenze legate alla pandemia in atto, diviene non più rinviabile l’esigenza di procedere a definire ed emanare i LEP.

Prima di mettere mano a tale impianto, sarebbe opportuno tenere conto di alcune considerazioni. Il modello basato sulla rilevazione standardizzata del bisogno (logica dei Piani di Zona), fin oggi largamente utilizzato, si è rilevato del tutto inidoneo a rispondere alle reali esigenze dei cittadini; gli interventi di tipo economico, largamente finalizzati alla “mera monetizzazione del bisogno”, spesso sono risultati del tutto inidonei ed in assenza di in più ampio, articolato e coordinato intervento, addirittura controproducenti. Soprattutto in alcune aree del paese, non di rado si sono registrati fenomeni distorsivi nell’uso di tali risorse, con scarso risultato per i beneficiari primari.

Una quota consistente delle risorse destinate al sociale viene destinata al funzionamento della struttura burocratica che non sempre è organizzata in modo tale da essere funzionale alla finalità a cui è preposta.

Le prestazioni ed i servizi, siano essi sanitari-socio/sanitari-sociali etc., sono prevalentemente organizzati in modo standardizzato. In essi si tiene più conto delle “economie di scala” o di aspetti prevalentemente strutturali ed organizzativi (vedi grandi centri residenziali per persone con disabilità e per anziani non autosufficienti) che non della qualità della vita delle persone che di tali servizi devono fruire.

 

Si tende, troppo spesso ad adattare le persone ai servizi e non a realizzare il massimo sforzo possibile per adattare (personalizzare) i servizi, gli interventi le prestazioni, alle persone.

Pertanto nella definizione di un nuovo sistema di welfare, a partire dai LEP, occorrerebbe capovolgere l’attuale sistema di rilevazioni di bisogni e connessa organizzazione dei servizi, superando la logica della “protezione sociale” e della standardizzazione di interventi, servizi e prestazioni, guardando sempre più ad un modello che in chiave biopsicosociale: sia in grado di riconoscere e garantire diritti umani, civili e sociali; sia proiettato ad modificare i contesti in chiave sempre più inclusiva; sia in grado di attivare percorsi di empowerment delle persone; sia collocato dentro politiche di mainstreaming.

In buona sostanza si tratta di pensare ed attuare un sistema nel quale effettivamente nessuno venga mai lasciato indietro o sia discriminato, emarginato o segregato a causa della sua condizione o diversità, ma venga messo in condizione (grazie ad adeguati sostegni) di affrancarsi dalla propria condizione o poterci convivere senza doverne subire particolari negative conseguenze.

In questa ottica il livello essenziale base dovrebbe essere quello del diritto di ognuno di poter disporre di un proprio progetto individuale e personalizzato di vita (ex art. 14 della legge 328/2000) o di un progetto di contesto, essendo messo nelle migliori condizioni per darne concreta e compiuta attuazione. Per raggiungere gli obiettivi contenuti in tale progetto – che deve tenere prioritariamente conto dei desideri, aspettative e preferenze della persona interessata – vanno prima rilevate le condizioni del contesto personale, familiare e sociale in cui la persona vive opera, lavora, etc. e quindi dettagliatamente indicati i sostegni, sia formali che informali, di cui quella singola persona necessita per avere la migliore qualità di vita possibile. Il progetto individuale e personalizzato deve essere, altresì: inserito in una idonea rete integrata di servizi (infrastrutturazione sociale); essere corredato di un apposito budget di progetto (indicazione delle risorse, distinte per tipologia ed area di intervento, e concreta disponibilità delle stesse); vedere la chiara indicazione di un responsabile dell’attuazione del progetto (case manager); contenere degli indicatori di efficacia basati sulla verifica del miglioramento dei vari domini della qualità della vita del soggetto titolare del progetto stesso.

 

Altra inversione, rispetto all’attuale sistema, che dovrebbe essere attuata, riguarda il cosiddetto “ciclo delle risorse”. Oggi, il sistema di stanziamento delle risorse avviene, più che altro, facendo riferimento alla cosiddetta “spesa storica” o altri criteri che evidentemente non tengono in debito conto le reali esigenze dei cittadini destinatari. Inevitabilmente tali risorse finiscono con il risultare del tutto sperequate ed insufficienti e, nel contempo, resta molto esigua la platea dei destinatari. Quando finiscono le risorse, o le stesse non risultano adeguate, finisce anche la garanzia di diritti fondamentali. Tale insulso sistema è stato più volte censurato dalla magistratura competente e numerose sono le sentenze che ribadiscono che tali diritti sono, invece, incomprimibili e non possono essere limitati o ridotti neppure per la carenza di risorse che, invece, vanno sempre ricercate e rese disponibili. A ciò si aggiunge che numerose Regioni si sono dotate di un sistema normativo farraginoso, complicato e contradditorio e non riescono, in molti casi, a spendere le risorse assegnate o lo fanno con notevole ritardo con evidente ed ulteriore danno per i destinatari.

 

In ultimo andrebbe sin da subito chiarito che il Terzo Settore non può più essere considerato dalla pubblica amministrazione quale un mero fornitore di servizi e prestazioni, spesso con un sistema di remunerazione molto al di sotto della soglia di remunerazione, o mero fornitore di “manodopera a basso costo”. Occorre bensì, forti anche di quanto introdotto con la riforma del Terzo Settore, saperne cogliere appieno la portata innovativa e la grande opportunità offerta addivenendo, sin da subito, ad un sistema basato sul sistema costituzionale della sussidiarietà orizzontale. Un sistema che trova negli istituti della coprogrammazione e coprogettazione gli strumenti per qualificare un nuovo e diverso rapporto che veda nel perseguimento del bene comune, della solidarietà e coesione sociale, nell’espletamento di attività di interesse generale, senza fini di lucro, il comune ambito di intervento e rinnovata alleanza per garantire a tutti inclusione sociale, parità di diritti ed opportunità.

In buona sostanza i LEP vanno collocati dentro una grande riforma del sistema di Welfare del nostro paese, ma per fare ciò occorre compiere quel necessario salto culturale che, ancorato agli obiettivi di sviluppo sostenibile del pianeta fissati dalle Nazioni Unite, tenendo conto delle evidenze demografiche, non si limiti a manutentare l’esistente ma sia realmente in grado di attuare un cambiamento profondo.

  1. Legge 8 novembre 2000, n. 328 (pubblicata sulla GU Serie Generale n. 265 del 13-11-2000 – Suppl. Ordinario n. 186).

Commenti

Bellissimo aritcolo,
proprio oggi stavo imbastendo una mail al Comune di Milano, riferendomi a soluzioni standardizzate offerte alle persone con disabilità, perché meno impegnative dal punto di vista progettuale, ma non necessariamente meno impegnative dal punto di vista economico. Sappiamo bene quanto costino al giorno comunità, case alloggio, centri diurni, ecc… Sappiamo altresì che invece se i Comuni lavorassero in rete, potrebbero finanche ‘risparmiare’ attingendo anche da altre fonti (Regioni, Stato, UE)
Ma la ‘pigrizia’ inizia fin dalla scuola, che disattende la chiarissima normativa in materia di inclusione scolastica sostituiendo le ‘buone prassi’, con consuetudini spesso in contrasto con la normativa.
E’ tutta una vita che “lotto”, ma anche se mi sono fatta umiliare sentendomi consigliare un ‘corso di taglio e cucito’ per mia figlia, abbiamo superato gli ostacoli del pregiudizio e la ragazza si è infine diplomata (senza nessun tipo di sostegno) in lingue e letterature straniere. A differenza dei suoi fratelli, che almeno un anno al liceo se lo sono giocati, lei non è mai stata bocciata e se non fossi stata allora in spaventose condizioni economiche, avrebbe continuato anche l’università.
Se che con enormi sacrifici siamo riuscite ad ottenere pari dignità scolastica, sembra proprio che altrettanti, se non peggiori, debba farne per la pari dignità sociale.
Spero di vivere abbastanza a lungo 🙂
Cordiali saluti e buon lavoro
Maria