L’innovazione nei servizi: a che punto siamo?


Sergio Pasquinelli | 24 Giugno 2019

Definiamo il problema

Sono in carico ai servizi sociali e sociosanitari di questo Paese non più del 20 per cento degli anziani non autosufficienti. Nel caso dei disabili giovani e adulti non superiamo un terzo della domanda potenziale. I posti disponibili negli asili nido non raggiungono un quarto del potenziale bacino di utenza. Il Reddito di cittadinanza ha finora accolto meno della metà dei suoi potenziali beneficiari, e una domanda su quattro è stata respinta. Certo, ciascuno di questi interventi ha la sua storia, ma per motivi diversi ciascuno ci parla di un raggio d’azione limitato, quando non addirittura marginale. Ma non ci sono solo problemi di copertura. La rete dei servizi sociali, dagli asili nido alle case di riposo, è ampiamente improntata a un modello domanda/risposta, prestazionale, e “oggi risposte standard ai bisogni di welfare non sono più accettabili” (Granata, 2019). Molti servizi che abbiamo costruito negli anni faticano a tenere il passo con il cambiamento. Qualche esempio: i servizi domiciliari per anziani dei Comuni sono diventati servizi di nicchia e marginali; i centri di aggregazione giovanile e gli Informagiovani si sono via via svuotati di un interesse che si rivolge altrove; le comunità terapeutiche per le dipendenze attraversano da molti anni una fase di crisi e di ripensamento; le strutture residenziali per anziani accolgono in un caso su cinque (dati di Regione Lombardia) una utenza definita impropria, in quanto avrebbe bisogno di servizi più aperti, meno custodiali, meno costosi. Un quarto delle residenze per disabili in Italia ha più di 80 posti letto, dimensioni che deprimono le possibilità di inclusione sociale. Si fa strada l’idea che per intercettare di più e meglio i bisogni servano più risorse ma soprattutto interventi diversi: un modo nuovo di pensare all’aiuto possibile.  

Quale innovazione?

Di innovazione parlano tutti, alcuni la praticano, molto pochi ne spiegano i meccanismi. E’ un termine su cui convergono – nel welfare dei servizi – attenzioni e punti di vista molto diversi: c’è chi ne guarda la modificata composizione in chiave di attori privati profit e non profit (Maino e Bandera, 2019; Maino e Razetti, 2019), chi il potenziale di investimento e impatto sociale (Human Foundation, Montesi, 2016), chi i modelli di servizio e di service management (Fosti, 2013, Notarnicola et al., 2019), chi la dimensione di luogo come addensatore di trasformazione (Venturi e Zandonai, 2019), chi i processi di costruzione dal basso di un welfare comunitario (Conte e Laffi, 2019), chi la componente di prossimità e collaborativa (Marocchi 2015; Pasquinelli 2017, 2019), chi la spinta delle piattaforme digitali (Maineri e Pais, 2016). Il nostro punto di vista guarda ai tanti progetti di innovazione come potenziali fonti di cambiamento per l’intero welfare sociale, per l’intero sistema dei servizi. Perché è nella osmosi tra progetti e servizi, tra esistente e nuovo che l’innovazione diventa efficace, è nell’uscire da una dimensione ristretta, di “buona prassi”, che l’innovazione può passare da opportunità per pochi a diritto per molti. Serve un nuovo sguardo, il passaggio da una centratura sui “servizi” – per le famiglie, per chi è fragile e svantaggiato, per le persone con disabilità e così via – ad una sulle attività della vita quotidiana: abitare, prendersi cura, lavorare, educare. Parlare di “welfare di comunità” significa riferirsi ai desideri, non solo ai bisogni, delle comunità locali. Il perimetro dei servizi si allarga, così come deve crescere la loro funzione: non più soggetti delegati a fornire risposte, ma attori fra gli altri: attivatori di risorse, relazioni, connessioni. Non facile, in contesti abituati a relazioni biunivoche, del tipo erogatore-utente, o committente-fornitore. Se al posto di allestire un nuovo centro di aggregazione giovanile coinvolgo, in un percorso di coprogettazione, un oratorio, due associazioni e un gruppo di volontariato, sto dando valore a ciò che questi fanno, spendo meno come ente pubblico e genero una ricaduta che può essere amplificata. Pensiamo ai SAD comunali, da anni servizi in sofferenza: se riconverto il servizio di assistenza domiciliare in un servizio che si avvale di badanti formate, e le collega con una serie di prestazioni diverse offro qualcosa che non costa di più ma che può rispondere molto meglio ai bisogni degli anziani.  

Out of the box

Cambiano i termini: non più istanze, utenti, prestazioni, ma attivazione, condivisone, collaborazione, fiducia (Ripamonti, 2011). Rispetto ai servizi sociali tradizionali cambia il mandato: non erogare ma connettere, non rispondere ma costruire possibilità, non più riparare i mali di una società fragile, ma abilitare, intraprendere, intermediare. Su queste scommesse si stanno oggi misurando molti progetti, con esiti ancora variabili e talvolta incerti, ma con idee che certo non mancano: badante di condominio, baby sitter condivisa, biblioteche con iniziative aggregative e sociali, cortili sociali, social street, orti sociali, banche del tempo, formazione inter-generazionale, co-housing. Gli esempi si moltiplicano nella direzione di mutualizzare i bisogni e condividere il loro soddisfacimento. L’attivazione può riguardare anche i singoli, attraverso un patto che impegna e responsabilizza. Nel Reddito di cittadinanza i Patti per l’inclusione sociale puntano a condividere con la famiglia gli impegni necessari a garantire la fuoriuscita dalla povertà (Mesini, 2018). Si può così “costruire un legame fiduciario con l’utente, chiedergli di non ridursi ad essere solo recettore di aiuti ma a sua volta di collaborare per dare una mano ad altri” (Ranci Ortigosa, 2016). La dialettica tra progetti innovativi e servizi che già esistono è poco tematizzata. L’innovazione come tale esce dal terreno noto, cerca nuove risposte, soluzioni “out of the box”. Se vogliamo però evitare la creazione di un binario parallelo, una sorta di fratello minore, occorre anche un movimento di ritorno, una rete dei servizi che metabolizza le innovazioni ritenute valide e utili, le accredita, allargando il suo perimetro. E questo è molto difficile, avviene poco e con tempi troppo lenti. Due esempi. Primo, le comunità residenziali per anziani, strutture piccole (massimo 25 posti) per persone autonome o con lievi problemi di autosufficienza, realtà che appartengono alla grande famiglia dell’housing sociale (Rogel, 2018). L’esperienza italiana e internazionale ha dimostrato la validità di soluzioni di questo tipo in alternativa al ricovero in Rsa, per gli anziani accolti, che hanno maggiori possibilità di relazione col contesto locale, e per i conti pubblici (Giunco, 2014), ma faticano ancora molto a diffondersi e ad accreditarsi. Stessa sorte riguarda le esperienze di budget di salute e budget di cura nel campo della disabilità e della salute mentale, oggetto di molte sperimentazioni. Una nostra ricognizione (Castegnaro e Cicoletti, 2017) ne ha verificato l’importante potenziale a fronte di numeri alquanto limitati, misure che richiedono una non facile ricomposizione delle risorse e dei soggetti (Comuni e Asl) e che faticano a trovare cittadinanza nella programmazione dei servizi.  

Cosa c’è di nuovo

Analisi, ricerche e la nostra esperienza diretta ci parlano di tre dimensioni chiave che investono i processi di innovazione del welfare territoriale.

  1. La dimensione di rete. Fare rete è un refrain che attraversa ogni iniziativa di cambiamento, perché insieme può crescere la profondità e l’efficacia degli interventi. Oggi, la sfida per rendere le reti sostenibili e durature è ridisegnarle come infrastrutture di luoghi: “le reti sono chiamate a ridisegnarsi, operando non solo come struttura di back-office delle singole unità di produzione, ma come hub che abilitano una molteplicità di iniziative e attività intraprese da soggetti che non necessariamente operano all’interno dei propri confini organizzativi” (Venturi e Zandonai, 2019, pag. 74).

Queste nuove reti devono costruirsi su partnership circolari (Pasquinelli, 2019): reti multi-attore che puntano sulla complementarietà delle competenze, delle funzioni, delle aree di intervento. Alleanze non più tra simili ma tra diversi. Le partnership circolari, a differenza di quelle tradizionali, sono centripete perché basate sulla condivisione dei benefici derivanti dal partecipare a un dato progetto. Benefici economici, reputazionali, di mercato, essenziali in una logica di sostenibilità nel tempo.

  1. La dimensione di luogo. Dimensione che attraversa il vasto e crescente mondo della rigenerazione urbana, spazi pubblici dismessi e rinati per un uso collettivo, e molti progetti di sviluppo di comunità. Pratiche innovative che abitano spazi marcati territorialmente.

Ormai in ridimensionamento la “bolla” del digitale a vocazione sociale, in questi anni assistiamo a una grande rivalutazione dei luoghi fisici. Importanti perché riguardano relazioni e aiuti che hanno bisogno di uno spazio per essere agiti e riconosciuti, identificati. Il luogo fisico testimonia l’esserci, il presidio, può essere incubatore di collaborazione, si fa presenza non virtuale, può diventare “porto sicuro”. Molti progetti di welfare di comunità hanno trasformato degli spazi in luoghi identitari, cioè dove non solo si realizzano attività, ma ci si “ritrova”, ci si sente parte. Nelle loro innumerevoli varianti (hub, empori, laboratori, punti di incontro, coorti, cascine e così via), i luoghi si affermano tanto più se si diversificano, cioè se escono dalla sola sfera dell’aiuto sociale dislocandosi anche su altro: il versante culturale, dell’intrattenimento, del tempo libero, della filiera alimentare, del lavoro (co-working). Se sanno cioè ricomporre ambiti di vita, di consumo, di lavoro diversi. Insomma non solo prestazioni ma un insieme variegato di occasioni, aperte, inclusive. Se diventano “evocativi” (Pasquinelli, 2019).

  1. La dimensione digitale. Un terreno, quello delle piattaforme digitali, su cui si giocano ancora molte aspettative. Paradossale: perché la piattaforma digitale è – spesso – l’antitesi dello scambio comunitario. Le piattaforme online, almeno quelle dell’economia mainstream e della sharing economy, si fondano su un rapporto uno a uno con l’utente, non favoriscono coinvolgimento, ancora meno “ingaggio”, al massimo relazioni con poche persone di cui si è usata la casa, la macchina e così via.

  Soprattutto, le piattaforme sociali raramente realizzano transazioni (matching domanda-offerta), ma si limitano a facilitarle. Perché l’aiuto sociale ha bisogno di un appoggio organizzativo e di una mediazione faccia a faccia, off-line. Anche per questo la piattaforma di welfare costituisce solo una parte di progetti che si realizzano in buona parte altrove, sul piano non-virtuale. Spesso, inoltre, sono frutto di un’ampia compagine di soggetti, non di una sola impresa, e questo diventa fonte di non poche fatiche, al loro interno e nell’interfaccia col pubblico. E quindi, se funzionano poco per fare transazioni, incontro e scambio, a cosa servono le piattaforme sociali? Servono ad altro: dare visibilità, diffondere informazioni, abilitare connessioni, ricercarne di nuove, fare fundraising. Tutto ciò vale il loro costoso sforzo? È una domanda aperta.  

L’innovazione è replicabile?

Queste diverse direttrici di cambiamento hanno ancora molto bisogno di essere decifrate. C’è un deficit di conoscenze sulle pratiche innovative, le opportunità e le difficoltà che incontrano. Occorre uscire dallo storytelling, dalle narrazioni delle cose buone e capire cosa realmente “funziona”, con quali ricadute e a quali condizioni. Un piccolo esempio: le esperienze di badante condominiale hanno finora prodotto esiti molto incerti. Non così per le baby sitter, dove le piattaforme digitali sembrano funzionare decisamente meglio (Pasquinelli 2015).   In un noto saggio Peter Hall (1980) ci ha insegnato quanto gli inciampi, gli errori, i fallimenti siano istruttivi, per capire come superare le criticità nei progetti di sviluppo urbano e trovare soluzioni efficaci. Invece rimane forte nel sociale la reticenza a parlare delle difficoltà incontrate, con un rinvio sistematico a fattori esogeni: un contesto “culturalmente non ancora pronto”, risorse risultate insufficienti e così via. Esplicitare le criticità incontrate, soprattutto se riconducibili alla governance interna, viene vissuto come una colpa, e non invece come un atto di trasparenza e, proprio per questo, di credibilità. E così si ha l’impressione di ricominciare sempre daccapo, nella vana ricerca della replicabilità. La trasmissione delle lezioni apprese, e il confronto su di esse, sono processi ancora largamente carenti nel nostro paese, resi possibili, occasionalmente, da pochi “think tank”.  

Contaminazione e scaling up

Quello dei progetti e quello dei servizi sono mondi che si stanno lentamente avvicinando grazie a programmi pubblici e privati che aiutano il dialogo, la coprogettazione (De Ambrogio, Guidetti, 2016). Dove ciò non avviene, i risultati li conosciamo: progettazioni che lasciano poco una volta finiti i finanziamenti. O viceversa servizi diventati obsoleti che faticano a rinnovarsi. E se il nuovo semplicemente si giustappone al vecchio si stratifica un sistema sempre più complicato e inefficiente. Dobbiamo uscire dalle sperimentazioni infinite, mettere a valore l’esperienza maturata, uscire dai prototipi e aiutare a far crescere ciò che ha dimostrato funzionare. Dal piccolo al grande i ponti spesso mancano in questo Paese. Abbiamo bisogno di canali che rendano permeabili il nuovo con l’esistente, che ci consentano di disegnare il welfare di domani. “Non solo la trasferibilità, ma anche la stabilizzazione e lo scaling up delle innovazioni presentano molti limiti” (Sabatinelli, 2016). Per superarli abbiamo bisogno di molto lavoro: occasioni di confronto su cosa funziona e cosa no, come valutare gli impatti, cosa può essere riproducibile e a quali condizioni.   Come Welforum vogliamo approfondire questi temi, dentro le politiche di cui ci occupiamo. Per fare la nostra parte e, insieme, aiutare a costruire una rete dei servizi più moderna e al passo con i cambiamenti che ci stanno sfidando.