L’insostenibile leggerezza del Pacchetto Omnibus


Lucia Dal Negro | 30 Aprile 2025

Il percorso politico che ha portato alla definizione del Green Deal Europeo, iniziato nel 2019, è stato ad oggi il più ambizioso processo di tematizzazione e traduzione normativa di una visione industriale europea in cui fosse l’analisi di lungo periodo a determinare le scelte da compiersi nel breve. La rilevanza data alle analisi climatiche e ai dati scientifici legati agli impatti sociali e ambientali dell’attuale modello di produzione e consumo hanno guidato le scelte di una Unione Europea tesa a dimostrare concretamente l’importanza di un cambio di passo nella produzione e nel consumo delle risorse, dei prodotti, dei servizi e del lavoro. Dall’agricoltura biologica alle energie rinnovabili offshore, passando per l’economia circolare e il monitoraggio delle foreste, la quantità di Piani d’Azione, Proposte normative e Accordi politici a favore di un’economia verde e, quindi, competitiva, non ha precedenti nella storia e nella geografia delle organizzazioni sovranazionali contemporanee. La simmetrica spinta verso l’organizzazione e la razionalizzazione dei dati ESG raccolti mediante rendicontazione non finanziaria, progressivamente considerata come un dovere e non più come un processo volontario, ha rafforzato un periodo di policy-making particolarmente virtuoso per chi, da anni, si affanna a smentire il trade-off tra crescita economica e tutela della natura e delle comunità, tendenziosamente sbandierato da forze politiche e rappresentanze settoriali poco convinte che i costi dell’adeguamento normativo in realtà non fossero che investimenti.

La tassonomia ambientale, la Direttiva sulla Rendicontazione di Sostenibilità (CSRD) e la Proposta di Direttiva sulla Due Diligence (CSDDD) hanno dunque posto le basi per un totale ripensamento delle logiche sottese alla rendicontazione di sostenibilità: dapprima considerate di nicchia e solo per pochi attori di grandi dimensioni, successivamente associate a settori industriali ad alto rischio ambientale/sociale, da ultimo finalmente inquadrate all’interno di dinamiche di conoscenza e mappatura di Impatti, Rischi e Opportunità necessarie in tutte le aziende, di qualunque settore, per tracciarne la rotta di crescita e sviluppo. Fuori da quel “nice to have” che ha ridotto la portata e la credibilità di tali processi fin dal loro concepimento, con la Direttiva CSRD – in particolare – si sono posti pochi ma potenti paletti concettuali: l’utilizzo di indicatori standard per tutte le aziende europee, a favore della comparabilità del dato ESG (i), la necessità di indagare sugli impatti aziendali verso gli stakeholder ma anche su quelli provenienti dall’ambiente e rivolti verso la dimensione finanziaria aziendale (doppia materialità ad impatto) (ii), il collegamento tra bilancio d’esercizio e il Report di Sostenibilità, con la presenza di tabelle di raccordo obbligatorie tra spese in Capex e Opex e le loro motivazioni ESG (iii), oltre che l’obbligo di assurance esterna e deposito della relazione come addendum al bilancio d’esercizio (iv).

Dove non avevano osato i più ortodossi esperti delle molte metodologie di rendicontazione ESG, giunse l’Unione Europea con la Direttiva 2022/2464. Il passato remoto è d’obbligo, tuttavia, perché remoto appare il tempo in cui le aziende iniziano ad accorgersi che l’obbligatorietà dell’imminente Direttiva le avrebbe costrette a considerare l’Ambiente e gli impatti Sociali un po’ più che aspetti della voce “Varie ed Eventuali” negli ODG degli Organi di Amministrazione, Direzione e Controllo. La necessità di una due diligence, di un vero e verificabile coinvolgimento degli stakeholder, di una formazione interna per poter raccogliere i dati e, infine, di un budget dedicato all’argomento hanno lasciato un solco tra un “prima” e un “dopo” CSRD, che pareva destinato a segnare un nuovo capitolo valoriale nell’operato delle 55.000 aziende europee con più di 250 dipendenti, 50 milioni di fatturato e 40 milioni di patrimonio netto. In aggiunta a ciò, i numerosi consulenti e tecnici, organi di certificazione, dipartimenti universitari, rivoltisi con interesse – anche commerciale – a percorsi di formazione e approfondimento della complessissima norma CSRD, avevano determinato quel “Rinascimento tecnico-culturale” (con relativo indotto in crescita) che pareva aver smosso non soltanto le migliori aziende ad investire in una preparazione al percorso di compliance, ma tutti i suddetti corpi consulenziali ad assumere, formarsi, investire in conoscenza sostenibile applicata alle imprese.

Eppure.

Il riposizionamento ideologico della seconda commissione Von Der Lyen, le elezioni americane vinte da Trump e dal suo furore semplificatore, la crisi energetica frutto della guerra in Ucraina, le molte resistenze delle lobby industriali ed agricole hanno portato a quello che per qualcuno è stata la più grande e maldestra operazione di revisionismo normativo-ambientale della storia: il Pacchetto Omnibus.

Il 26 febbraio 2025 viene resa nota la proposta contenuta in tale pacchetto dedicato alla semplificazione normativa delle regolamentazioni (non solo ambientali) europee, spinta dalla crisi dell’automotive e ad essa aggrappata per giustificare ciò che è apparso ai più una de-regolamentazione, anziché una semplificazione.

Se i 1178 datapoint contenuti nella CSRD sono apparsi esageratamente complessi (e costosi) da gestire per le aziende europee (e a ragione – beninteso) la proposta, frutto di mesi di confronto fra le parti politiche, altro non ha sortito che la cancellazione dell’obbligo di compliance per il 90% delle aziende on target. Un po’ come se le numerose norme del Codice della Strada fossero così varie e complesse da proporne l’applicabilità solo al 10% del parco auto circolante italiano. Peggio è andato alla CSDDD, svuotata della responsabilità civile sugli obblighi in essa contenuti e alla tassonomia ambientale, resa volontaria e non più obbligatoria.

Non è chiaro come si evolverà lo scenario della rendicontazione ESG per il settore privato europeo: le discussioni all’interno del trilogo (Commissione, Parlamento e Consiglio) non sono concluse e – seppure il 3 aprile 2025 il Parlamento abbia votato a favore di un delay di due anni dell’entrata in vigore della CSRD, quest’ultima con i medesimi target approvati in precedenza – la travagliata vita di una Direttiva che aveva il merito di aver promosso i temi ESG tra le cose “serie” di cui tenere conto nei piani industriali delle aziende, dimostra quanto sia insostenibile la poca lungimiranza di una politica sovranazionale che dovrebbe farsi portavoce di una visione più “aerea” del futuro, per anticiparne le opportunità e prevenirne i rischi.

Ancora una volta, quindi, sarà al livello molto più “terreno” in cui operano tecnici, consulenti, docenti, associazioni, comitati che lavorano al fianco del privato profit, che si potrà capire il da farsi. Tuttavia, la mancata considerazione dell’impegno dei suddetti attori e dei loro investimenti in “sapere sostenibile” chiarisce nettamente chi e cosa vada sacrificato all’altare della “semplificazione a favore della competitività industriale europea”. Come a dire che l’industria e le imprese si realizzano solo nell’assenza di misurazioni che non siano quelle contenute nei bilanci d’esercizio. Una visione, questa, vecchia come le sue prime critiche risalenti agli anni ‘60. Miope come le aspettative di un’industria nazionale ed europea, più spaventata che ambiziosa. Pericolosa come la perdita di fiducia in quell’ultimo baluardo di progressismo socio-ambientale che aveva reso la nostra Unione un modello per molti, finora.