Progetti per il dopo di noi – ruoli, collaborazioni, strumenti necessari


A cura di Claudio Castegnaro | 15 Marzo 2024

Intervista ad Alessandra Cocchi e Giulio Rufo Clerici

 

La legge 112/2016 prevede degli strumenti giuridici per sostenere i progetti individualizzati per il durante e dopo di noi. A che punto siamo sul piano applicativo, a distanza di oltre 7 anni dall’emanazione della norma?

Alla luce della nostra esperienza le misure della legge 112/2016 devono essere inquadrate in una collaborazione a livello di sistema – a partire sia dalle c.d. misure di protezione, come l’amministrazione di sostegno, sia dal progetto individuale di vita – con un ruolo determinante degli enti locali, in quanto garanti della fase di elaborazione del progetto e della sua realizzazione nel tempo: in tale quadro le persone e le famiglie assumono un ruolo più forte e le risorse risultano meglio utilizzate.

Attualmente, lo strumento giuridico previsto dalla legge 112/2016 più utilizzato è il trust per la persona fragile1. Si noti che nel nostro Paese, generalmente, sono costituiti dei trust “normali” con clausola sospensiva, senza collegamento con la disciplina sul dopo di noi. Il vantaggio fiscale per i disponenti generalmente viene in rilievo sopra la soglia patrimoniale di 1,5 milioni di euro, appannaggio di famiglie economicamente benestanti. Con le regole attualmente vigenti2, il principale beneficio ottenibile nel caso di trust dopo di noi, attivato quando i genitori o altri familiari sono ancora in vita, è riferito alla possibilità che i beni conferiti ritornino ai disponenti senza oneri, nel caso di premorienza della persona con disabilità.

I dati al momento disponibili potrebbero sottostimare il fenomeno del dopo di noi, in quanto non esiste una codifica nazionale degli atti di trust che consenta di fare statistiche puntuali. Occorrerebbe pertanto leggere ogni atto e desumere, da motivazioni e finalità, che quel determinato trust costituisce, effettivamente, un trust per il dopo di noi. La nostra percezione è che stiamo parlando ancora di un gruppo di famiglie particolarmente proattive che, su base nazionale, potrebbero essere alcune migliaia.

Il vincolo di destinazione, previsto anch’esso dalla legge 112/2016, offre uno strumento giuridico interessante tecnicamente ma può incontrare difficoltà di funzionamento, perché presuppone dei patrimoni di natura “statica”, mentre nelle gestioni a lungo termine c’è bisogno di spendere a beneficio della persona con disabilità; né appare certo il regime giuridico dei nuovi beni, acquistati per mezzo di quelli inizialmente vincolati. Affinché il vincolo di destinazione possa essere utilizzato, c’è dunque bisogno di un quadro normativo più chiaro e di prassi consolidate da parte del notariato e dei professionisti.

Occorre tenere presente che gli strumenti della legge 112/2016 (trust, vincoli di destinazione e fondi speciali) sono tuttora poco utilizzati, sia fra i professionisti che possono dare consulenza ai beneficiari e ai loro cari, sia tra i giudici tutelari e gli amministratori di sostegno. Occorre sviluppare l’informazione e la conoscenza specifica a partire dalle famiglie. Per la gestione delle risorse del trust, il nostro ordinamento consente di costituire o di rivolgersi ad enti specializzati per il durante e dopo di noi – in favore di singole persone e a livello collettivo – strutturati nella forma giuridica considerata più adeguata (fondazione, fondazione partecipata, impresa sociale, ente del terzo settore iscritto o meno al Registro Unico). A Milano, ad esempio, operano tra l’altro la Fondazione Idea Vita e la Fondazione Lombarda Affidamenti.

Sono centrali i temi della professionalità e delle garanzie necessarie alle famiglie. Per accompagnare una persona con disabilità, infatti, occorrono formazioni e competenze specifiche a livello professionale per non correre il rischio di elaborare delle soluzioni “fai da te”. Le soluzioni e gli strumenti giuridici vanno identificati tenendo sempre presente la disciplina ordinaria della tutela giuridica delle persone fragili, guardando ai rispettivi ruoli e alla collaborazione tra giudice tutelare, che valuta richieste e decisioni sul piano personale ed economico, e amministratore di sostegno, che opera nell’interesse della persona fragile. Ciò a maggior ragione, in presenza di trust o di altri strumenti previsti dalla legge. Crediamo che la promozione della tutela giuridica, in tutte le sue forme, sia a vantaggio di tutti: primo delle famiglie che possono sentirsi partecipi delle misure di protezione, secondo perché permette un’allocazione più efficiente delle risorse. Se il giudice tutelare valuta inizialmente con attenzione la richiesta di costituire un trust, poi, se tutto va bene, può verificare il funzionamento di un sistema che ha pesi e contrappesi anche al suo interno. Il giudice avrà così più risorse per gestire gli altri casi e le evenienze che necessitano di approfondimento. Pensiamo che sia l’ottica vincente, nella quale l‘interesse pubblico e privato possono coincidere, senza lasciare indietro nessuno.

Gli strumenti della legge 112/2016 devono quindi essere inquadrati all’interno di un quadro istituzionale collaborativo, a livello di sistema, a partire dal progetto di vita individuale, personalizzato e partecipato, e dal ruolo dei comuni che hanno il compito di assicurarne la elaborazione e la realizzazione effettiva. In questo quadro il ruolo della persona con disabilità e della sua famiglia diventa più forte e le risorse – pubbliche e private – sono utilizzate in modo tanto efficace quanto efficiente.

Come gioca il ruolo delle istituzioni?

Dobbiamo domandarci che cosa possiamo fare anche al di là delle misure di protezione, pensando alla Costituzione e alle funzioni istituzionali che hanno un comune o un ambito territoriale sociale: al riguardo occorre richiamare il rispetto dei diritti fondamentali riconosciuti, oltre che dalla legge 112/2016, anche dalla Costituzione (ad esempio gli artt. 2 e 3, 30, 32 e 38), dalla Convenzione ONU in data 13 dicembre 2006 (es. art. 19) e dalla Carta dell’Unione Europea (art. 26).

I comuni sono chiamati ad elaborare un progetto individuale per/con le persone con disabilità e i familiari. In sostanza, si deve sviluppare un dialogo, anche a scopo di garanzia, a partire con gli operatori del segretariato sociale. Tuttavia, i comuni possono incontrare difficoltà per una presa in carico tempestiva, anche per mancanza di personale formato e nel caso di grave disabilità e/o patologia mentale, le quali vengono considerate di competenza dell’ambito clinico e quindi dei medici. Su base territoriale, inoltre, possono manifestarsi ritardi, o risposte negative, alla legittima richiesta di elaborare un progetto di vita, dando luogo ad azioni anche in sede giudiziale.

Viceversa l’ascolto e il coinvolgimento delle famiglie permette di dare rilievo alle esperienze e un valore anche giuridico alle aspettative personali. Riconoscere l’esperienza di tante famiglie consente inoltre di creare le basi per poter dare qualcosa alla comunità, in una maniera strutturata, e la comunità può integrare quanto messo a disposizioni di singoli e gruppi, offrendo qualche cosa in più di quanto disponibile nei singoli budget di progetto. Può nascere così una sinergia che tiene conto del fatto che non tutte le famiglie hanno le stesse esigenze: laddove ci sono realtà familiari più significative, saranno loro a dare di più; laddove sono attivi comuni più virtuosi, saranno loro a offrire opportunità e risorse maggiori, attraverso canali che permettono un flusso in entrata e in uscita più controllato. L’esistenza di un progetto individuale di vita, recepito dal Comune o dall’ambito territoriale sociale – già previsto dalla legge 328/2000, nuovamente regolato dalla legge 112/2016 e, di recente, sperimentato nella dimensione esistenziale della persona interessata, come a Reggio Emilia – costituisce uno strumento tramite il quale possono venire destinate risorse familiari, da integrare al bisogno, e collocate in un percorso più ampio, con l’offerta di misure e servizi territoriali, nonché comunitari.

In questa prospettiva il progetto di vita non è una semplice lista di attività, ovvero quello che un comune e una asl possono garantire ed erogare in quel dato momento.  Per elaborare un progetto di vita occorre ragionare a lungo termine, sulla base delle esperienze maturate, per utilizzare al meglio ciò che è disponibile tempo per tempo.

Noi pensiamo che le famiglie possano trovare – oltre che nelle istituzioni – nei giudici tutelari un interlocutore e una garanzia per il futuro dei propri figli e dei propri cari. Non sulla base di una eventuale interdizione – una misura basata più sul patrimonio e sul totale spossessamento dell’autonomia della persona – quanto piuttosto alla luce dell’amministrazione di sostegno e degli articoli 404 e seguenti del Codice Civile, i quali pongono la persona idealmente al centro e in dialogo diretto anche con il giudice stesso.

A Milano sono attivi sei giudici tutelari, oltre ai giudici onorari. Le amministrazioni di sostegno si sostanziano in circa 20.000 procedimenti.

Ogni persona fragile, infatti, può ricorrere al Giudice tutelare (art. 406 c.c.), così come il Giudice tutelare procede alla “nomina di un amministratore di sostegno, in presenza di una condizione di incapacità”3, ascoltando il beneficiario e tenendo in considerazione le sue richieste (art. 407 c.c.).

La normativa dell’amministrazione di sostegno compie in questi giorni vent’anni (legge 9 gennaio 2004, n. 6) e ha dato vita, nel tempo, a prassi consolidate. Al riguardo, a Milano, abbiamo promosso la convocazione di un Tavolo tecnico presso l’Osservatorio sulla Giustizia civile, al fine di elaborare una serie di massime di comportamento, da aggiornare periodicamente.

In particolare, abbiamo condiviso la massima secondo cui l’avvocato amministratore di sostegno può ricoprire anche il ruolo di guardiano del trust istituito nell’interesse dello stesso beneficiario e disciplinato dalla legge regolatrice del trust nonché dalle disposizioni dell’atto istitutivo; inoltre è opportuno che l’atto istitutivo del trust preveda la decadenza dal ruolo di guardiano dell’amministratore di sostegno cessato dalle sue funzioni. In tal modo la presenza del guardiano del trust e la coincidenza di tale ruolo con quello di amministratore di sostegno offrono una migliore garanzia per la realizzazione delle finalità di protezione della persona fragile.

Inoltre i soggetti vicini alla persona con disabilità potrebbero soffermarsi non solo sulle sue necessità e sui bisogni contingenti, ma anche sulle sue prospettive e quindi sull’evoluzione legata ai cicli di vita, fino alla possibile “guarigione”: un traguardo talora raggiungibile, grazie ai progressi scientifici e tecnici e ai cambiamenti in campo sociale ed economico. Oggi possiamo e dobbiamo immaginare che cosa potrebbe avvenire, in determinati momenti di svolta, nella esistenza delle persone fragili. Crediamo che il compito degli operatori sia quello di illuminare possibili strade, tenendo presente gli eventi della vita umana (pensiamo alla nascita di un rapporto di affetto, di convivenza, etc. …).

Ben vengano quindi buone prassi, percorsi e ruoli ben definiti – anche delineati nelle massime – che promuovano l’attività degli operatori intenti ad attuare i progetti individuali e a tutelare i singoli beneficiari delle misure di protezione. Prendere il progetto individuale quale “mattoncino privatistico” e strumento che permette di creare dei modelli un più strutturati un più ampi ci sembra sia una strada da percorrere. Ugualmente, il rapporto di fiducia tra beneficiario, amministratore di sostegno e giudice tutelare è fondamentale per garantire sostenibilità economica e finanziaria a soluzioni per l’abitare, centri diurni, progetti inclusivi fondamentali per la vita dei soggetti fragili, sia come singoli, sia come parte di formazioni sociali.

Quali sviluppi possiamo immaginare?

Gli sviluppi che possiamo immaginare sono tanti, almeno quanto le persone fragili. Ad esempio è possibile che tramite un trust collettivo, ben ideato e gestito, siano create le condizioni per progetti più ampi, supportati da enti finanziatori (magari appartenenti alla finanza etica) e valutabili positivamente anche dai giudici tutelari, laddove emerga una idonea struttura e la trasparenza delle operazioni. Una architettura solida e ampia, che si orienti al tema della solidarietà. Non si tratta di pensare a soluzioni solo per chi può pagare, per le famiglie “più strutturate”, ovvero per i casi più promettenti sul piano dell’autonomia e della vita indipendente. A chi dispone di risorse si può proporre di fare uno sforzo aggiuntivo e costruire, in questo modo, un sistema mutualistico formalizzato in un trust collettivo: un contenitore in cui ognuno partecipa con quello che può. Il passo da fare è creare un’organizzazione che permetta di rendere i progetti finanziabili e, nel contempo, non perdere l’occasione di lavorare secondo un principio solidaristico. Occorre identificare prioritariamente le possibili fonti di finanziamento. La forma organizzativa conseguente, adeguata per accogliere contributi e investimenti sociali, si accorderà a tali risorse. Per i trust collettivi sono prefigurabili anche riferimenti di secondo livello, come l’amministratore di sostegno di comunità.

  1. Cfr. l’articolo “Legge Dopo di Noi: spunti per nuovi modelli di residenzialità assistita”, welforum.it, 21 settembre 2021.
  2. Si veda la Circolare dell’Agenzia delle Entrate n. 34 del 20 ottobre 2022, con oggetto “Disciplina fiscale dei trust ai fini della imposizione diretta e indiretta”, qui scaricabile.
  3. Cass. 18 giugno 2014 n. 13929.

Commenti

Grazie dott.Castegnaro. Il trust collettivo, magari aperto a nuovi inserimenti, come da Lei tratteggiato può essere la chiave di volta per sostenere progetti di vita e budget di progetto, anche in un’ottica solidale. Secondo Lei è indispensabile una fondazione di partecipazione per affrontare questa complessità? O possono farsene carico altre forme giuridiche ETS? E soprattutto come coinvolgere i giudici tutelari che spesso di struts non vogliono sentir parlare? Grazie.
Daniela Vicentini
http://www.lacasavolante.org

Risponde l’autore, Claudio Castegnaro:
La ringrazio per la domanda. A mio parere, la forma giuridica di un ente gestore specializzato, competente e capace di affrontare – come dice giustamente – “questa complessità”, va identificata caso per caso, territorio per territorio, avendo svolto un’analisi preliminare approfondita. Non credo sia possibile, e nemmeno opportuno, pensare a un modello unico valido per tutte le situazioni. Guardando all’esperienza maturata dal basso in molti contesti territoriali, risulta indispensabile l’aiuto tecnico di professionisti esperti e indipendenti. La Fondazione di partecipazione è una delle possibile forme giuridiche che è possibile considerare.
Per quanto riguarda il rapporto tra Giudici tutelari e trustee, le posso riportare che vi sono situazioni in cui un trust apparirebbe un istituto positivamente considerato dai Giudici, non ultimo per quanto riguarda diritti e doveri collegati alla disciplina sull’amministrazione di sostegno.