Questioni e sfide per le politiche rivolte alle persone con disabilità


Claudio Caffarena | 17 Settembre 2018

Quello che segue è il tentativo di fare il punto su alcune questioni riguardanti la tematica ‘disabilità’ utilizzando fonti differenti che nascono da vari contesti e dalla voce di soggetti direttamente impegnati sul campo.

“Il corretto posizionamento di chi per sorte o per lavoro sta accanto a persone fragili non dipende da istinti innati ma da cultura, alimentata da conoscenza: un corretto posizionamento contribuisce a costruire cultura inclusiva mediante ciò che si fa e si dice, così come ogni errore contribuisce ad alimentare paure, esclusioni, disuguaglianze”1.

Si tratta di opinioni a confronto, come auspichiamo si possano manifestare nel prossimo seminario nazionale di Welforum.it in programma a Bari il prossimo 27 settembre dal titolo: “Politiche per la disabilità: le sfide davanti a noi”.

 

Programma di Governo e nuovo Ministero

La novità introdotta dal Governo circa l’istituzione del nuovo Ministero per le disabilità, ha suscitato molte perplessità ed interrogativi.

“Glielo dico subito: del suo Ministero avrei fatto volentieri a meno e lo sa perché? Perché mi sento una persona come le altre che vive in una famiglia come le altre, anche se le mie esigenze sono diverse. Avere esigenze diverse non significa però essere diversi: per questo io non sentivo il bisogno di sentirmi staccata dagli altri cittadini, per essere messa in una specie di ‘sottogruppo’ che sembra tanto un ghetto” E’ l’opinione di Rosa Mauro (superando.it).

Anche Salvatore Nocera (superando.it) esprime le proprie perplessità:

“La prima: da sempre il Ministero delle Politiche Sociali coordina le politiche sulla disabilità, anche tramite l’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità. Creare un nuovo Ministero, per giunta senza portafoglio, non può significare che le politiche sulle disabilità siano un settore a parte, in discontinuità con le scelte culturali e politiche inclusive realizzate in Italia da cinquant’anni?

 

La seconda riflessione: cosa vuol esattamente significare l’abbinamento del Ministero delle Disabilità a quello della Famiglia?

Se volesse preludere a politiche di sgravio delle famiglie dalla presa in carico del progetto di vita delle persone con disabilità, questo abbinamento sarebbe il benvenuto.

Se invece volesse preludere a delle ‘mancette economiche’ affinché le famiglie si accollassero ulteriormente il welfare assistenziale dei propri familiari con disabilità, con un crescente allontanamento dei servizi pubblici dalle politiche dei servizi domiciliari e sociali, allora sarebbe una novità non solo sgradita, ma addirittura deprecabile.

Scrive Carlo Giacobini (superando.it):

“La prima impressione, che ci auguriamo venga smentita dai fatti e dalle circostanze, è che i redattori del Contratto abbiano perso ‘qualche puntata’ di ciò che è avvenuto nel Paese in tema disabilità negli ultimi anni. L’esempio più patente è la totale assenza di riferimenti, anche indiretti, al Secondo Programma di Azione biennale per la promozione dei diritti e l’integrazione delle persone con disabilità, un atto che è stato approvato nella veste di Decreto del Presidente della Repubblica, firmato nell’ottobre 2017 e pubblicato in Gazzetta Ufficiale il 12 dicembre successivo. Quel programma, che si articola in otto linee di intervento, impegna Governo, Ministeri, Istituzioni Centrali, Regioni ed Enti Locali in specifiche azioni che investono tematiche rilevantissime, come la salute, la scuola, la mobilità, la cooperazione internazionale, il monitoraggio delle politiche, i nuovi criteri di riconoscimento della disabilità. Quel documento è il risultato di un anno e mezzo di confronto vivo all’interno dell’Osservatorio Nazionale sulla Condizione delle Persone con Disabilità, organismo che ha visto la partecipazione di organizzazioni di persone con disabilità, organizzazioni sindacali, istituzioni centrali e locali, ministeri. Ignorare a piè pari quel documento programmatorio assume, sia voluto o meno, un significato politico di svalutazione del lavoro svolto e anche delle modalità di confronto, condivisione, concertazione adottate. Inoltre lascia parecchio perplessi, soprattutto leggendo poi alcuni passaggi del Contratto, che sono trattati in modo molto più approssimativo e superficiale rispetto al Programma di Azione stesso. I contraenti hanno dunque perso l’opportunità di riprenderne gli elementi essenziali”.

 

Legge 112/2016

A distanza di due anni ormai dalla comparsa della legge 112, alcune osservazioni derivanti dalla concreta ricaduta sui territori interessati. Per un quadro complessivo della situazione rimandiamo alla ricerca condotta dall’Anffas sull’intero territorio nazionale (si veda il rapporto segnalato su welforum.it e l’articolo pubblicato su Vita).

 

Un primo elemento di cui tenere conto è la pluralità di giudizi che sono stati espressi in sedi e da soggetti differenti. Alcuni esempi.

“Nella legge 112/2016 sono in ballo decine di milioni di euro. Verranno regalati ai privati (Associazioni, Fondazioni, ecc.) per creare lobby economiche sulla pelle delle persone con disabilità grave e limitata o nulla autonomia o saranno doverosamente erogati alle Asl obbligate dalle norme precedenti alla stessa legge 112/2016 a fornire le occorrenti prestazioni socio-sanitarie domiciliari, semiresidenziali e residenziali?”2.

Afferma Marco Bollani3:

“La cosa che ho apprezzato di più in generale della legge 112 è la scelta precisa di aver riconosciuto il movimento di esperienze concrete già realizzatesi e di ‘aver portato a casa’, anche grazie al lavoro del mondo associativo, un testo definitivo di legge ed un decreto attuativo in tempi rapidi, risorse aggiuntive (anche se pochissime) ed un’idea generale di intervento e di presa in carico che si sforza di andare oltre la risposta emergenziale, ma anche oltre la mera prestazione”.

Colpisce l’articolo di due pagine de La Stampa del 15 maggio 2017 con il titolo “Il fallimento del ‘dopo di noi’, famiglie sempre più sole e 40 mila disabili fantasma”.

Andrea Malaguti (inviato a Napoli) scrive:

“La legge che doveva cambiare tutto, apparentemente non ha cambiato niente. Eppure nel maggio 2016, quando la prima normativa organica sul dopo di noi fu licenziata dalla Camera, era tutto un darsi di gomito: avete visto? Pensiamo ai più deboli. Bello. O piuttosto balle. Perché i più deboli non se ne sono accorti”.

 

Le prospettive

“I servizi sappiano coltivare il seme di cambiamento che sta nella 112. Non si chiudano a riccio. E le istituzioni e le associazioni e le imprese sociali siano consapevoli di questa necessità. La legge potremo dire che l’abbiamo attuata bene se produrrà tantissimi progetti in più di quelli che riesce a finanziare perché significa riconoscere che ha bisogno di più risorse. Potremo dire che l’abbiamo applicata bene se saprà rinnovare molti servizi diurni e residenziali aprendo per loro nuove possibilità di intervento educativo sociale e di presa in carico“4.

 

“L’auspicio, in conclusione, è che la norma possa essere l’occasione per una riprogettazione complessiva degli interventi a partire da una valutazione complessiva del bisogno. Un bisogno che passa attraverso, con diverse modalità, il sostegno alla domiciliarità per molti, una risposta abitativa per altri. Si colga l’occasione per interrogarsi sul reale ed effettivo significato di presa in carico e di valutazione multidimensionale e quali siano le condizioni minime perché ciò si realizzi”5. Interessante l’articolo di Daria Maistri pubblicato su welforum.it che fa il punto su come si è mossa la città di Milano (“Legge 112 a Milano: primi progetti finanziati”).

 

Per il prossimo futuro è indispensabile un’indagine che rilevi gli esiti, la ricaduta sui territori. E’ molto importante rilevare che cosa ha smosso la legge, in che misura la progettualità dei vari territori ha risposto allo stimolo pervenuto, come è stato possibile integrare al meglio (speriamo) le risorse (pubbliche e private) che verranno messe a disposizione. Già oggi la creatività che gli operatori esprimono va ben al di là di ciò che le risorse sembrerebbero garantire, piuttosto è indispensabile l’elaborazione di normative adeguate alle esigenze delle persone e dei territori interessati.

A questo proposito segnaliamo la recente creazione del Comitato Officina Dopo di Noi “con il compito di monitorare quel che succede nelle Regioni, diffondere buone pratiche, accompagnare le famiglie nel passaggio culturale”.

 

Sanitarizzazione

Un problema emergente che sta assumendo sempre più rilevanza e condizionando il lavoro dei servizi. Ci riferiamo alla cosiddetta “sanitarizzazione”.

“Quando si parla di sanitarizzazione si sottintende che diviene di interesse sanitario ciò che prima riguardava altro. Esprime un’esigenza di controllo e cura sanitaria di alcuni problemi sociali: indica il prevalere di forme di cura e assistenza a scapito di processi di emancipazione della persona”6.

Possiamo affermare che, progressivamente, “avere cura” si sta trasformando in “avere in cura”.

“Si tratta di un processo, promosso da norme relative all’accreditamento, che impone l’assunzione di punti di vista e di strumenti mutuati direttamente dall’ambito sanitario-ospedaliero. Significa snaturare l’approccio relazionale di abilitazione con la persona con disabilità”7.

Gli esempi ormai sono diffusissimi ed evidenziano il pesante condizionamento che deriva da tale impostazione.

“Se per un nonno curare l’orto è un piacevole e benefico passatempo, per il nipote con sindrome di Down diventa ortopedia, ma a condizione che sia con l’esperto iscritto all’albo, altrimenti non è vista neanche come possibilità di vita inclusiva, ma intrattenimento superfluo. Cavalcare per una persona con disabilità è legittimato se con l’ippoterapeuta accreditato e non per il piacere dell’equitazione o del rapporto con l’animale in sé, come è per le altre persone. Qualsiasi amante dell’espressione figurativa si iscrive a corsi di pittura, disegno, scultura senza che ciò divenga arteterapia, come invece per chi ha disturbi relazionali”8.

Significativa la presa di posizione di chi, quotidianamente, nel contatto con le persone di cui si occupa, evidenzia i vincoli cui è sottoposto.

“Come operatori possiamo lavorare perché i processi di inclusione sociale promuovano la reciprocità della cura alla luce di un più consapevole ‘senso del noi’ e contribuire a diffondere benessere e felicità fra le persone e dobbiamo farlo lavorando su altri due livelli:

  • quello legislativo, aiutando a pensare norme più adeguate alla progettualità per il riconoscimento, il rispetto e lo sviluppo delle risposte ai bisogni e ai desideri;
  • nelle organizzazioni per trasformarle, perché l’organizzazione è uno dei mezzi per passare dall’io al noi”9.

 

Innovazione – Formazione

Le novità che, gradualmente, appaiono nell’universo dei servizi, implicano la parallela costruzione di un rapporto di fiducia fra tutti i soggetti partecipanti a questa rivoluzione culturale. La fiducia è un elemento imprescindibile sul quale costruire ipotesi progettuali.

Un esempio evidente è dato dalle novità introdotte dalla legge 112/2016: strumenti come il trust (collettivo) e le fondazioni di partecipazione non avranno fondamenta. Ci vuole un patto tra famiglie, servizi e terzo settore: questa prospettiva implica un cambiamento notevole nei rapporti fra tutti i soggetti coinvolti sul territorio.

La costante evoluzione in atto implica, da un lato un adeguamento delle norme di riferimento, dall’altro la garanzia di un processo di formazione continuo ed adeguato alle esigenze degli operatori coinvolti.

“Gli operatori, stretti quotidianamente tra la sensazione crescente dell’inadeguatezza delle risposte che possono fornire e i mutamenti sociali in atto, sono per primi consapevoli della necessità di un cambiamento. …Per modificare le pratiche, per dare nuove risposte, per trovare spazi di lavoro che offrano anche maggiori soddisfazioni, bisogna accettare che cambiare – sembra banale – significa proprio…cambiare: dismettere alcune tra le cose che si fanno per farne di nuove, che non si sono mai fatte prima”10.

Ma il cambiamento implica risorse a disposizione e, soprattutto, il tempo per pensare, per progettare, per adeguare le risposte alle esigenze delle persone, tutte.

In questi ultimi anni le normative sui LEA e dagli accreditamenti rischiano di irrigidire il lavoro degli operatori e non favoriscono l’apertura verso nuove pratiche e sperimentazioni.

“Emergono chiaramente alcuni interrogativi:

  • come coniugare la flessibilità d’orario e progettuale con il minutaggio?
  • come conciliare l’aumento delle richieste (ICF, sicurezza, qualità, privacy, Haccp, ecc?)
  • come trovare il tempo per la progettazione, le riunioni, la supervisione ecc.?

Ecco allora la necessità di dirigersi verso la costruzione di una nuova cultura territoriale da interpretare come un movimento che orienti e connetti i servizi che operano nel campo della disabilità sul territorio, ma che, soprattutto, esprima una più ampia accezione culturale”11.

A questo proposito è interessante la riflessione suggerita da Marchisio/Curto (op.cit.):

“In questo momento storico ci si muove su una china pericolosa, perché il cambiamento culturale è allo stesso tempo in corso e lontano dall’essere consolidato. Da una parte è ormai esplicitamente condiviso, anche a livello pubblico e mediatico, che le persone con disabilità abbiano dei diritti. Dall’altra parte, però, c’è poca chiarezza sulla natura di questi diritti… Anche se i diritti sono entrati a pieno titolo nel discorso sulla disabilità, talvolta ci si muove ancora in base all’idea che la questione fondamentale sia compensare la menomazione (attraverso l’assistenza o gli ausili) e che questi siano i diritti di cui si parla. Per questa ragione la Convenzione ONU costituisce un’importante guida nel cammino concreto verso la piena cittadinanza…”.

 

“Bisogna che gli operatori dei servizi tornino ad essere liberi di inventare e di re-inventarsi oltre i perimetri delle norme; riformulando i significati del loro agire e ri-valutando esiti e risultati in funzione del senso che le persone, gli operatori e la comunità riusciranno ad attribuire ai prodotti ed alle prestazioni di questi interventi”12.

  1. Paolini M.,“Il progetto di vita e la terza T per le persone con disabilità”, Appunti, n.223, gennaio/marzo 2018, pag.22
  2. Redazione, “Legge 112/2016 sul ‘Dopo di Noi’: omessi i previgenti diritti”, Prospettive Assistenziali, n.198, aprile/giugno 2017, pag.5
  3. Bollani M., “Disabilità e servizi. Rischi di re-istituzionalizzazione?, Appunti, n.221, luglio/settembre 2017, pag.14
  4. Bollani M., op.cit., pag.17
  5. Ragaini F., “Le Marche e il ‘Dopo di Noi’ nel contesto delle politiche regionali per la disabilità”, Appunti, n.222, ottobre/dicembre 2017, pag.21
  6. Merlo G., “L’importante è la salute e non la sanità”, lombardiasociale.it, 12/4/2017
  7. Merlo G., op.cit.
  8. Marengo F./Morpurgo O., “La pizzaterapia? Indigesta”, Prospettive Sociali e Sanitarie, n.3/2018 pag.35
  9. Marengo F., Morpurgo O., op.cit., pag.39
  10. Marchisio C., Curto N., Costruire futuro, Erickson, 2017, pag.178
  11. Bodda G., Caffarena C., Rao S., Taberna R., “Centri diurni per disabili: quali sfide nei nuovi scenari del welfare”, Prospettive Sociali e Sanitarie, n.3.1/2014
  12. Bollani M., op. cit. pag.9