Sibling: percorsi di supporto in Valle di Susa


Erminia ColellaRosanna Taberna | 12 Ottobre 2017

Sei mesi, sei incontri, sei facilitatori e venti sibling accomunati dal desiderio di incontrarsi e confrontarsi, riflettendo insieme sulla propria condizione di fratello o sorella di persona con disabilità. Sibling è il termine che indica i fratelli/sorelle di persone con disabilità, persone che sono diventate oggetto di attenzioni in Italia negli ultimi anni, grazie alle esperienze consolidate in America, Australia ed Europa.

 

Il supporto ai sibling è da tempo sperimentato e utilizzato in altre parti del mondo: i Sibshop di Don Meyer1 e i Sibworks di Kate Strohm2 sono programmi di sostegno pensati per fornire ai fratelli in età evolutiva momenti di svago e confronto sulle strategie per affrontare le difficoltà che possono incontrare nella quotidianità. Tali programmi aiutano i sibling a superare la sensazione di invisibilità che spesso li caratterizza, a dare voce alle emozioni inespresse e a ridurre la sensazione di essere gli unici a vivere la propria particolare condizione. L’attività di gruppo si svolge con la presenza di facilitatori formati e volontari, in una atmosfera informale e di divertimento, dove il linguaggio che accomuna è quello del gioco.

Il riferimento teorico è quello della cura centrata sulla famiglia, la “Family Centered Care”, una filosofia di intervento che riconosce che ogni famiglia è unica ed è costante nella vita del bambino, che i membri della famiglia sono i veri esperti delle risorse e delle difficoltà del bambino e che è opportuno tener conto delle risorse e punti deboli di tutti i membri. Tale approccio ha anche una valenza preventiva, volta a monitorare nel tempo l’evoluzione familiare ed a rafforzare il miglior equilibrio tra risorse disponibili e difficoltà evolutive.

 

La sfida attuata in Valle di Susa è stata di ampliare il target proponendo un percorso di gruppo ai sibling adulti, con la supervisione della Fondazione Paideia di Torino che per prima ha creduto in questo approccio preventivo, promuovendolo e divulgandolo tra gli operatori del settore e garantendo il coordinamento delle esperienze realizzate.

 

Perché occuparsi di sibling adulti?

La relazione fraterna è la più lunga e duratura delle relazioni familiari, segue un suo specifico ciclo di vita ed è caratterizzata dall’essere un rapporto sia di parentela che di amicizia. Il legame si modifica nel corso del tempo, caratterizzandosi per una vicinanza negli anni dell’infanzia, seguita dalla distanza progressiva che avviene durante l’adolescenza e infine dal riavvicinamento durante l’età adulta. Tuttavia, quando uno dei due fratelli ha una forma di disabilità, tali dinamiche si modificano e in età adulta il sibling è chiamato a occuparsi del fratello, soprattutto dopo la morte dei genitori, sostituendoli nella funzione di caregiver. La dimensione della cura è spesso un elemento costante del rapporto fraterno, ma assume una specifica rilevanza in età adulta, rendendo necessaria la costruzione di un progetto di vita che bilanci le esigenze del fratello disabile con i bisogni della propria famiglia. Il problema del “dopo di noi” è tema sicuramente delicato per i genitori, che tuttavia va toccato e affrontato nel “durante noi” coinvolgendo gli altri membri della famiglia e nello specifico i fratelli/sorelle della persona disabile.

Nel prevedere un supporto ai sibling adulti occorre tener presente le loro peculiarità.

Una prima caratteristica è l’eterogeneità: i sibling adulti, a differenza dei bambini e adolescenti, presentano una grande varietà nelle condizioni di vita. Hanno età differenti e situazioni familiari disparate, alcuni vivono ancora con la famiglia di origine, altri hanno una propria famiglia o vivono da soli; tra questi vi è chi ha accolto nella propria casa il familiare disabile e chi invece ha il familiare inserito in una struttura residenziale.

Una seconda particolarità è rappresentata dal porsi domande sul proprio futuro e sulle scelte importanti della vita; le domande frequenti sono: cosa succederà quando i miei genitori non ci saranno più? Dovrò occuparmi di mio fratello/sorella? Chi si occuperà delle questioni finanziarie e degli aspetti sanitari? Ce la farà mio fratello ad avere un impiego? Troverò una compagna che accetti mio fratello? Mi verrà il desiderio di avere figli? La sfida è trovare soluzioni che soddisfino le esigenze familiari senza sacrificare le aspirazioni personali.

La terza caratteristica è l’aver già dovuto trovare un proprio adattamento, differente per ciascuno e con esiti diversi: molti fratelli e sorelle sono riusciti con le proprie risorse e l’aiuto delle figure di riferimento ad attivare percorsi che potremmo definire “resilienti” con esiti positivi, per altri invece la strada può essere stata maggiormente segnata dalle fatiche tipiche della condizione di sibling.

Incontrare il punto di vista dei sibling per gli operatori ha costituito una grande ricchezza perché essi, con la loro accettazione incondizionata del fratello/sorella, possono aiutare a vedere la disabilità con un sguardo nuovo che punta sulle opportunità piuttosto che sui problemi, condividono col proprio fratello un codice comunicativo proprio e privilegiato e contribuiscono a creare spazi di autonomia e svincolo dalla famiglia.

Il percorso di gruppo ha coinvolto venti sibling su un centinaio invitati, nove donne e undici uomini, di età compresa fra i 24 e 65 anni, prevalentemente residenti in Valle di Susa, tranne tre torinesi.

Ha avuto inizio a settembre 2016 e si è concluso a febbraio 2017. Gli incontri sono stati organizzati prendendo spunto dal manuale per facilitatori (Strohm K, Nesa M.,2005), utilizzando metodi attivi, filmati, letture, testimonianze e strumenti tratti dalla ricerca.

A quali bisogni ha risposto il percorso?

  1. Il bisogno di concentrarsi su di sé: “dopo una vita da comparsa ecco finalmente un ruolo di primo piano con possibilità di udire la nostra voce intima, intensa, pronta a svelare chi siamo noi sibling”. Alcuni hanno intravisto negli incontri la possibilità di condividere, crescere, confrontarsi e darsi delle spiegazioni, altri sono stati spinti dalla curiosità, ma anche accompagnati da una certa, seppur legittima, diffidenza, forse perché segnati nel profondo dalla storia personale “è da anni che non mi aspetto nulla, prendo ciò che viene”. Altri ancora sono stati accompagnati da un desiderio di leggerezza o dalla speranza di dare significato ad alcuni vissuti interiori come il senso di colpa o la paura del futuro. All’inizio i fratelli hanno faticato a comprendere che gli incontri erano uno spazio riservato alla loro persona, per tutti risultava difficile mettere al centro se stessi, senza parlare del fratello/sorella disabile.
  2. Il bisogno di esprimere e condividere vissuti, ricordi, emozioni, del presente o legate alla crescita e storia personale. I fratelli hanno accolto l’invito a rendersi protagonisti di questo percorso, raccontandosi senza vergogna, facendo emergere ciò che li aveva maggiormente segnati nell’infanzia, rivivendo emozioni antiche o presenti a cui dare nuovi significati attraverso il dialogo con altre persone segnate da medesime esperienze. Pur arrivando da storie e vissuti diversi, l’accettazione incondizionata del fratello/sorella è ciò che ha accomunato la maggior parte di loro. Molti hanno raccontato di essere cresciuti i primi anni con il fratello/sorella disabile, condividendo giochi, avventure, litigate, così come si fa normalmente fra fratelli e per questo la disabilità è diventata parte della normalità con cui fare i conti tutti i giorni. Dalle reazioni dei genitori, di chi stava intorno a loro e poi dei compagni di classe e amici hanno cominciato a percepire la disabilità come un evento devastante e dall’accezione negativa. Questo sguardo disincantato, così diverso da quello dei genitori, contraddistinto invece da vissuti traumatici e di perdita, ha consentito al sibling di vedere e credere nelle potenzialità del proprio fratello: “sono gli altri che mi hanno fatto notare la disabilità di mia sorella, per me era solo mia sorella”, “i miei la proteggevano soltanto, sono io che ho suggerito soluzioni alternative”, “con me si sbroglia, non fa tanti capricci ed io lo sprono ad essere più adulto”.
  3. Il bisogno di dare voce alla sensazione di invisibilità vissuta in famiglia. E’ comprensibile che i genitori polarizzino maggiormente le proprie attenzioni verso il figlio svantaggiato, se non altro per ragioni pratiche, tuttavia ogni figlio attraversa momenti nella vita in cui dovrebbe potersi sentire un figlio unico, sperimentando la certezza che, proprio per lui, i genitori sarebbero disposti ad abbandonare tutto il resto: per un’ora, per un giorno, per un periodo, per un avvenimento importante della sua vita. (Tosi M.T., 2006), “sono stato lasciato solo a dare significato a quello che succedeva”, “mi sono sentito caricato di responsabilità troppo presto ed ho perduto gli aspetti spensierati della mia infanzia”.
  4. Il bisogno di informazione su argomenti legati alla cura del familiare: il gruppo è diventato luogo in cui mettere in comune i rispettivi saperi sull’uso dei servizi sociali, educativi, sanitari, sulle procedure e iter amministrativi, sui benefici previdenziali, sulle risorse del territorio; l’esperienza individuale, anche quando caratterizzata da fatica e burocrazia, è diventata patrimonio del gruppo.
  5. Il bisogno di esprimere il desiderio, ma anche la paura, di prendersi cura del proprio fratello dopo la morte dei genitori. Molti di loro sono stati fortemente influenzati dalle aspettative familiari che comprendevano, spesso, non solo l’occuparsi al meglio del fratello, ma anche la realizzazione del progetto di vita desiderato dai genitori, portando avanti scelte, modalità, abitudini adottate da questi ma non condivise. Altri si sono sentiti più liberi di costruire la propria vita, seppur consapevoli di dover entrare in gioco nel momento di necessità: “mi sento in colpa perché io ho una mia famiglia, i miei interessi, per ora non riesco a rinunciare a nulla per lei, ma penso che sia necessario che io viva la mia vita adesso, quando sarà tempo ci penserò e ci sarò, ma non mi posso annullare, non posso sprecare ora energie per pensare a problemi del futuro, mi servono ora”.

 

Essere sibling non è una patologia

Il percorso ha confermato che essere sibling non è una patologia, ma una condizione che accompagna tutta la vita e che può aggiungere valore e senso al modo in cui si affrontano le sfide. Sono emersi molti sentimenti positivi, come amore, orgoglio, allegria e senso di gratitudine.

Molti hanno riconosciuto con soddisfazione di avere una scala di valori e delle priorità differenti dal pensare comune, altri di avere la capacità di dare meno importanza ai piccoli problemi e di essere meno esigenti e giudicanti; altri ancora hanno esplicitato il senso di gratitudine per aver avuto la possibilità di crescere con una persona disabile riconoscendo che quello che sono diventati lo devono in gran parte a questa presenza nella propria vita. Così scrive un fratello alla propria sorella recentemente mancata: “Ti ringrazio per tutti i sorrisi che mi hai donato quando, bimbo ostinato, volevo insegnarti a parlare. Ti ringrazio per gli abbracci che mi elargivi quando, adolescente illuso, tentavo di mostrarti come camminare meglio. Ti ringrazio, per tutti gli sguardi colmi d’amore e di gratitudine che a me volgevi quando, adulto consapevole, tanto avrei desiderato che tu potessi tornare a cibarti con le tue mani. E infine il più grande grazie per tutto ciò che tu hai insegnato a me….vivere. Tuo fratello”.

  1. Don Meyer è il fondatore del modello Sibshop (risultato della fusione delle parole sibling e workshop) e direttore del Siblings support project di Seattle.
  2. Kate Strohm  è una ricercatrice ospedaliera, educatrice, counsellor e giornalista ed essa stessa sibling. In Australia dal 1999 ha fondato gruppi di sostegno per sibling bambini.